HANNAH ARENDT: AMOR MUNDI E ONNIPOTENZA DELLA BANALITÀ

TOMMASO CICCARONE

La traiettoria filosofica di Hanna Arendt viaggia sull’alterità; sulla questione dell’essere donna e dell’essere ebrea, all’interno del Nichilismo europeo.: la filosofia come il porre questioni nell’immanenza dell’Essere o, come direbbe Nietzsche, nel deserto del mondo contemporaneo.

In-differenza, annichilimento dell’inter-esse, superfluità e abbrutimento dell’uomo e della “polis”; amputazione della trascendenza, “cristallizzazione del male”: è questo il terreno della traiettoria; questo, l’humus pestilenziale del nichilismo.

In questo terreno agonistico e agonizzante, la Arendt (che non voleva essere rubricata come “filosofa”) reclama una coraggiosa (non disperata) resilienza ricostruendo una immaginata “prima radice” (come Simone Weil, un’altra vittima o “paria” dell’Intellighentja occidentale) lungo la direzione tracciata dai suoi maestri, ma dentro un solco tutto suo: provocatorio, evocativo e a suo modo “vocazionale”.

Innanzitutto la vocazione al “non-luogo” della polis greca nella contemporaneità e chiedersi come è possibile abitare la contemporaneità recuperando la ricchezza differenziale e ontologica dell’Umanità; la dignità delle e nelle differenze nell’essere donna, ebrea e “filosofa” allo stesso tempo.

Dopo aver seguito i corsi ipnotizzanti di Martin Heidegger a Marburgo, giunta ad Heidelberg, Hanna si laurea con il suo nuovo mentore Karl Jaspers con una tesi coraggiosa, lei ebrea, su S. Agostino. Proprio Heidegger aveva affrontato dieci anni prima durante l’insegnamento a Friburgo il tema dell’esistenza in Agostino, passando per San Paolo, Lutero e Kierkegaard, fino a condensare il suo tema nel famoso corso estivo del 1921.

Qui per la prima volta emerge il concetto di “cura” come fondamento dell’esistenza dell’esserci dell’uomo nel Mondo, interpretando non solo Agostino ma anche l’Etica Nicomachea di Aristotele.

Il contributo sovversivo di Arendt sta nell’aver a sua volta reinterpretato il punto di vista antropologico di S. Agostino sganciandolo dall’orizzonte heideggeriano di una ontologia negativa o inchiodata all’”essere per la morte”, bensì marcando l’accento sul carattere di trascendenza dell’uomo che in questa valle di lacrime chiamato Mondo può instaurare la speranza di riscatto dalla negatività del male attraverso l’amore. Beninteso: il principio di speranza qui sostenuto non ha nulla a che fare con un paralizzante “oppio dei popoli” bensì è una speranza costruita, “activa” dentro le macerie e brandelli di realtà.  La tesi infatti si concentra proprio su quel capitolo VII delle Confessioni in cui Agostino riflette sul rapporto “tragico” Creatore-creatura sulla evidenza e presenza del male.

Agostino per questo è assunto come interprete attuale del contemporaneo: questo è il taglio ulteriormente sovversivo di Arendt; Agostino testimone del disagio e spaesamento ma nella tensione verso la Beatitudine (anticipazione per altro di Spinoza: altro “paria” all’interno della comunità non solo olandese del XVII sec ma soprattutto ebraica) e Amore e dolore ovvero l’amore nel dolore; sono temi ricondotti a partire dalla riflessione sulla sua propria condizione di donna rifiutata e, in ultimo, allontanata tra il 1930 e 33, quando il suo maestro e amante prese posizione a favore del Nazismo.

Non è a mio avviso casuale che proprio in questa occasione la Arendt si sia riversata, in odore di esilio prima francese e poi newyorkese, in un’altra storia sotto forma di narrazione-interpretazione scomoda e provocatoria in cui ha investito il proprio pathos. È storia di Rahel Varnhagen, una donna, intellettuale ebrea vissuta in Germania a cavallo tra XVII e XIX sec, nel trapasso dall’Illuminismo al Romanticismo. L’argomento scelto riguarda il punto di vista critico di Arendt riguardo la cosiddetta teoria della assimilazione dell’ebreo alle consuetudini e norme identitarie di una nazione come la Germania, in cui l’antisemitismo era una realtà discriminante…ed era la norma; il nomos.

