SUA, FINALMENTE

WhatsApp Image 2023-07-25 at 20.58.44PEE GEE DANIEL

Una scuffia bell’e buona s’era preso, ma quella niente.

Da quando la giovane era stata trasferita in paese, Pinìn le aveva subito messo il suo penetrante sguardo tiroideo addosso e non era più stato buono a levarglielo, anche se Violetta non pareva gradire.

E dire che Pinìn aveva un posto fisso, un salario congruo, una casa che, se anche non sua, gli era stata ceduta in usucapione vita natural durante, eppure Violetta non ne aveva mai voluto sapere. Sì, perché quello di Pinìn era il mestiere più sicuro al mondo e, con tutta probabilità anche il più antico: più antico ancora di quello di Violetta, tanto per dire.

Pinìn faceva il necroforo. Era una tradizione di famiglia la sua. Becchino il padre, becchino il nonno, becchino il padre del padre del padre, becchino il trisavolo. La carriera di ognuno di loro era cominciata sotterrando il proprio padre. Stava a guardia del camposanto. Lavorava tutto il santo giorno. Anche due o tre tumulazioni al dì, soprattutto di quei tempi che le epidemie imperversavano sino a lambire anche il loro borgo striminzito, sommandosi ai già tanti nati morti, ai contadini che tiravano i piedi nei campi per cause lavorative, agli ubriaconi che, spinti dalla troppa acquavite, finivano per tirarsi una lama in pancia a vicenda davanti all’osteria, e ai soliti vecchi decrepiti. Gliene mandavano sin dalla città, perché là i cimiteri stavano già a tappo. Sifilitici, tubercolotici, colerosi, vaiolati arrivavano la mattina presto, a piedi in avanti, stesi lunghi su carretti tirati un ciuccio scoglionato, e a Pinìn toccava di trovare un angolo di terra da scavare per ficcarceli dentro. Una mezza dozzina di metri sottoterra, il doppio del solito, voleva il dispaccio municipale, per stare certi che la malattia non rispuntasse fuori dallo sprofondo.

Poi venivano le altre incombenze: potare le siepi, dar da bere ai fiori recisi pigiati dentro i vasi posti in faccia alle lapidi, ramazzare questa o quella cappella di famiglia per qualche baiocco di mancia sganciatogli dentro il logoro guanto a mezze dita. Quando il sole cadeva giù tra le colline, come un catafalco calato nel sottosuolo, allora finalmente Pinìn poteva tirare il fiato e ritirarsi nella casetta che la municipalità gli aveva concesso a uso privato, sistemata proprio dietro la curva che portava all’ossario dei militi, appena dietro la cappella dei Conti di Bugliolo, larga e alta il doppio della sua dimora, che però a lui andava bene così, mica si lamentava: fornello, stoviglie, pentolame, giaciglio, stufa e finestra con belvedere mortuario, che cosa poteva domandare di meglio?

Tutto spesato: alloggio e legna da ardere glieli riservava l’ufficio preposto. Male che andasse, negli inverni più rigidi, nottetempo filava a cercare tra le sepolture più remote, opera ancora del bisnonno magari, da cui recuperava il legno marcio delle bare. Per i vestiti stessa pratica: quand’era ora di svecchiare il guardaroba, stavolta andava a disseppellire i morti freschi, quelli ricomposti con un vestiario ancora alla moda, di cui li spogliava, lasciandoli nudi come i vermi di terra che erano diventati. Quanto al desinare, teneva un piccolo orto dietro la fila di tombe delle monache. Non c’è terra più fertile della terra dei morti per farci crescere degli ortaggi! Se poi non ne poteva più di zuppe di cavolo e rape fritte, usciva a caccia dei tanti leprotti che salterellavano tra le lastre. Se non ne trovava, o quel giorno scappavano troppo spediti, si accontentava di qualcuno di quei grassi ratti che girellavano tra i loculi. Gli staccava la testa di netto, con un colpo di pala ben assestato. Se li cucinava in salmì pure quelli. E in piena estate, quando in casa si soffocava dalla calura, andava a trovare refrigerio steso sul marmo fresco delle cappelle dei ricchi.

