HANNA ARENDT: LA NATALITÀ COME PRINCIPIO COSTITUENTE
SANTE MALETTA
Alla fine della prefazione della prima edizione de Le origini del totalitarismo, scritta nell’estate del 1950 e caratterizzata da un grande pathos intellettuale, Hannah Arendt afferma che i tre fenomeni su cui l’opera incentra la sua analisi – antisemitismo, imperialismo e totalitarismo – “hanno dimostrato […] che la dignità umana ha bisogno di una nuova garanzia, che si può trovare soltanto in un nuovo principio (principle) politico, in una nuova legge sulla terra (a new law on earth), destinata questa volta a comprendere l’intera umanità, pur essendo il suo potere strettamente limitato, radicato in e controllato da entità territoriali nuovamente definite” (Le origini del totalitarismo, Edizioni di Comunità, 1996, p. LIII).
Queste righe hanno intrigato teoricamente numerosi interpreti e studiosi. Che cosa intende Arendt per “una nuova legge sulla terra”? Il termine “legge” va inteso in senso normativo o descrittivo? In che modo tale legge comprende tutta l’umanità se si radica in entità territoriali che la limitano? Credo che una risposta a tali domande richieda la previa chiarificazione di un’altra espressione, altrettanto intrigante, che compare nella medesima opera, quella del “diritto di avere diritti”.
Arendt sostiene innanzitutto che il diritto di avere diritti diviene consapevole nel momento in cui compare “il gruppo umano più caratteristico della storia contemporanea” (ivi, p. 395): i profughi. La condizione di profugo innanzitutto non dipende da atti commessi o da opinioni espresse bensì da fattori ascrittivi di tipo etnico o sociale dei quali ai profughi non si può chiedere di render conto. E proprio tale forma di innocenza, intesa come “assoluta mancanza di responsabilità”, diviene il presupposto della perdita del loro status politico e di ogni diritto. È in tali frangenti che i diritti umani mostrano la loro ambiguità, in quanto essi possono essere efficaci nella protezione degli esseri umani solo laddove vi sia un’autorità politica disposta a garantirli. Il profugo quindi è un apolide. Non appartenendo ad alcuna comunità politica non sottostà ad alcuna legge; in tal modo la sua vita può venire calpestata impunemente, come anche la storia recente mostra. Senza patria il profugo perde quel tessuto sociale all’interno del quale l’essere umano agisce e opera conquistando un’identità unica all’interno dello spazio plurale intersoggettivo.
Come dice Arendt, “la privazione dei diritti umani si manifesta soprattutto nella mancanza di un posto nel mondo che dia alle opinioni un peso e alle azioni un effetto” (ivi, p. 410). Il diritto ad avere diritti va quindi inteso come possibilità di “vivere in una struttura (framework) in cui si è giudicati per le proprie azioni e opinioni” (ivi, p. 411), come la possibilità di esercitare la responsabilità personale in uno spazio intersoggettivo. In tale modo ai profughi è negato l’aspetto della vita activa più decisivo ai fini della costruzione della personalità e del mondo umano, vale a dire l’azione. Questa, che è sempre dialogica, è possibile solo a partire da un punto di vista, da un posto occupato nel mondo comune che rende “pertinente” (significative) il discorso attraverso l’espressione di opinioni capaci di incontrarsi e scontrarsi – un punto di vista in grado quindi di aprirsi eventualmente a una prospettiva più ampia. Il profugo invece è un “individuo generico, rappresentante nient’altro che la propria diversità assolutamente unica, spogliata di ogni significato perché privata dell’espressione e dell’azione in un mondo comune” (ivi, p. 418). In definitiva ciò che si rivela disastroso nella storia contemporanea non è tanto la privazione di specifici diritti quanto la perdita di una comunità politica.