La riflessione verte sulla differenza, nello spirito ebraico, tra il paria e il parvenu, ovvero tra l’emarginazione di chi è coerente con la propria identità e l’accettazione di chi è disposto a tradirla e tradirsi e quindi disumanizzarsi.

Varnhagen ha avuto agli occhi di Arendt la doppia tragedia di annullare la propria identità per essere accettata e nello stesso tempo disperdersi in una esistenza all’insegna dello spreco di sé, come parvenu in amori non corrisposti perché ebrea. Primo sintomo della perdita di dignità dell’ebreo ma, per la Arendt, dell’umanità nella sua universalità, sperimentando su di sé l’umiliazione del paria.

Questi primi due incipit mi portano a puntare sul senso profondo, secondo me, del pensiero “filosofico” di una intellettuale che non amava l’etichetta di filosofa. Forse avrebbe scelto di appartenere, in vena di etichette o catalogazioni, a quella categoria così decisiva che Gramsci aveva chiamato “intellettuale organico”, calato nell’immanenza contraddittoria della politica, nella sua accezione più larga attinente al valore greco (e aggiungo: aristotelico) della polis.

Origini del Totalitarismo, infatti, scritto e finito nel 1949 (4 anni dopo la Guerra e 4 anni prima della Morte di Stalin: è la Arendt che specifica questo inciso) ma pubblicato nel 1951, è un testo che non può essere inteso banalmente come saggio storiografico, perché qui comincia ad essere dissodato il terreno per l’urgenza di quel “non-luogo” (non utopia ma direi “laboratorio teorico”) che è il concetto di Polis, in un mondo segnato da ciò che lei ha chiamato la “cristallizzazione del male”. In tempi di onnipotenza del male è necessario riflettere sul punto di non ritorno dell’Umanità: similmente a quanto un altro ebreo, Hans Jonas, nel 1989 farà con una celebre conferenza in cui si si chiede come sia possibile pensare “il concetto di Dio dopo Auschwitz”. Jonas risponde sostenendo che l’uomo dovrebbe recuperare quel compito che proprio Dio ha dato all’uomo ovvero quello di essergli compartecipe nella creazione, a sua immagine e somiglianza, esercitando in sintesi quel principio di responsabilità a cui l’uomo è venuto meno con e dopo Auschwitz. Jonas pensava di dover tornare a Kant e agli imperativi della ragione. Arendt pensa invece di servirsi di Agostino e tornare all’amor mundi, refrattaria a imperativi categorici che suonino come ricette formali e astratte (con buona pace del vecchio di Königsberg!).

È possibile pensare all’Europa, al Mondo, come Societas o Polis in cui gli uomini –e le donne e tutti i paria del globo terraqueo- tornino a essere animali parlanti ovvero a costruire relazioni discorsive, razionali, inter-essanti per sé e per l’intera Communitas?

Per Heidegger “solo un Dio ormai può salvarci”; per Hanna Arendt solo l’uomo in mezzo ad altri uomini, può salvarsi dall’estinzione spirituale.

Nell’equazione Nazismo-Comunismo, che tanto ha scandalizzato la comunità dei filosofi di professione, la Arendt ha cercato la logica dietro i fatti, le contraddizioni e soprattutto al di là di quella “muta indignazione” che è pur sempre un atto indegno di disimpegno politico.

Sono questi gli anni in cui riflette sulla condizione ebraica all’interno della critica a quel sionismo che inizialmente aveva abbracciato ma che evidentemente ha criticato per le sue derive “fasciste”. Sono anni in cui, infatti, il movimento sionista, dal 1949 e con Ben Gurion in testa, teorizza uno Stato di Israele con una minoranza araba in Palestina, ammettendo lo spostamento necessario della popolazione araba: è questo che la Arendt considera “degno di una organizzazione fascista”, abbracciando invece la teoria, dettata dal senso comune, della convivenza (l’amor mundi di cui parlava Agostino e di cui parlerà lei stessa in Vita Activa).

In Origini del Totalitarismo sono passati in rassegna i tre aspetti della politica moderna: antisemitismo, imperialismo e totalitarismo che sono gli affluenti del naufragio dei diritti umani.

Le origini dell’antisemitismo, in questa ricostruzione, sono individuate a partire dagli anni ’30 del XIX secolo, da quando cioè lo Stato si è prostituito all’idea metafisica di Nazione; da quando è venuta meno la parola libertaria (il logos) come discorso politico. Se tutto ruota attorno all’idea di Nazione, si sgretolano le differenze e gli ebrei da quel momento perdono la loro funzione pubblica; perdono la loro voce, la parola, il logos. (per inciso: la Arendt dissemina i suoi scritti di ricorrenze della definizione aristotelica di uomo come “animale politico dotato di parola”).