Là dentro c’era spazio anche per un’altra presenza e, eventualmente, si sarebbe trovato posto anche per i pargoli. Questo tentava di far capire a Violetta, nelle rare pause che si prendeva dal lavoro per andarle a far visita al casino, dove lei metteva in bella mostra le proprie grazie, a uso e consumo di quasi tutti quelli che varcavano la soglia di Madame Lagrange.

Tutti tranne lui, Pinìn, meschino, che veniva puntualmente rifiutato dalla presta-servizio, a dispetto del benché minimo straccio di deontologia professionale, proprio lui che era persino pronto a impalmarla, come le ripeteva a ogni visita, coi lucciconi agli occhi, torturando il cappello a cencio tra le mani larghe e tozze, per ribadirle che non trattavasi di semplice sfogo fisico, che c’era del sentimento dietro, ferace, grasso tal quale alla terra che smottava tutti i giorni a punta di badile per dare eterna requie a qualche nuovo inquilino.

La sua non era semplice smania, di quella che conduceva tutti gli altri del posto e dai paesi finitimi a schiacciarsela un paio di volte la settimana, se i risparmi lo consentivano. Lui ci perdeva le bave dietro, come un bastardo in amore. Sin da quando aveva fatto la sua entrata trionfale in piazza, insieme alle colleghe, per la nuova partita di lavoratrici mandata, come tutti i semestri, alla Lagrange, a sostituire le vecchie lavoranti, o perlomeno quelle di loro che si fossero conservate in salute, così, giusto per cambiare aria, prima che la manovalanza erotica della casa venisse a noia agli avventori.

A Pinìn una come Violetta non sarebbe venuta a noia mai e poi mai, manco se se la fosse sbattuta tutti i giorni, un paio di volte al giorno, come conviene alle novelle sposine, se il legittimo consorte dispone. L’aveva poi riadocchiata dalle sue parti, per dir così, con la veletta nera calata sugli occhioni cerulei, tutta diversa da come si agghindava sul lavoro: compunta, in granaglie, l’aria severa.

Era alle esequie di una collega, quella che chiamavano “la Milanesa”, brava donnina, sapeva venire incontro anche alle richieste più esigenti, era per questo che il suo tariffario prevedeva un modesto sovrapprezzo. Aveva tirato le cuoia sotto la mole mastodontica del maresciallo-capo della Benemerita, così cinguettavano in giro. Al suo funerale c’era manco il prete a sgrullare due goccioline d’acqua benedetta. Pinìn l’aveva buttata giù, nella terra sconsacrata, come di regola. Violetta stava dietro al corteo. Era una favola, strizzata in quel completino nerofumo. Se l’era mangiata per tutto il tempo con quelle grosse palle sporgenti che aveva al posto degli occhi. Era stata tale l’insistenza, che a un certo punto la ragazza, con tono insolentito, gli aveva abbaiato: «Continua le tue fatiche, brutto storpio, sta’ mica a fissare me».

Era stata la prima volta che gli rivolgesse la parola, e l’unica in cui esprimesse qualcosa di diverso dai ridondanti rifiuti che avrebbe sciorinato successivamente, in tutte le occasioni in cui lui si ripresentava al bordello: «Brutto storpio, come te lo devo dire che con te non ci vengo? Manco per il doppio della tariffa. Nemmanco per il triplo!».

Violetta non era un soggetto esigente, col lavoro che faceva non poteva permetterselo. Da lei era passato chiunque, bastava avesse in tasca il tot richiesto: il sagrestano gobbo della chiesa grande, l’impiegato delle poste deturpato da quell’orrido labbro leporino, il fattore dei De Biase e il suo bravo figliolo, ambedue scorticati dai trascorsi di una brutta pellagra… La lista era lunga.