È chiaro che nell’espressione “diritto di avere diritti” il termine “diritto” compare in due diverse accezioni. Secondo alcuni studiosi la seconda occorrenza indicherebbe quei diritti umani che, seppur proclamati solennemente nelle carte internazionali, divengono esigibili solo all’interno di comunità giuridico-politiche, cioè quei diritti che sono garantiti come diritti civili e politici per i cittadini di uno stato. La prima occorrenza di “diritto” rimanderebbe invece a una dimensione morale che accomuna tutti gli esseri umani in quanto tali. Ogni individuo avrebbe quindi il diritto morale di essere cittadino di uno stato e di godere dei diritti che gli spettano in quanto tale. Nel caso dei profughi ciò significherebbe di fatto attribuire a ciascuno di loro il diritto morale di essere naturalizzati da parte di uno stato nazionale o di una futura possibile entità statale cosmopolitica.
Per quanto ragionevole possa essere, tale proposta ermeneutica sembra incompatibile con due giudizi che Arendt esprime in modo chiaro. In primo luogo gli stati nazionali nella prima metà del Novecento si dimostrarono incapaci di accogliere la maggior parte dei profughi e dei rifugiati politici. Inoltre per Arendt lo stato nazionale per sua stessa natura non può accogliere e naturalizzare individui stranieri oltre un certo limite, pena il suo stesso sfaldamento. In ogni caso il modello politico dello stato nazionale è entrato in una fase di inarrestabile declino. In secondo luogo, anche se fosse realizzabile un’entità statale cosmopolitica, Arendt nutre comunque forti dubbi sulla sua auspicabilità, come si evince dagli scambi epistolari col suo maestro e amico Karl Jaspers.
C’è poi una difficoltà teorica a pensare il diritto di avere diritti in termini morali. quale diritto di uguaglianza da giustificarsi sulla base di una concezione teleologica della natura umana. Arendt evita difatti di parlare di natura umana in senso metafisico in quanto ciò presuppone di porsi di fronte all’essere umano con una domanda inadeguata all’oggetto, vale a dire “che cos’è?”, al posto di quella che lo stesso oggetto impone, vale a dire “chi è?”. Se non possiamo conoscere la natura umana, possiamo però conoscerne fenomenologicamente le condizioni di esistenza, vale a dire “la vita stessa, natalità e mortalità, mondanità (worldliness), pluralità e la terra” (Vita activa, Bompiani, 1991, p. 10). Queste condizioni non ci determinano in modo assoluto e quindi non possono spiegare che cos’è l’essere umano, tuttavia identificano i fattori che rendono umana la sua vita per come la conosciamo, individuando non solo i limiti dell’esistenza ma anche le sue condizioni di possibilità. Agli esseri umani però non si darà mai la possibilità di una piena autodeterminazione in quanto “ogni cosa con cui vengono in contatto diventa immediatamente una condizione della loro esistenza” (p. 8).
Ci troviamo di fronte a una consapevole ed esplicita proposta di filosofia dell’esistenza, il cui principio fondamentale suona così: “Il ‘che cosa’ non spiega mai il ‘che’” (Che cos’è la filosofia dell’esistenza?, Jaca Book, 1998, p. 53). Tale affermazione chiarisce la mossa teorica arendtiana nel senso di un anti-idealismo radicale per cui il pensiero non può mai trarre la sua mossa originaria da se stesso ma sempre da circostanze date.
Dopo tale chiarimento di carattere teorico in merito all’impianto filosofico arendtiano possiamo tornare al diritto di avere diritti. Esso non può venire giustificato attraverso il ricorso a una nozione di natura umana dalla quale potrebbe in qualche modo venire inferito. D’altra parte – come mostra la sorte dei profughi – l’essere umano non sembra di per sé godere di una qualche sacralità o dignità quando viene privato di un’appartenenza politica e di una protezione giuridica, a meno che non si dia qualcosa capace di generare diritto al di là (o al di qua) della norma positiva.