In oltre è dall’Illuminismo (paradossalmente: ma per la Arendt non è affatto un paradosso) ovvero dalla Rivoluzione Francese che si prepara il terreno germinale dell’antisemitismo moderno attraverso l’idea/ideologia dell’Uguaglianza (Fratellanza e Liberta!) che riduce la persona a uomo generico (anticipazione dell’uomo-massa del XX sec), spersonalizzandolo. Questo fenomeno di omologazione alla causa progressiva e “progressista” della storia dell’Umanità, ha innescato il fenomeno della assimilazione dell’identità ebraica asservita alla Potestas (come direbbe Spinoza) dello Stato di Diritto.

La Arendt vede in questo il sintomo della disintegrazione della Societas e della Potentia (ancora Spinoza!) della libertà, conatus, cupiditas, amor, desiderio e operatività degli individui nelle loro differenze e potenziali “umani – troppo umani”.

Questo stato di cose genera la perdita dell’inter-esse perché l’ebreo ha perso il fondamento differenziante del Giudaismo, come parvenu, per diventare “innocuo ebreuccio” (Arendt).

Dalla disgregazione sociale, e quindi morale, si è imposta la “superfluità” delle istanze politiche degli ebrei ma, è bene specificarlo, della superfluità dell’uomo tout court. È così che si è arrivati alla “cristallizzazione del male” e alla sua “banalità” normale.

Oggi è lo scientismo la forma post-moderna del totalitarismo che si impone silenziosamente come “ideologia della soppressione del soggetto” (J. Lacan) o come “violenza morbida” (G. Anders, tra l’altro ex marito della Arendt)

I Lager sono i luoghi in cui si è realizzato l’apice del nichilismo: l’eliminazione della prima radice dello spirito; lo svuotamento dell’interesse collettivo: persa ogni trascendenza l’uomo non è più mortale ma è diventato o superfluo o uccidibile.

In Vita Activa la Arendt, in continuità con le sue premesse ne Le origini del Totalitarismo, vuole indagare il possibile recupero della matrice dell’inizio e della libertà. Qui ancora Agostino è presente nella sua riflessione: è il teologo che non è mai venuto meno all’urgenza drammatica e umana della filosofia, che diceva che “affinché ci sia un inizio è stato creato l’uomo”.

Il titolo originario del 1958, nelle intenzioni dell’autrice, doveva essere “Amor Mundi” ma poi è diventato nell’edizione inglese The Human Condition e in quella italiana del 1964 “Vita Activa. La condizione umana”.

In ogni caso Vita Activa esprime la condizione del Bios Politikos (Bios, ovvero spirito, e non Zoè ovvero vita animale) o di ciò che Agostino chiamava Vita Actuosa o negotiosa. Da qui la Arendt enuclea le autentiche dimensioni ontologiche dell’esistenza umana: lavorare, operare e agire. Queste dimensioni ontologiche sono tali se innestate nel tessuto, altrettanto ontologico, della Polis che deve essere l’idea-guida della filosofia contemporanea, in vista del recupero del discorso e dell’agire comunicativo del e per l’inter-esse comunitario.

La politica, in senso largo, si configura come luogo del poiein, della costruzione operativa e quindi della prassi umana intersoggettiva.

Alla domanda sull’Essere di Heidegger si sostituisce quella sull’uomo immerso nella “Moltitudine” (ancora una volta alludo a Spinoza che vedeva gli individui non come automi condizionati passivamente ma come portatori di desiderio e apertura verso e con gli altri, pur nel tessuto instabile e sempre a rischio di conflittualità o peggio di massificazione attorno o sotto i pregiudizi istintivi e pulsionali).

Si conferma il debito ma anche, a mio avviso, il rovesciamento della posizione “stanziale” del discorso di Heidegger. Per il maestro, che aveva condotto un memorabile corso a Marburgo nel 1925 proprio sul VI Libro dell’Etica Nicomachea di Aristotele, nel quale era giunto a svuotare proprio la base etica della condizione umana, l’essere dell’uomo è invece “gettato” e autenticamente raccolto nella cura di sé come essere-per –la morte; per l’allieva l’essere dell’uomo è essere-con, ovvero inter-esse, è alla lettera Ethos (che scongiura il Tanathos).