Pinìn non si capacitava del perché solo lui, tra tutto quel consorzio di ceffi storti, finisse per andare sempre in bianco. Non era tanto per il suo aspetto scalcinato, quegli occhi da rana capitata sotto la ruota d’un carro, gli abiti fuori misura, le tracce di terriccio sotto le unghie, quella gamba più corta dell’altra o la bocca marcia e sdentata. Era proprio il ruolo di Pinìn a sconsigliare Violetta dall’accettare le sue avance a pagamento, malgrado i rimproveri della tenutaria: «No, no e no! Io con quel sudicio menagramo non ci voglio andare!».

Passarono i giorni, quindi le settimane. Il beccamorto proseguiva nel suo deliquio amoroso, ma ormai non più di persona, faccia a faccia. Preferiva restare fuori dalla proprietà di Madame Lagrange, lustrandosi gli occhi strabuzzati con la visione della concupita attraverso la finestra della sala di ricezione, velata dalle sottili tendine color pulce, in modo da non esporsi a ulteriori ingiurie. Ne sogguardava la vita stretta dal corpetto sotto cui esplodevano due fianchi larghi come un barile da acciughe, le caviglie ben piantate, le braccia robuste, capaci di sollevare un feretro da sola, se ci si fosse messa d’impegno, il petto strizzato nel bustino come un paio di sanguinacci chiusi dentro budelli troppo stretti, la bocca grande e colorita come una rosa spampanata, gli occhi pittati che sembravano quelli di qualche belva sanguinaria. Menava con sé quell’immagine di lei sin dentro allo stambugio dov’era domiciliato, alimentandola nella sua mente come un moggio da mantenere vivo, e una volta rincasato si sfogava da solo, a memoria, sostituendo una pezzuola madida alla contumace beneamata.

I molti morbi, che ammaloravano i centri abitati più gremiti, finirono per impestare anche i sobborghi e le contrade meno alla portata. Non vi è poi da ignorare che, non di rado, fossero proprio le campagne a soffiare pestilenze verso le città più popolate, attraverso i fitti commerci, laddove l’insalubre promiscuità con armenti infetti e contagianti era la norma. Fatto sta che, qualunque fosse stato il verso d’arrivo della malattia, lo stesso serraglio di Madame Lagrange non fu risparmiato. Del resto, quei fiori di ragazze che vi erano custoditi erano i più esposti ai tanti cancheri in circolazione, visto che le professioniste a libro-paga si vedevano obbligate a soggiacere alle voglie dei numerosi clienti senza poterne minimamente appurare l’effettivo stato di salute.

Senza sapere a chi dover dire grazie, una mattina inoltrata Violetta si ridestò nel suo letto a baldacchino come se un elefante sfuggito al circo equestre avesse dormito tutta la notte accovacciato sopra il suo florido petto. Nei giorni a venire la difficoltà a respirare le dava l’impressione che una mano fantasma le si fosse aggrappata ai polmoni.

Anche i clienti, specie gli habitué, s’erano presto resi conto che qualcosa non andasse e, quando la udivano rantolare sotto di loro con un filo di voce, non facevano che incalzarla: «Di’, Violetta, non ti piaccio più? E dillo che non ti piaccio più…». La diretta conseguenza era l’inevitabile remissione idraulica della parte in azione, causa lo sconforto morale.

Le sue condizioni peggiorarono rapidamente. Una fitta al centro del torace aveva iniziato ad accompagnarla ovunque, allargandosi giorno dopo giorno sino a mordere la zona intorno, che si faceva sempre più vasta. La temperatura corporea le si era alzata, fermandosi a una febbriciattola persistente, mai troppo grave, che però non voleva saperne di abbassarsi, nonostante decotti, intrugli e ritrovati galenici che le venivano regolarmente ammanniti. La mattina poi era solita risvegliarsi da un sonno agitato e incubale ricoperta di un velo di sudore, di cui erano inzuppate le stesse lenzuola tra le quali si era dimenata tutta la notte.

Dopo quasi un mese, la Lagrange si degnò di chiamare il medico condotto. Per convocarlo le bastò bussare all’8, l’alloggio della Gisa. Marangoni era là, a infliggere le ultime chiavate alla grassa puttana che si spargeva sotto di lui. «Appena avete terminato, necessito di una vostra consulenza,» comunicò sobriamente, dando il senso di rivolgersi più al suo flaccido culo pustoloso che al volto decorosamente barbuto.

