L’ULTIMA SIGARETTA DELL’INTELLETTUALISTA ETICO
PIER MARRONE
“Dammi la castità e la continenza, ma non ora”. Così si esprime Agostino ne libro VIII delle Confessioni, un libro dove l’autobiografia si confonde con il colloquio intimo, eppure pubblico, con Dio. La confessione di Agostino è quella di un uomo incontinente, come si dice, ossia di un agente che sa, addirittura in maniera riflessiva, di essere abitato da una volontà debole e di essere quindi pronto a soccombere al suo giudizio errato. Il giudizio errato è in questo caso quello che produce un’azione che non costituisce l’azione migliore che sarebbe in potere dell’agente di fare, azione possibile della quale l’agente è a conoscenza.
Siamo qui in presenza di un autentico dilemma etico: l’agente fa il male pur sapendo quale sia il bene ed essendo nelle sue capacità di farlo. Secondo Donald Davidson, che a questi problemi ha dedicato un articolo che è diventato molto citato e discusso (Come è possibile la debolezza della volontà?), un’azione rivela una debolezza della volontà quando “un agente agisce in modo incontinente nel compiere x, se e solo se (a) l’agente compie x intenzionalmente; (b) l’agente crede che ci sia un’azione alternativa y a lui aperta; (c) l’agente giudica che, tutto considerato, sarebbe meglio fare y anziché x”. Ma se l’atto del volere implica quello di cercare di ottenere (e, in effetti, non si può autenticamente volere se non a queste condizioni), allora volere x significa che, ceteris paribus (ossia fatte salve altre circostanze) l’agente farebbe y, se potesse.
Capite che invece Agostino ci dice di sapere che cosa sarebbe bene fare e che è in suo potere farlo, ma tuttavia non lo fa. L’incontinenza o debolezza della volontà è una sfida per la maggior parte delle concezioni etiche che i filosofi adottano. Infatti, i filosofi sono quasi naturalmente attratti da quella posizione che si chiama intellettualismo etico. È una posizione secondo la quale nessuno opera volontariamente il male. Fare il male è semplicemente una questione di ignoranza, poiché si fa il male credendo sia il bene. Quindi fare il bene è una questione che a che fare con la conoscenza e non con le attitudini, i sentimenti, la natura individuale. Ma a questo punto sorge un problema, segnalato anche dalla fortuna dei manuali di self-help e da tutte i vari terapisti che sono a disposizione di ogni abitante del pianeta, dallo psicologo comportamentale, allo psicoanalista lacaniano, allo sciamano, a chi legge i tarocchi o i fondi di caffè: il problema è che i comportamenti irrazionali sembrano essere piuttosto comuni. Per comportamenti irrazionali non intendo quelli dove c’è una qualche informazione sbagliata del genere che sbagli strada per raggiungere la tua destinazione, bensì piuttosto quei comportamenti dove il soggetto sa chiaramente quello che è il bene e non lo opera. Ossia: tu sai che una cosa deve essere fatta perché costituisce l’azione che è bene per te, eppure non la fai e anzi fai un’azione che direttamente e immediatamente ti danneggia.
Queste azioni vengono chiamate akratiche, un termine tecnico che deriva dalla parola greca akrasia, che significa assenza di forza. Sai che non dovresti fumare, eppure prefiguri il piacere della lunga boccata di nicotina che arriva ai tuoi polmoni assieme a molte altre sostanze tossiche. Se sei un tabagista (e se lo sei stato, come un alcolista, lo rimani tutta la vita), quanto più è lontana la sigaretta precedente, tanto più forte sarà la vertigine di questi prime inalazioni. Ma non deve essere, è chiaro, troppo lontana, perché altrimenti insorge una crisi di astinenza. Eppure la crisi di astinenza da nicotina non dura più di sette giorni e molti (io ad esempio) che sono pure capaci di non bere alcol per anni, di non tenere una televisione in casa per decenni, che sono consapevoli di molti altri danni che potrebbero procurare a sé stessi ingurgitando dolci e carboidrati dei quali pure sono ghiotti, soccombono per una specifica debolezza della volontà al piacere dell’ultima sigaretta. Così Zeno Cosini, il protagonista del capolavoro di Italo Svevo, La coscienza di Zeno, rievoca i primi approcci del suo percorso di tabagista con la tipica falsa coscienza dei fumatori: “Risorge solo ora perché non sapevo prima che potesse avere importanza. Ecco che ho registrata l’origine della sozza abitudine e (chissà?) forse ne sono già guarito. Perciò, per provare, accendo un’ultima sigaretta e forse la getterò via subito, disgustato.” Sondo la mia debolezza ancora questa volta. Sarà di sicuro l’ultima, come la prossima. E così via. In poche righe, Italo Svevo registra tutta l’ipocrisia di chi è preda della debolezza della volontà. L’idea di riconoscerla è una maniera di indulgervi: un capolavoro di cortocircuito mentale, insomma.