Il lavoro di Heidegger va oltre Aristotele perché questo si è attenuto alla individuazione delle tre componenti dell’essere umano (la theoria, la praxis e la  poiesis) dando risalto a quella della teoria, e non piuttosto ricercando una radice comune di tali condizioni;

Heidegger trova questa radice nel carattere temporale dell’esistenza umana e l’Etica è quindi intesa come preoccupazione per l’apertura al mondo come temporalità e “gettatezza”.

Questa condizione concreta dell’essere dell’uomo, come esser-ci (il famoso Da-sein), è segnata da caratteristiche come:

  • Avere da essere” (Zu-Sein) (modo di rappoertarsi al proprio essere attraverso la decisione di sé): inevitabilità della decisione; Peso della Libertà
  • Cura” (Sorge) (intenzionalità/appetitività) del poter-essere: progettualità, libertà e angoscia.

L’esserci è quel particolare ente per il quale ne va sempre del proprio essere che

per Heidegger è la condizione autentica del raccogliersi e accettare il carattere aperto dell’essere come essere-per –la morte e destino; l’inautentico è la dispersione nel Pubblico che lui definisce la condizione della “chiacchiera”.

La sua allieva gli rimprovererà, rileggendo Agostino e Aristotele, proprio questo: è l’agire pubblico e intersoggettivo, attraverso pratiche discorsive e operative, la reale condizione di autenticità e non una praxis concentrata solo come cura di sé o del raccogliersi meditando sulla propria condizione come pura essere temporale, finito e destinato alla morte.

Tra l’altro Heidegger dopo la seconda guerra Mondiale, nel pieno del nichilismo tedesco, era arrivato smontare l’idea ottimistica o costruttiva di umanesimo in una famosa quanto discutibile Lettera sull’Umanesimo (1946).

Hanna Arendt, all’opposto, recupera la condizione operativa dell’uomo nella centralità della categoria dell’homo faber che si compie, aristotelicamente, solo attraverso il discorso e il poiein.

Qui non è annunciata una categoria astratta di una filosofia sganciata dall’attenzione alle contraddizioni della società, non solo di allora ma valide a maggior ragione nell’oggi. L’homo faber è una categoria che si oppone decostruttivamente a ciò che Arendt ha chiamato homo laborans, meccanizzato e reificato da una superiore logica di controllo sistemico che non ha nulla a che fare con un logos inter-essante ma con una…Intelligenza Artificiale che produce, a suo modo, “una fabbrica di morti” nel sistema manageriale e performativo egemone e omogeneizzante!

Insistendo sull’homo faber la Arendt si oppone al dualismo tra vita activa e vita contemplativa di matrice platonica. Alla luce di questa opposizione la Polis, in quanto communitas, si basa sulla Praxis (azione) e sul Lexis (discorso): il terreno della libertà e della parola; il circuito aperto della libertà della parola e di espressione.

Più sarà diventata facile –dice Arendt in Vita Activa- la vita in una società di consumatori o di lavoratori più sarà difficile rimanere consapevoli della necessità da cui è guidata, anche quando la pena e lo sforzo, manifestazioni esteriori della necessità, sono riconosciuti a stento”: ecco perché la Polis deve costituire il necessario inizio o non-luogo; per procedere e focalizzarsi sul presente, a partire dalla memoria e dalla narrazione, in una perenne tensione verso l’essere e la Beatitudine (Agostino)

Il luogo (o non-luogo) della trascendenza, dimenticata e disumanizzata nella logica illogica del totalitarismo, deve essere rammemorato.

Ancora una volta il rimando ad Agostino è vivo: la communitas è possibile sulla base dell’amore, dell’amor mundi, inteso anche in senso aristotelico come philia politiké, rispetto e incontro con l’altro da sé.

In verità lo stesso Marx, ebreo, aveva collocato la sua idea di communitas nella trascendenza (messianica)dell’autoestinzione del Capitalismo borghese. La Arendt, però, rifiuta questa visione non solo messianica ma soprattutto meccanicistica per cui, venuta meno l’alienazione del lavoro disumanizzante, l’umanità riconquisterà la dignità e la libertà.