In realtà è nella condizione umana stessa che possiamo individuare un principio capace di generare diritto al di qua della norma positiva. Le attività che costituiscono la vita activa sono radicate nella natalità, in particolare l’azione, infatti “il cominciamento inerente alla nascita può farsi riconoscere nel mondo solo perché il nuovo venuto possiede la capacità di dar luogo a qualcosa di nuovo, cioè di agire” (Vita activa, p. 8 ). In tal senso la natalità è la categoria centrale del pensiero politico visto che l’azione è l’atto politico per eccellenza.
Ma come la natalità può fungere da principio di diritto? Per rispondere a tale questione, occorre ampliare il discorso e farsi aiutare da quegli autori che si sono fatti seriamente interrogare dal fenomeno della natalità anche grazie alla felice provocazione arendtiana. Bisogna anzitutto chiarire in che senso la natalità è “principio”. Essa è anzitutto espressione di un principio di “naturalità”, cioè di datità, il quale è ineliminabile dall’esistenza e che rimanda a un’alterità creatrice irriducibile ma non per questo priva di relazione con la creatura. Come dice Fabrice Hadjadj, la natalità presenta i caratteri di singolarità, evenemenzialità e non anticipabilità (Ma che cos’è una famiglia?, Ares, 2015). L’essere umano non è origine di sé, non può totalmente auto-determinarsi: l’origine ci precede e l’esistenza ci è data attraverso la nascita come un dono di cui ci “parla” il nostro stesso corpo alla luce di un’interrogazione filosofica che tenga conto dell’esperienza e delle conoscenze scientifiche. In polemica con Heidegger, Arendt non rinuncia alla categoria di creaturalità in quanto questa è indispensabile per comprendere l’alterità che abita la condizione umana e inoltre la sua costitutiva relazionalità. È tale dipendenza creaturale che impedisce la riduzione dell’essenza a mero prodotto dell’esistenza, come invece avviene ad esempio nell’esistenzialismo sartriano.
La singolarità consustanziale alla nascita non esclude quindi la relazione con l’origine creatrice, alla quale si accompagna una relazionalità intersoggettiva derivata ma fondamentale. Come dice Silvano Zucal, “il chi individuale e particolare di ogni essere che viene al mondo è da subito inserito in una rete relazionale, in un mondo comune verbalmente qualificato. Assume i tratti intersoggettivi della filialità che evocano immediatamente maternità e paternità, così come sororità e fratellanza. Rete relazionale primaria che poi si estenderà alla socialità più ampia nell’ottica arendtiana della ‘pluralità’” (Filosofia della nascita, Morcelliana, 2017, pp. 339-340). Per Arendt la natalità va quindi pensata necessariamente insieme all’esistenziale della pluralità.
Nei due fattori della condizione umana sui quali stiamo focalizzando l’attenzione – la natalità e la pluralità – agiscono due diverse nozioni di alterità. Nella natalità opera un’alterità intesa come origine eterogenea rispetto all’individuo umano che viene generato, pur presupponendo il concorso dei due genitori. Un’origine che Arendt preferisce identificare con un “Creatore” per evidenziare il carattere di donazione della nascita – la sua evenemenzialità e la sua singolarità – la quale, nel momento in cui stabilisce l’irriducibile identità di ogni creatura, tuttavia non nega la somiglianza tra gli esseri umani proprio a motivo della loro medesima provenienza. In altri termini la creazione degli esseri umani avviene attraverso una via, quella della generazione, che impedisce per sua natura ogni forma di anticipazione (progettazione, programmazione) del nuovo nato, il quale è quindi un individuo umano unico e purtuttavia simile agli altri individui umani. È proprio tale somiglianza che rende possibile la pluralità di individui uguali ma diversi e dà senso all’azione intesa come prassi dialogica. Ogni singola identità può quindi costituirsi solo grazie all’opera di un’alterità che si incarna nella pluralità umana che è l’altra faccia della singolarità. Se la natalità è quindi principio di singolarizzazione, la pluralità è principio di fenomenalizzazione: non ci fossero gli altri individui, esseri simili ma diversi da me, non ci sarebbe la possibilità di manifestare la mia natura attraverso l’azione dialogica e quindi non ci sarebbe alcuna esistenza umana.