La debolezza della volontà entra in gioco in tutte quelle situazioni dove si prefigura qualcosa che potrebbe essere individuato come una dipendenza. La dipendenza ha indubbiamente degli aspetti fisici che possono essere individuati con le varie tecniche di scansione cerebrale, perché fanno risaltare le aree del nostro cervello deputate al piacere. I lampi di piacere sono visualizzabili e, almeno in me, generano sempre una qualche forma di empatia. Vorrei essere lì in quel cervello, ma naturalmente il problema è il prezzo da pagare. Questi aspetti fisici che la debolezza della volontà soddisfa non sono certo gli unici. Ci sono, altrettanto importanti, anche degli aspetti emotivi. Questi sono presenti in tutte le situazioni dove la nostra supposta volontà si spezza di fronte alla tentazione (ma anche cedere alla tentazione è un prodotto della nostra volontà). Si pensi all’ossessione amorosa dell’amante che non si rassegna alla fine di una relazione sentimentale. Il volto di chi si è perduto popola costantemente i suoi pensieri. Se ne ricava qualcosa di buono? Naturalmente no. Se ne può fare a meno. No, di nuovo. Il volto di chi se è andato via da noi “va a formare l’atmosfera di quella cosa che si chiama ‘io’”, come ha scritto Clarice Lispector.
I problemi che si coagulano attorno alla debolezza della volontà sono dunque enormi e da sempre hanno richiamato l’attenzione dei filosofi. La prima estesa descrizione filosofica del fenomeno dell’akrasia si trova nel dialogo platonico Protagora, dove Socrate difende uno degli aspetti centrali della sua etica, ossia il fatto che nessuno agisce in maniera errata volontariamente, ma non erano certo mancate riflessioni antecedenti. Basti pensare alla vicenda di Ulisse, narrata nel XII libro dell’Odissea, che si fa legare all’albero maestro della nave per ascoltare il canto ipnotico e irresistibile delle sirene, ma senza rischiare di essere costretto compulsivamente a raggiungerle e morire. L’esempio di Ulisse mette in chiaro una cosa importante, ossia che l’akrasia non è un’azione, ma una caratteristica del carattere di chi compie quell’azione, ossia una sua mancanza di autocontrollo.
Aristotele nell’Etica Nicomachea quando esamina le opinioni comuni su questo problema chiarisce che chi è preda della debolezza della volontà, l’incontinente e l’intemperante, agisce in maniera contraria all’uomo saggio, il quale invece basa i suoi giudizi che sono all’origine delle sue azioni principalmente sulla ragione. In termini generali, la descrizione di Aristotele è corretta, se non altro perché la debolezza della volontà è un fenomeno che riguarda tutti gli esseri umani. Nel mondo greco, del resto, si sviluppò una riflessione intensa sulla possibilità di esistenza della figura del saggio, ossia l’uomo guidato unicamente dalla conoscenza. soprattutto a partire dalla riflessione stoica, che alcuni pensavano come un modello di riferimento normativo, ma impossibile da riscontrare nella realtà. In effetti, c’è una distinzione da fare tra debolezza della volontà e incontinenza.
La debolezza della volontà è un tratto del carattere che fa parte della natura individuale, almeno a fronte di circostanze specifiche, mentre l’incontinenza può essere un comportamento occasionale di chi non è normalmente una persona akratica. Ad esempio, io posso essere impegnato in una soddisfacente relazione monogama (anche se credo faccia parte del senso comune che si tratta di un ossimoro), non avere intenzione di tradire la mia partner, però se mi ritrovo solo con Gigi Hadid che dimostra un insensato interesse per avere un rapporto sessuale con me, mi posso immaginare di cedere. Del resto, le fantasie masturbatorie grazie alle quali il più delle volte siamo capaci di fare sesso non riguardano quasi mai il partner con il quale siamo momentaneamente accoppiati, ma sempre qualche altra persona. Potrebbe quindi essere che l’incontinenza non evidenzi un tratto del carattere di una persona, ossia una sua scarsa predisposizione al dominio di sé, bensì piuttosto una capacità di autocontrollo che è meno che perfetta. Ma allora questo non significa che siamo tutti incontinenti? Forse, come diceva la filosofa Amelie Rorty, questo indica un tratto dell’akrasia, quello di essere sempre settoriale o regionale. Ci sono persone che esibiscono un grande autocontrollo nella propria vita professionale, ma che indulgono a comportamenti akratici in quella personale. Sono dei professionisti ammirati nella vita pubblica, ma magari si ingozzano di cibo o di alcol o di nicotina.
