LA TENTAZIONE E LA FRAGILITÀ DEL BENE TRA GIOCOSITÀ ED ERRANZA ESISTENZIALE
MICHELE ILLICETO
Più che cercare di definire la tentazione, è interessante invece rispondere alla domanda perché l’uomo è soggetto alla tentazione, perché è tentabile. La risposta è molto semplice e immediata, chiara ed evidente: è tentabile perchè è libero. Ma la libertà, proprio perché tale, non è mai perfetta. Né rende tali. Infatti, prevede l’errore. Questo sta a significare che è a causa della sua libertà, che l’uomo è fragile. Ecco, allora un primo paradosso utile per capire che cosa è la tentazione: ciò che ci rende grandi, cioè la libertà, e anche ciò che ci rende fragili.
Si hanno così i primi due ingredienti che rendono possibile l’esperienza della tentazione: la libertà e la fragilità, strettamente legate tra di loro. In mezzo sta, un terzo elemento: la perfettibilità. Questo significa che l’uomo è un essere incompiuto. Quindi fallibile, direbbe Ricoeur. E, fin quando non si compie, si coglie come errante, posto com’è in una condizione di incessante oscillazione tra la tanto agognata compiutezza e la reale condizione di continua insoddisfazione.
E così, ecco aggiunte un quarto e un quinto carattere: l’imperfezione, meglio letta come provvisoria impossibilità di essere ciò che vorremmo essere, e l’erranza, intesa come un’oscillazione tra possibilità opposte che, a volte, ci fanno vivere la tentazione come un’esperienza profondamente dolorosa.
Ed è in questa oscillazione che ci scopriamo caratterizzati da un altro importante elemento – il sesto – per definire la tentazione: il desiderio, l’anelito, l’eros inteso come tensione, figlio – come ci ha ricordato giustamente Platone – di Penìa e Poros. È perché siamo desideranti che siamo dunque tentabili!
E che cosa vorremmo essere? Qual è l’oggetto del nostro desiderio? A tale domanda si possono dare tre tipi di risposte. La prima dice che vorremmo essere ciò che “possiamo” essere, e in questo caso la tentazione si colloca tra l’essere che siamo e l’essere che possiamo, tra “essere” e “poter-essere”. La seconda dice, invece, che vorremmo essere ciò “per cui” siamo fatti, e che di conseguenza non possiamo non volere, visto che è un dovere imposto da una nostra presunta natura. La terza dice, da ultimo, che si tratta di ciò che, di volta in volta, decidiamo di essere senza sapere di preciso, e aprioristicamente, che cosa essere, nel senso di che cosa sia giusto essere. In questo caso, come ha preteso affermare Nietzsche, siamo totalmente innocenti, qualsiasi esito abbia la tentazione, per il semplice fatto che non siamo stati liberi di scegliere di esistere.
Beh, la filosofia, già con Aristotele ha liquidato questo dilemma, dicendo che ciò a cui tendiamo è la felicità. E, se su questo tutti sono d’accordo, non tutti lo sono nel definire con esattezza in che cosa essa consista e che cos’è che ci rende felici. Infatti, vogliamo essere felici, ma non sappiamo che cosa si rende tali. Era questo ad es. il problema di Pascal.
A questo punto, si capisce che la tentazione va rapportata a un sesto elemento che è la giocosità. Infatti, la tentazione si colloca nella partita che ognuno è chiamato (costretto) a giocare per essere felice. Si, la tentazione gioca con noi perché fondamentalmente siamo essere giocati in un gioco che non abbiamo scelto di giocare. Siamo essere ludici, nel senso che giochiamo e siamo giocati e siamo giocati perché siamo giocabili.
Siamo, cioè, sia coloro che giocano sia coloro che sono giocati, cioè siamo allo stesso tempo i soggetti che giocano e la posta in gioco. Ma non siamo gli autori del gioco. E qui la tentazione non solo si complica, ma rimanda a qualche aspetto di cui non siamo padroni, come ha sottolineato per certi aspetti Spinoza, chiamando in causa, secondo il suo ferreo determinismo, il famoso “Conatus essendi”. Resta però il fatto che nella tentazione in gioco siamo noi: tentati e giocati.
