LA VITA, LA SALUTE E MALATTIA:UNA RIFLESSIONE A PARTIRE DA LA COSCIENZA DI ZENO

SV-F-166copia1-1024x753SILVIA D’AUTILIA

Quando Zeno Cosini, protagonista del romanzo La coscienza di Zeno di Italo Svevo, decide d’intraprendere il percorso di cura col Dottor S. è ormai arrivato a una lacerante conclusione: la sua tormentata dipendenza dal fumo ha prodotto una seconda forma di malattia, vale a dire l’ossessione – mai soddisfatta – di fumare l’ultima sigaretta e poi smettere per sempre. La storia della sua malattia è dunque la storia della sua opprimente relazione col vizio del fumo, dal quale ha cercato a più riprese di liberarsi con esiti vani. A partire da questo assunto, Zeno Cosini deve fare i conti con la frustrazione di non sapere autoregolarsi, di essere un inetto per sé medesimo, incapace di controllare pulsioni e desideri. Ecco il motivo per cui entra nella sua vita il Dottor S. che lo esorta a raccogliere le sue riflessioni nel diario che poi diventerà il libro in questione.

“La malattia era una convinzione e io nacqui con quella convinzione”, scrive Zeno Cosini. L’intento dell’opera è duplice: primo, portare all’attenzione del lettore una declinazione di malattia autopercepita interiormente come tale, e secondo, collegare questo male con il nuovo contesto curativo della psicoanalisi nel frattempo diffusasi in Italia e arrivata anche a Trieste.

Per ironia della sorte, infatti, il 1923 – di cui quest’anno ricorre il centenario – è sia l’anno di pubblicazione de La coscienza di Zeno, sia l’anno di uscita de L’io e l’Es di Sigmund Freud. In questo testo Freud mette a punto la cosiddetta “seconda topica” della sua teoria psicoanalitica e individua tre luoghi fondamentali in cui si svolge l’attività psichica: l’Es, “il calderone di impulsi ribollenti” alla base di ogni vita umana; l’Io, governato dal principio di realtà e con funzione mediatrice tra i moti pulsionali dell’Es e la coscienza morale; e il SuperIo, simbolo di tutti i divieti, le regole e i meccanismi censori con un effetto di contenimento sulle energie vitali del soggetto.

Zeno Cosini è incuriosito da questa nuova cura, che si dice “abbia particolare efficacia sui nevrotici”. Eppure, fin da principio, il Dottor S. non riesce a entrare nelle simpatie di Zeno Cosini. È infastidito da quel suo presuntuoso occhio indagatore e scrutatore “che vuole aggruppare tutti i fenomeni di questo mondo intorno alla sua grande teoria”. La diagnosi per Zeno Cosini infatti arriva presto: sindrome edipica, (che per la psicoanalisi è una sorta di ritornello diagnostico fisso.) L’incapacità di liberarsi del vizio del fumo è il riflesso della sua competizione ininterrotta nei confronti del padre. Un SuperIo potentissimo, rappresentato dal riferimento paterno, inibisce qualsiasi sua volontà e decisionalità: la sua inettitudine altro non sarebbe che il mancato raggiungimento della figura paterna. Tutto nella cura del Dottor S. è ricondotto a questa diagnosi. Eppure il tempo passa ma Zeno Cosini non migliora. Anzi. Si rende conto che deve iniziare a liberarsi anche da questa cura con la quale aveva sperato di poter guarire dai suoi mali storici: il tutto gli era parso “solo una sciocca illusione, un trucco buono per commuovere qualche vecchia donna isterica”. Così, quando Zeno Cosini fa sapere che interromperà il trattamento al Dottor S., quest’ultimo replica, con la sua proverbiale presunzione e saccenza, che ritornerà da lui non appena si accorgerà quanto vicino a uno stato di benessere e guarigione era stato capace di condurlo. È probabilmente con questa risposta che il lettore si trova di fronte al nucleo centrale del testo di Svevo: la continua tentazione di raggiungere uno stato di salute appagante e soddisfacente. E come, se non tramite uno sguardo esterno che osserva, diagnostica e propone modelli di cura e guarigione?