A Marangoni bastò auscultare frettolosamente la schiena di Violetta. Il referto fu inequivocabile: mal sottile! Le furono propinati nuovi decotti, nuovi intrugli, nuovi ritrovati galenici, che tuttavia non parevano sortire grandi effetti. A breve anzi, cominciò a sputare grumi di sangue, che riempivano il fazzolettino profumato di lavanda a immagine del telo di Santa Veronica. Le amiche e compagne di lavoro preoccupatissime si facevano dattorno a quel volto smagrito e violaceo, a quel fisico arcuato e perennemente scosso da accessi di tosse, tentando di recarle qualche parola di smozzicato conforto.

Chi invece non sembrava rattristirsi per le pene di Violetta, anzi, ne appariva quasi allietato, era il solito Pinìn, che non c’era sera che non passasse sotto la camera della poveretta a rallegrarsi di quel concertino di espettorazioni. Ogni colpo di tosse, una promessa d’amore.

Ci fu poco da fare. In capo a un paio di mesi la consunzione di quello che era stato un personalino aggraziato, e che ora si presentava alla vista come una carcassa tribolata, era al completo.

Non era il caso di chiamare le pompe funebri. In definitiva, si parlava niente più che di una battona, per quanto carina e amabile e tutto quanto. Pensarono le colleghe più intime a slavacciarne i resti, imbellettarli, improfumarli, rinfagottarli nel vestito buono, che le andava largo di almeno due misure per via del drastico dimagrimento che il morbo aveva causato. Le infilarono le scarpette di vernice che usava per le uscite della domenica, faticando non poco a evitare che le scivolassero via dai piedi un secondo dopo. La risolsero assicurandole con un doppio giro di spago.

Violetta era là, lunga distesa sopra il capezzale che era stato alcova, con le mani ischeletrite incrociate sul ventre cavo. La ruffiana e la tenutaria la sollevarono una per le spalle, l’altra per le caviglie e quasi ce la gettarono, dentro la cassa rudimentale, composta di assi di legno di scarto inchiodate insieme alla bell’e meglio. C’era un carretto ad attenderla fuori dalla porta, al posto dei calessini, che la avevano attesa tante volte nei mesi precedenti per un giretto dopolavoristico. Al posto del cavallo da tiro bianco come neve appena fioccata, un vecchio mulo recalcitrante e scrofoloso. Nel ruolo dell’accompagnatore galante, un carrettiere segaligno dalla carnagione itterica, che non smetteva di biascicare pugni di tabacco maleodorante, che poi bombardava tutto in giro, facendo a gara di sputi col ciuccio.

Per l’ennesima volta una lugubre processione si instradava verso il sentiero stretto e alto che portava al camposanto partendo dalla casa della Lagrange. Le sue dipendenti sapevano la strada a memoria, oramai.

Dall’altro capo del cammino c’era Pinìn. Come un micio che aspetti il sorcio all’imbocco della tana.

Se ne stava con un’oretta buona d’anticipo, fermo in mezzo al cancello smangiato dalla ruggine. Per l’occasione, era in grande spolvero: la marsina del notaio Vitali, la redingote e le ghette del compianto farmacista del paese, le braghe a scacchi del Conte Bussuelli (era stato difficile forzare la lunga lapide sormontata dall’angelo in stucco: c’era voluto un resistente piede di porco).

Mentre il carro con la sua amata avanzava verso di lui, il cuore gi si insanguinava di passione. Aveva già preparato la buca per sistemarcela dentro. L’aveva scavata poco profonda e, una volta tumulata la bara, ci avrebbe scaricato sopra poche badilate di terra fine fine, leggera leggera, per rendere più agevole il lavoro contrario, a cui avrebbe proceduto la notte stessa, una volta che i cancelli fossero stati sigillati con il triplo giro di catenaccio, il tutto sotto la romantica pioggia dorata del plenilunio.

Quello che non aveva ottenuto il denaro, ottenne infine la morte.

ENDOXA - BIMESTRALE LETTERATURA Senza categoria

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