A questo punto, dopo tutti questi ingredienti, forse è possibile offrire una definizione sommaria di tentazione: essa è una proposta di felicità, che però deve fare i conti, e quindi va in urto, con quella tensione razionale per la quale ci dirigiamo verso ciò che pensiamo sia giusto per noi e che in quanto tale ci rende felice, nella consapevolezza però che non abbiamo alcuna garanzia di arrivare con assoluta certezza a una definizione universale di ciò che ci rende felici. Incertezza che fa di noi un gioco in cui siamo noi la posta in gioco senza essere noi gli autori del gioco. Aspetto quest’ultimo su cui si sono soffermati autori che, da Schopenhauer a Camus, per arrivare a Cioran, hanno messo in evidenza anche l’illusorietà della tentazione, introdotta dalla religione con il solo fine, come ha ricordato Foucault, di controllare e disciplinare le coscienze
Infatti, come facciamo a identificare il che cosa ci rende felice? Il fatto che la felicità non sia ben definita, rende oscillanti le nostre scelte e giocosa la nostra esistenza, esposta all’erranza e quindi alla fallibilità, quale terreno fertile della tentazione.
Quindi, la tentazione prende spessore a causa del fatto che cerchiamo una felicità che di per sé è indefinita. È come se fossimo esposti a una incertezza di fondo, a quella che oggi si chiama assenza di fondamenti. La conseguenza è che più siamo incerti e più siamo oggetto di tentazione. Abbiamo così raggiunto un altro elemento – il settimo – da far entrare in gioco nella definizione della tentazione: essa è la situazione di incertezza che scaturisce dal fatto che la felicità è poco definibile.
Quest’ultimo ingrediente, però, chiama in causa il livello conoscitivo e la possibilità di definire il vero e il falso. La tentazione, in tal modo, non investe da subito l’ambito dell’agire pratico delle nostre scelte, ma ancor prima riguarda anche il nostro grado di conoscenza.
Dato questo quadro di elementi, verrebbe da dire che forse la prima tentazione, come recita un bel libro di E. Cioran (La tentazione di esistere), è proprio quella di esistere. Infatti, potremmo rinunciare a questa vita, concepita come una stupida commedia, come un inutile gioco, oppure tentare di esistere, nonostante sia difficile riuscire a dare senso a ciò che non ha senso, resistendo alla tentazione di cedere al fondamento assente.
Solo se ci lasciassimo tentare dalla vita, forse toglieremmo fondamento alla stessa tentazione, neutralizzandola. Perché, lasciarsi tentare di esistere è l’unico modo che ci resta per giocare con la nostra libertà, e vincere la falsa idea che l’esistenza sia solo un gioco che non porta a niente.
Potremmo superare questo dilemma solo se sposiamo la prima grande visione offertaci dalla filosofica al suo sorgere: quella aristotelica, che, sulla scia di quella platonica, ci dice che siamo incompiuti proprio perché ci manca quel bene per cui siamo fatti. Quindi, se il Bene è il fine di ogni agire che tende al proprio compimento, vale la pena lasciarci tentare di esistere, visto che l’esistenza non è un gioco ma un vero bene, anzi il primo e l’unico bene che ci resta Questo vuol dire che la tentazione si gioca anche in rapporto al bene.
Abbiamo così trovato il vero perno attorno a cui gira tutta la discussione relativa alla definizione della tentazione. Oltre ai vari elementi elencati sopra, è il bene il vero elemento che permette all’uomo di essere tentato. Nella tentazione, quindi, in gioco non siamo solo noi, ma noi come il bene affidato a noi. Il bene siamo noi. Il bene che siamo e il bene verso cui aneliamo come ciò che ci permette di essere compiuti e quindi felici.
A questo punto forse una definizione di tentazione la possiamo finalmente dare: è tentazione tutto ciò che tende a farci travisare, in modo diretto o velato, il bene come oggetto della nostra felicità. In tale direzione, la tentazione – che non ha nulla di preminentemente religioso, in quanto, considerata come una forma alternativa di felicità – alla fine si delinea come una forma non-razionale di felicità. Che poi la felicità intesa su piano religioso coincide con quella concepita sul piano razionale, è un discorso che qui non può essere affrontato.
La tentazione, in tal modo, si arricchisce di una ulteriore elemento, che poi risulta il più centrale de tutti: essa è tutto ciò che ci pone contro la nostra ragione. L’aver intravisto questo è stato di certo uno dei meriti di Kant e, prima di lui, di Socrate, Platone e Aristotele.
Riepilogando i caratteri in base ai quali ogni discorso sulla tentazione andrebbe svolto, ecco che ci troviamo davanti i seguenti elementi: libertà, fragilità, fallibilità, perfettibilità, incertezza, desiderio, felicità, bene, razionalità.
Ma anche ciò non basta. Ci manca un ultimo tassello, perché il bene va in primo luogo conosciuto e poi voluto. Né vale il monito di Socrate secondo il quale il bene basta conoscerlo per volerlo.