Da ciò che s’è detto si evince che quindi la natalità è principio in senso forte, in quanto in essa abita la facoltà di dare inizio (archein). L’origine non sta nel passato ma continua a essere presente e fungere da principio dell’azione. In definitiva nel pensiero arendtiano la natalità emerge come un esistenziale ibrido, in quanto, se dipende dal fatto naturale della nascita, si emancipa tuttavia dalla necessità naturale attraverso l’azione che essa stessa fonda. Come dice Miguel Vatter, la natalità indica la cesura della vita nella vita, la faglia che distingue ma allo stesso tempo connette natura e cultura ( Natality and Biopolitics in Hannah Arendt, “Revista de ciencia política”, vol. 26, n. 2, 2006, pp. 145-146). Essendo naturale, la natalità non presuppone l’esistenza di uno spazio politico e quindi sussiste anche nei “tempi bui” in cui l’azione dialogica non trova le condizioni per sussistere; essa è, in altri termini, la categoria chiave per una politica che viene dopo la crisi della forma politica. Se nella prospettiva arendtiana la libertà non è qualcosa di naturale in quanto presuppone l’esistenza di uno spazio isonomico prodotto dalla legge, essa tuttavia trova nella natalità un solido fondamento antropologico che ne rispetta l’intrinseca essenza: “La natalità è l’unica categoria che soddisfa queste due (apparentemente contraddittorie) condizioni: appartenere alla vita e però non essere sottomessa a una regola o a una legge (e perciò essere ‘miracolosa’)” (ivi, p. 154).
In definitiva la natalità, considerata insieme alla pluralità, possiede un potere costituente che istituisce il diritto di avere diritti, vale a dire la possibilità effettiva di agire discorsivamente, di esprimere e discutere opinioni e quindi di essere trattati sulla base delle proprie azioni come esseri responsabili. In sintesi la natalità ha il potere di generare jus a partire dalla physis senza presupporre un nomos. Nella loro opera congiunta natalità e pluralità generano una comunità politica paradossale intesa come spazio dell’azione dialogica che include, in forza della loro mera umanità, anche coloro che, in quanto apolidi, sono esclusi dal godimento dei diritti civili e politici. Una comunità fragile e minimale che abbisogna di leggi e istituzioni per poter sussistere – quelle istituzioni e leggi alle quali fa implicitamente riferimento la seconda occorrenza del termine “diritto” nell’espressione “diritto di avere diritti”. In definitiva, attraverso quella paradigmatica forma di azione che è la promessa il diritto di avere diritti si manifesta come generazione di patti e alleanze tra individui e popoli che costituisce il genere umano come un tutto rispettoso delle differenze, come un’unità nella pluralità.
In conclusione che ne è di quella “nuova legge sulla terra” dalla quale abbiamo preso le mosse? Nella sua oscurità tale formula potrebbe alludere a un’istanza morale e politica. I fenomeni dai quali tale istanza prende corpo – l’antisemitismo, l’imperialismo e il totalitarismo – possono infatti essere visti come l’ultimo esito di quella “alienazione del mondo” che costituisce per Arendt la cifra fondamentale dell’esistenza moderna e che si esprime nel desiderio di “evadere dalla condizione umana” (Vita activa, p. 2). Quella legge fungerebbe quindi da monito morale e principio politico relativo al rispetto e alla conservazione delle costanti antropologiche fondamentali (come la natalità e la pluralità), che costituiscono tanto i limiti quanto le condizioni di possibilità dell’esistenza, di fronte a quell’“uomo del futuro” che, afferma Arendt, sembra “posseduto da una sorta di ribellione contro l’esistenza umana come gli è stata data […] che desidera scambiare […] con qualcosa che lui stesso abbia fatto” (Vita activa, p. 2).
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