Per questo salute e malattia devono essere concetti ben distinti e distanti, per vivere il desiderio costante di stare bene, e se non bene, di capire cosa impedisce di esserlo, subito, rapidamente, senza perdere tempo. Non c’è modo di attraversare con calma l’esperienza della sofferenza. O meglio, non è possibile vivere la sofferenza al di fuori dell’etichetta di paziente-cliente. Non è mai l’ora di quell’homo patiens di cui parlava anche il neurologo austriaco Viktor Emil Frankl nell’omonimo libro del 1950. Dal positivismo a oggi le società sono organizzate in modo tale da mettere in atto una sistematica caccia al dato clinico su cui basare la diagnosi e far seguire i relativi protocolli standardizzati d’intervento. A lungo andare però questa pronta anestesia del dolore ci ha reso completamente estranei all’esperienza stessa della sofferenza: non la sappiamo più ascoltare e interrogare; la mettiamo immediatamente a tacere come un ospite sgradito, come un tale che parla senza avere titolo o voce in capitolo, come un difetto del meccanismo di cui sbarazzarsi quanto prima. È un affare talmente ingombrante che deleghiamo la sua elaborazione e risoluzione all’esterno e a terzi, perfettamente estranei a noi, come nel caso di Zeno Cosini.

Ma perché l’arte di soffrire è tanto demonizzata? Perché c’è tanta urgenza di proclami di serenità? Ivan Illich nel famoso testo Nemesi medica del 1974 riconduce il problema alla volontà politica di sottrarre creatività al singolo, in nome dell’omologazione alla norma e a una sempre maggiore efficienza dei soggetti. Il concetto di salute, infatti, è tutt’uno con quello di cultura. Ogni cultura, in quanto insieme di significati che amministrano i popoli, prescrive un suo specifico modo di mangiare bene, di dormire bene, di far l’amore bene, di essere buoni cittadini e così via. Ci sono talmente tanti saperi specialistici che l’individualità del singolo è soffocata nella morsa della norma continua: stare bene è diventato sinonimo di corrispondenza a tutte queste indicazioni.

Così, accanto a quelle che Freud chiamava eros e thanathos, ovvero pulsioni di vita e di morte, per identificare le due principali energie vitali della psiche umana, potremmo senza dubbio aggiungere – come prodotto culturale della contemporaneità – la tensione costante verso l’adeguamento alle regole del ben-essere e del ben-vivere, a discapito di ogni inettitudine, reale o autopercepita.

Questa è la pandemia di iatrogenesi di cui parla Illich, che scrive: “Durante le ultime generazioni il monopolio medico sulla cura della salute si è sviluppato senza freni, usurpando la nostra libertà nei confronti del nostro corpo. La società ha trasferito ai medici il diritto esclusivo di stabilire cosa è malattia, chi è o può diventare malato e cosa occorre fargli”.

Modernità e progresso – per quanto portatori di straordinarie rivoluzioni nel superamento di molti morbi e malattie – hanno però avuto come risvolto negativo quello di trasformare il dolore, o meglio la sua personale autopercezione, in un problema tecnico e oggettivo, da risolvere con i ferri del mestiere, anziché lasciarlo ancorato alla imprescindibile e soggettiva condizione esistenziale. Tra il curante e il curato si frappongono linee guida, protocolli e indirizzi, che naturalmente hanno sì come beneficio quello di agire secondo precedenti rilevazioni statistiche e sull’evidence-based-practice (EBP), ma ridimensionano, se non annullano completamente, la globale visione somatopsichica della persona, così come il vecchio rapporto ippocratico 1 a 1.

Lo abbiamo visto bene in pandemia: quello che era previsto per uno andava bene per tutti, a prescindere da effetti collaterali o criticità. Il singolo poteva essere sacrificato sull’altare dell’interesse comune, nonostante la cura potesse potenzialmente essere più dannosa della malattia.

La visione olistica della persona, ovvero della malattia, sono annullate a favore della frammentazione iperspecialistica delle diverse branche mediche. I tecnici, tanto di moda a livello politico, sono iperpresenti anche a livello di benessere, in quelle che sono ormai a tutti gli effetti delle tecnocrazie della salute.

Ne sia una riprova il fatto che, col passare del tempo, si scrivono sempre più numerose storie della medicina e dei progressi del sapere medico, ma poche o pochissime storie del dolore e di cosa faccia soffrire gli uomini: come se la radice costitutiva dell’essere umano non fosse il pathos ma la ragione che lucidamente controlla, regola e razionalizza ogni stato d’animo. Lo scriveva benissimo Georges Canguilhem, quando, già nel 1943, nel saggio Il normale e il patologico, faceva notare come ogni concettualizzazione della vita non sarebbe possibile senza la sua dimensione di insuccesso e dolore. È sempre il pathos a fondare il logos e mai viceversa, in opposizione a un concetto di malattia come variazione quantitativa di salute, come volevano i positivisti.