A questo punto abbiamo due piani dove si insinua la tentazione: il primo riguarda la conoscenza, il secondo riguarda la libera scelta e, quindi, il piano del libero volere. Ma se si approfondisce meglio il discorso, ci si accorge che, in fondo, la vera tentazione è quella che si colloca nel frammezzo tra la ragione che conosce e la volontà che sceglie: se io so che il bene è questo, ecco che la tentazione si rivolge alla volontà, inducendola a non seguire il comando della ragione, ma a seguire altro, ad esempio le passioni, o assecondare le nostre pulsioni.
In questo senso, se da un lato la ragione non pare essere suscettibile di tentazione, la volontà invece lo è molto di più, proprio perché spetta ad essa dare il tocco finale: quello di scegliere.
Chi, dunque, si trova a un bivio non è la ragione ma la volontà, non la ragione teoretica ma quella pratica. Questo aspetto lo ha messo molto bene in evidenza Kant, il quale proprio per questa fragilità della volontà, ha parlato di imperativo categorico.
In questa luce, l’obbligatorietà del dovere etico appare come una via per districarsi nel tempo dell’erranza, in cui la tentazione ha gioco facile. Solo una ragione in grado di far ragionare la volontà e di convincerla, e non soltanto di condizionarla al meglio, impedisce alla tentazione di distoglierci dal comando della ragione medesima che è quello di fare il bene, in modo che – nonostante tutte le perplessità di Platone esposte nel famoso dialogo Eutifrone – possiamo essere felici nel farlo.
Quindi, la tentazione è un attentato contro la ragione, senza che sia però la ragione ad essere tentata. Un tentativo fatto per convincere la volontà a non seguire la ragione nel fare il bene, il quale, anche se difficile, alla fine è ciò che davvero paga e ricambia.
Ma manca un ultimo tassello. Infatti, se ad essere tentata è la volontà, e se questa è tentata contro la ragione, più complesso è rispondere alla domanda: chi tenta? E qui dobbiamo far entrare in gioco quella parte di noi che si oppone alla ragione. A differenza dei conflitti della ragione con se stessa, i conflitti tra ciò che è razionale ciò che non lo è, è il campo di battaglia di ogni forma di tentazione.
E si noti che, mentre la religione parla di tentazione, perché presuppone un tentatore, la filosofia morale parla di conflitti e dissidi interiori alla persona, che si trova dibattuta se seguire il comando della ragione, che mi dice di perseguire il bene, o le lusinghe delle passioni, degli impulsi che invece mi suggeriscono di soddisfare nell’immediato quel bene che invece la ragione vorrebbe rimandato nel tempo.
Insomma, l’uomo è tentabile perché è un essere libero e razionale, un essere fragile e incompiuto, che, nella propria esposizione ed erranza, nella propria itineranza incerta, tende al bene, come a ciò che lo compie e lo rende felice. Un bene, tuttavia, che può essere travisato da una parte di me che la ragione non riesce a controllare e, forse, a volte, come ci ha insegnato Freud, neanche conoscere. Per tale motivo, l’unico antidoto ad ogni forma di tentazione è educare la ragione ed educare alla ragione, per farne buon uso, sì da evitare, come insegna l’etica aristotelica, gli eccessi, facendo nascere in noi un corredo di virtù utili a non fare del male a noi, agli altri e al mondo circostante.
Tale compito è ancora più urgente oggi, in un tempo in cui, per liberarci da un modello di “ragione forte”, abbiamo sposato il modello di “ragione debole”. In alternativa ad ambedue, per arginare il campo immenso delle vecchie e nuove forme di tentazione, ci vorrebbe, sulla scia del criticismo kantiano, un modello di “ragione problematica”, di una ragione cioè che, se da un lato è consapevole dei propri limiti, allo stesso tempo è sempre consapevole anche delle proprie possibilità nel guidarci ad arginare tutte quelle offerte di felicità che, proprio perché collidono con la nostra natura razionale, invece, ci rendono infelici.
E, allora, si capisce che, forse, la vera tentazione è quella di farci rinunciare a pensare, a usare la ragione. A non essere ciò che siamo, cioè essere razionali. Eppure, di fronte sia alla nostra condizione di fragilità, dovuta alla nostra libertà, sia alla fragilità del bene, come la chiama Martha Nussbaum, la ragione resta l’unica guida che nel mare magnum delle tentazioni ci può garantire di uscirne, non dico indenni, ma almeno il meno feriti possibile!
ENDOXA - BIMESTRALE FILOSOFIA TEOLOGIA Endoxa luglio 2023 Michele Illiceto Tentazioni