Il punto è che il tempo libero è la dimensione in cui la creatività è nulla. Ed è nulla perché il sistema totalitario del capitalismo ha fatto sì che il tempo libero, l’Otium, fosse il tempo del consumo iperbolico e della consunzione di sé, in cui gli appetiti sono e affinché siano disinnescati famelicamente, in un continuo ricambio produttivo e consumistico (i desideri, e non solo gli Yogurt, hanno la loro scadenza prossima). Ecco perché il consumismo è la nuova forma di totalitarismo, senza che ciò possa esercitarsi o esprimersi necessariamente come “fabbrica di morti”.

Questa è la lezione, secondo me, di Arendt sull’essenza della cosiddetta “banalità del male”: lo spreco di trascendenza; lo svuotamento del discorso, del Logos, della Polis! La mortificazione dell’Eros a vantaggio del principio di prestazione, il tanathos/morte, alla base di ciò che Freud nel 1929 ha chiamato “disagio della civiltà”).

In una parola: l’annichilimento di ogni interesse.

“Il risultato – si legge ancora in Vita Activa – è quello che è eufemisticamente chiamata cultura di massa, e il disagio radicato e profondo che la caratterizza è una insoddisfazione universale…La nostra intera economia è diventata un’economia di spreco, in cui le cose devono essere divorate ed eliminate con la stessa rapidità con cui sono state prodotte, ammesso che il processo stesso non giunga a una fine improvvisa e catastrofica”.

Quella del processo al gerarca nazista Eichmann non è il semplice resoconto di un reportage giornalistico.

La banalità del male è pubblicato nel 1963, come ricostruzione inizialmente giornalistica del processo tenuto a Gerusalemme, due anni prima, contro il responsabile della deportazione degli ebrei nei campi di sterminio.

Il libro, va detto, fu attaccato sia da parte del mondo ebraico-sionista sia dalla cosiddetta “sinistra”. È nota infatti la posizione accusatoria di Arendt verso i Consigli ebraici che si prostrarono nel collaborazionismo con lo stesso nazismo nel reclutare le vittime sacrificali tra i propri “confratelli” per le deportazioni nei campi di concentramento dopo le Leggi di Norimberga. L’altra accusa, non meno anomala e scandalosa da parte della Arendt, fu contro il Governo di Ben Gurion che avrebbe pilotato l’intero processo con il pretesto di legittimare l’attacco contro il mondo arabo in Palestina (a quanto pare colluso con il Nazismo).

Si è detto prima della distanza critica della Arendt con l’appartenenza ad una forma di nazionalismo sionista. Ma qui è in gioco una interpretazione più profonda del processo, a mio avviso, al di là cioè del ridurre il processo stesso alla interpretazione a difesa delle “vittime”, gli ebrei; al di là della troppo banale visione manichea tra vittime/carnefici.

Eichmann è interpretato come la stereotipizzazione del male. Ma non un male diabolico, bensì un male “normale”, banale appunto!

Eichmann è descritto nella sua incapacità ottusa di distinguere il bene dal male; dall’incapacità di parlare, nel senso che la sua parola è ridotta a semplice cliché, fatta di slogan e “frasi fatte” (addirittura alludere alla morale kantiana del dovere e obbedienza sopra ogni cosa).

Eichmann è insomma l’incarnazione della desogettivizzazione dell’uomo. La Arendt, nella sua ricostruzione processuale, vuole puntare sull’importanza di condannare la deresponsabilizzazione in cui è caduto il soggetto, l’individuo che non ha obbedito al sistema e agli ordini nazisti: troppo comodo semplificare sull’accusa dell’intero popolo tedesco! Anche questo banalizza non solo il processo, ma soprattutto la profondità di una seria riflessione sui fatti.

Nel 1968 Arendt, sulla scia della sua ricerca di senso sull’uomo e sulla rigenerazione della politica, comincia a scrivere (sono gli anni della contestazione studentesca e della Guerra in Vietnam) la “Vita della mente” (rimasto incompiuto nella sua Terza e ultima parte a causa della morte improvvisa nel 1975). L’idea di scrivere questo testo nasce da due macro interrogativi di base, dopo il tramonto della metafisica e le diverse “morti di Dio” in cui la filosofia si è nel frattempo imbattuta:

  1. La politica è filosofia?
  2. Una donna è filosofa?

La risposta, secondo la mia lettura soprattutto di un testo come Vita Activa e l’incompiuto La Vita della Mente, sta nel potere della identità nella differenza: la filosofia non solo è donna ma è costitutivamente (e aristotelicamente) politica: perenne discussione e messa in discussione affinché nulla sia compiuto.

ENDOXA - BIMESTRALE FILOSOFIA

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