È a partire da questi studi che Canguilhem apre la strada alle ricerche in ambito medico del suo più grande allievo Michel Foucault, al quale si deve – come noto – uno smascheramento degli interessi sottesi nelle tecnologie della cura nell’Europa moderna. Dopo Storia della follia nell’età classica e Nascita della clinica, è il 1974 a essere considerato per così dire “l’anno ippocratico” foucaultiano: tiene al Collège de France il corso su Il potere psichiatrico ed è invitato a Rio de Janeiro a tenere una serie di conferenze sui modelli di politica sanitaria europei. “La salute, divenuta un oggetto di consumo, che può essere prodotta da laboratori farmaceutici, da medici e consumato da altri – i malati veri e quelli potenziali – acquista un’importanza economica e si è introdotta nel mercato. Così il corpo umano è entrato due volte sul mercato: prima di tutto mediante il salario, quando l’uomo ha venduto la sua forza lavoro e poi con l’intermediazione della salute.”

Le ricerche di Foucault portano alla conclusione che come esiste una politicizzazione della salute, esiste parimenti una politicizzazione della cura, che prescrive con quali processi e percorsi si ritorna in possesso di sé. Entrambi questi rapporti salute/malattia e malattia/guarigione hanno così smarrito il loro autentico significato filosofico-esistenziale di epimeleia (cura in quanto impegno di vita), e autovalidazione di cosa procuri benessere o malessere.

Così, oltre ad aver soppresso e anestetizzato il dolore, le nostre società hanno anche definitivamente creato e fomentato l’antagonismo tra vita e malattia come non fossero pagine dello stesso foglio o dimensioni pressoché coincidenti. La strategia è stata quella di ridurre tutto al sintomo, isolandolo dalla realtà sociale in cui il soggetto vive. Assolutizzare il sintomo permette di considerare la malattia come un fenomeno scientifico da risolvere e superare con uno specifico determinismo terapeutico.

Zeno Cosini lo capisce bene solo alla fine della sua relazione curativa col Dottor S. al quale scrive: “La vita somiglia un poco alla malattia come procede per crisi e lisi ed ha i giornalieri miglioramenti e peggioramenti. A differenza delle altre malattie la vita è sempre mortale. Non sopporta cure. Sarebbe come voler turare i buchi che abbiamo nel corpo credendoli delle ferite.” È uno dei passaggi finali con cui il protagonista conclude il suo diario per il Dottor S. il quale – come noto – pubblicherà integralmente il testo con l’intento di vendicarsi dell’interruzione delle cure da parte del suo paziente, a ulteriore volontaria dimostrazione, da parte di Svevo, della frivolezza della cura.

Ma Trieste non è solo la città di Italo Svevo. Per ironia della sorte è anche la città in cui circa cinquant’anni dopo La coscienza di Zeno si avvia, nella pratica, una volontaria rottura della contrapposizione salute/malattia. A partire dalle esperienze nei manicomi di Gorizia e Trieste, Franco Basaglia non solo capisce che la follia appartiene all’uomo alla stessa maniera della ragione, ma soprattutto comprende che il confine tra i due ambiti è così precario che molto facilmente sono fattori di ordine contestuale e ambientale a determinare o intensificare l’una o l’altra. Per questo motivo il muro del manicomio, simbolo proprio del confine netto tra ragione e sragione, non ha più motivo di esserci. Né hanno alcun motivo di esserci tutte le strutture chiuse che ancora oggi fanno passare la cura attraverso i concetti di ‘istituzionalizzazione’ ed ‘emarginazione’. Né ha alcun motivo di esserci una cura unicamente risolta nella chimica del farmaco, sebbene, mai come oggi, sia sotto gli occhi di tutti il rapporto sempre più inversamente proporzionale tra la facile prescrizione farmacologica e il tempo dedicato all’ascolto della persona e all’autoascolto di sé.

La coscienza di Zeno lo insegna esplicitamente: ogni qual volta siamo tentati dal voler raggiungere la verità sulle nostre debolezze e fragilità, aspettando che arrivino come verdetto oracolare dall’esterno, perdiamo una buona occasione per interrogarci e conoscerci interiormente. C’è una forma di grande salute consistente nel non voler essere sani e performanti ad ogni costo: è la salute di chi umilmente accetta di essere umano, quindi facilmente cagionevole, vulnerabile ed esposto ai forti venti della vita.

ENDOXA - BIMESTRALE FILOSOFIA

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