Per descrivere in maniera approssimativamente completa queste persone dovremmo essere capaci di menzionare sia le loro brillanti attitudini pubbliche sia i loro vizi o le loro debolezze private, perché nessuna delle due possono isolarsi per disegnare anche soltanto uno schizzo delle loro personalità. Siamo allora sia capaci di decisioni razionali sia di decisioni che razionali non sono. Ma sono realmente irrazionali queste decisioni akratiche, incontinenti, impulsive, come talvolta in maniera equivoca si dice? Forse la risposta deve essere cercata in una differente predisposizione alla selezione delle scelte per le azioni che è presente in ciascuna personalità e che potrebbe rimandare alla presenza di due sistemi, uno predisposto ai pensieri veloci e un altro disegnato per i pensieri lenti. Pensieri lenti e veloci è il titolo di un libro di Daniel Kahneman, psicologo cognitivo e premio Nobel nel 2002 per l’economia, che descrive un sistema automatico e un sistema riflessivo che ogni decisore umano utilizza per selezionare le opzioni disponibili. Sono attori fittizi, avverte Kahneman, non sono omuncoli presenti nel nostro cervello né sono individuabili in aree specifiche del cervello, né sono parti distinte del sé, ma sono strumenti che sono stati selezionati dall’evoluzione per permetterci di affrontare meglio vantaggi e svantaggi che popolano le nostre vite. Il sistema 1 (pensieri veloci) elabora le informazioni in maniera quasi immediata, ad esempio facendoci riconoscere dalla solo espressione del volto visto in una foto se una persona è arrabbiata oppure no. Il sistema 2 (pensieri lenti) elabora informazioni più complesse dove è richiesto uno sforzo cosciente. Ecco l’esempio di Kahneman: “Batti uno strumento a un ritmo costante, o meglio regola un metronomo su un intervallo di un secondo. Alza la scheda bianca e leggi ad alta voce le quattro cifre. Aspetta altre due battute, poi scrivi una serie in cui ciascuna delle cifre originali è aumentata di uno. Se i numeri sulla scheda sono 5294, la risposta corretta è 6305. Mantenere il ritmo è importante.” Risulta che solo poche persone sono in grado di eseguire correttamente il compito che richiede sia attenzione per comprendere le istruzioni sia concentrazione per eseguire una semplicissima addizione. Del resto, con compiti che richiedono elementari esercizi di statistica ce la caviamo ancora peggio.
Che cosa c’entrano queste riflessioni con l’akrasia, l’incontinenza, la debolezza della volontà? Potrebbero entrarvi perché l’akrasia e l’incontinenza non dovrebbero essere interpretate come azioni irrazionali, bensì come manifestazioni di uno strato della nostra personalità che è inevitabilmente attratta verso la soddisfazione immediata o a breve termine, ossia che interpreta l’azione futura come quella che maggiormente si adatta alle proprie aspettative, proprio come facciamo quando interpretiamo un volto corrugato ritratto in una foto come una espressione di rabbia o un sorriso su un volto con gli occhi chiusi come una manifestazione di piacere o addirittura di estasi. Rinunciare a questa interpretazione comporta uno sforzo, una concentrazione e un’attenzione che di solito si esprimono nella capacità di dividere il compito che si sta affrontando in una sequenza finita di passi. Pensiamo al tabagista che medita di smettere di fumare. Intanto che elabora piani più o meno complessi per portare a termine il suo buon proposito per concentrarsi meglio o per rilassarsi si accende una sigaretta, sicuramente la penultima. “Sentii il bisogno di quietarmi, levai di tasca la penultima sigaretta e la fumai avidamente. Spiegai al dottore che ne avevo prese con me solo due e che volevo cessar di fumare in punto alla mezzanotte.”, scrive Italo Svevo del suo personaggio che inevitabilmente cede alla soddisfazione più prossima. Questo forse segnala il fatto che l’umanità non desidera affatto fare piani che implicano rinunce, ma vuole una vita tessuta di spontaneità e di libertà, dove cosa importerà mai se ci accendiamo una penultima o ultima sigaretta. Il problema, tuttavia, è che facendolo l’agente non esalta affatto la sua libertà come potestas ad opposita, ossia la sua capacità di selezionare tra opzioni che si escludono a vicenda, ma al contrario celebra la schiavitù della sua mente.
Non so se i casi di incontinenza siano aumentati nella contemporaneità. Non ne ho idea, ammesso sia possibile selezionarli facilmente in un campione rappresentativo della popolazione generale, però non mi sorprenderei affatto se risultasse essere così. E non proverei grande stupore perché viviamo nell’epoca dove l’intrattenimento e il divertimento sono diventati un’industria di enorme importanza. Si pensi a quanto produce in termini di fatturato, utili, persone coinvolte nella produzione e nel consumo l’industria dei videogiochi. L’esempio non è casuale perché a chi non è capitata l’esperienza di ammutolire impegnato di fronte allo schermo per giocare ancora una (soltanto ancora una, ben inteso) partita del proprio gioco in quel momento preferito? Non ho dubbi che se sottoponessimo queste persone a una scansione cerebrale vedremmo accendersi le medesime aree del cervello che sono deputate alla selezione e all’incremento del piacere. E il nostro essere continuamente connessi tramite i social alle immagini e ai pensierini profondissimi della maggior parte dei nostri contatti non accade forse perché è maggiormente gratificante godere della socialità artefatta che cercare di costruire una conversazione più articolata? Naturalmente sono meglio queste compulsioni che non quella dell’innamorato che non sa trovare pace o di Medea che si trova costretta a compiere il proprio destino. Ma non si compie anche in queste piccole costrizioni il nostro destino, un diverso e profondo destino, ossia il destino di noi stessi, secondo l’espressione di Leibniz, come automi spirituali ossia come macchine animate dal pensiero e dalla sua automaticità?
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