DIALOGOS: DAL LOGOS DEL DOMINIO AL LOGOS DELLA CURA

Dal logos del dominio al logos della cura

dialogosMICHELE ILLICETO

  1. Dal logos al dia-logos

“Non ascoltando me ma il logos è giusto dire che tutto è uno” (Eraclito, Diels-Kranz, B 50). Già il mondo greco, con il grande filosofo Eraclito (550-480 a. c.), aveva accettato la sfida di come fare incontrare i molti nell’Uno. C’è un “Tutto” da unire e un “Uno” da mantenere plurale. I greci avevano capito che senza unità i molti stazionano nel kaos, e senza i molti l’unità si trasforma nella totalità. È difficile fare incontrare la molteplicità nell’Unità dell’Uno senza rischiare di perdere allo stesso tempo la pluralità. Ne va dell’ordine, che è armonia tra i molti e l’Uno.

Se il logos introduce l’Uno, il dia-logos, è la “via” per arrivare all’Uno, senza che i molti vengano annullati. E la via per arrivare all’Uno è la pluralità, che non può essere lasciata a sé, ma va governata. Quindi, se il logos è custode dell’Uno – senza del quale non vi sarebbe ordine (kosmos) – a sua volta il dia-logos è custode della pluralità, che però rasenta sempre il rischio del kaos. E così logos e dia-logos si incontrano nell’Uno, mantenendo sia l’unità sia la pluralità.

Se ascoltare il logos – la ragione – è ascoltare l’Uno, si ha che ascoltare il dia-logos significa ascoltare i molti. Ascoltare il logos è anche ascoltare tutte quelle parti che nel logos cercano l’unità. Ogni parte, infatti, è parte in quanto parte dell’Uno, che il logos, raccogliendo i molti, configura. Chi ascolta il logos, nel logos incontra sé, come parte, e le altre parti che, come sé, cercano l’Uno. Pertanto, entrando in dialogo con il logos si entra in dialogo con le parti che il logos raccoglie nell’Uno.

Visto che, come ci ha ricordato Heidegger, il termine logos in greco deriva da leghein, che significa “raccogliere”, “legare”, “unire”, si ha che chi dialoga si raccoglie in un luogo che lo pone “nel mezzo”, come luogo non solo “suo” ma di tutti. Infatti, il prefisso dia– in greco significa “attraverso”, “tra”. Dia-logare è abitare la parola (la ragione) che sta “nel mezzo” (nel dia-): “tra” te e me, ma anche “tra” me e me. Ma per stare “nel mezzo”, ogni parte deve uscire da sé, soprattutto dal proprio io. Chi dialoga, allora, si lascia raccogliere (viene raccolto) dal logos nell’Uno solo se lascia la propria posizione come autarchica e di dominio. In tal modo, ogni parte, nel logos, anziché contrapporsi, si relaziona, e, in quanto tale, per realizzare l’Uno, si riappacifica e si riconcilia con le altre parti attraverso la via del dia-logos. Il dialogo è perciò rappacificante. Trasforma la contrapposizione in relazione. Il dia-logos è l’unica via per la quale le parti giungono, nella pace, all’Uno, cioè all’armonia che genera ordine.

Non vi può essere unità senza parti e non vi possono essere parti senza una unità che, raccogliendole, le mantenga come tali. Ma il più grande pericolo dell’unità dell’Uno è che si trasformi in Totalità. L’unità del Uno-Tutto va perciò detotalizzata. Chi opera questa detotalizzazione, sì da impedire questa degenerazione dell’Unità nella Totalità? Lo può fare solo il dia– che compone la categoria del dia-logos. Per questo motivo, il dia-logos è sempre antitotalitario.

Il dialogo detotalizza l’unità in quanto mantiene viva la memoria dei molti di cui il Tutto si compone. Senza dialogo l’unità degenera in Totalità. Se dove ci sono solo parti non c’è logos che sia in grado di comporli nell’unità dell’Uno, allo stesso modo dove c’è solo totalità non vi è dia-logos. In questo senso la funzione del dia-logos è mantenere la traccia della pluralità nel cuore stesso della unità. Solo così il dia-logos impedisce all’unità di degenerare in Totalità.

È il logos che raccoglie nell’Uno i molti per evitare che questi ultimi, facendosi la guerra, degenerino nel kaos. Il passaggio dal kaos al kosmos, secondo Eraclito, è dato dal logos, passando tuttavia per la via del dia-logos. Ecco qui spiegata l’origine del dialogo. Tutto è Uno. Il Tutto –  luogo della molteplicità –  è raccolto nell’unità. Il logos raccoglie i molti nell’uno. E i molti si lasciano raccogliere dall’Uno solo se dialogano tra di loro, uscendo dalla propria posizione di autoreferenzialità e di dominio. Grazie al dia-logos, il logos evita di essere monolitico e si mantiene plurale, senza tuttavia essere caotico. Se da un lato il logos si fa garante dell’ordine e dell’unità, dall’altro il dia-logos si fa garante della molteplicità e della pluralità.

  1. Tre tipi di logos tre tipi di dialogos

Ora, sempre seguendo Eraclito, sappiamo che ci sono tre tipi di logos: quello cosmico, che raccoglie i molti della fiusis nel kosmos, evitando il kaos. Poi vi è il logos della psychè che unisce i molti elementi della nostra anima, unità che mai raggiungeremo secondo quanto dice il famoso frammento eracliteo che recita: “Per quanto tu vada innanzi, mai troverai i confini della tua anima, tanto profondo è il suo logos” (Eraclito, Diels-Kranz, B 45). Infine, vi è il logos politico che unisce i molti della polis nell’ordine della comunità tramite le leggi, e qui il logos si fa nomos.

Ad ogni tipo di logos corrisponde un altrettanto, e correlato, tipo di dialogos. Al primo corrisponde un dialogo cosmico, al secondo in dialogo psichico (interiore) e al terzo il dialogo politico. Così si ha che le cose naturali dialogano tra di loto in un Tutto che è in sé connesso come fiusis, che si connota non più come kaos, ma come kosmos. Le realtà psichiche dialogano tra di esse in un movimento introspettivo che pone ciascuno in dialogo con se stesso, per fare unità dentro di sè. Infine, la dialogicità caratterizza la natura politica di ciascun membro della comunità-polis.

Il dia-logos è il logos che raccoglie –  ospitandoli –  tutti. Tutti siamo come convocati da questo logos di cui siamo parte ed espressione. Solo che nessuno è padrone del logos (cioè della ragione e della parola), per questo il logos si fa dia-logos. Infatti, chi si sente padrone non può dialogare. La prima forma di padronanza e di dispotismo è da parte di chi vuole occupare (monopolizzandolo) lo spazio del logos come spazio solo suo. Invece, lo spazio del dia-logos è spazio da con-dividere, perché spazio dove ognuno incontra sé come parte di un Tutto, e non come essente il Tutto. E in questo Tutto che non egli sa di non essere, ecco che incontra l’altro.

Il logos, grazie al dia-logos, diventa spazio mio e dell’altro. Spazio del Noi. In tal modo, nessuno può sentirsi padrone esclusivo della ragione e della parola di cui la ragione si serve. Tuttavia, prima di ascoltare le ragioni dell’altro bisogna accogliere l’altro come “ragione altra”. L’altro non solo ha ragioni da pro-porre (e non contrap-porre) alle mie, ma ancora più egli va visto come l’altra parte della ragione, la quale, oltre a parlare attraverso di me, parla anche attraverso di lui. Egli è quella parte della ragione e della parola –  del logos –  che io non abito. Nessuno può monopolizzare la ragione e la parola – il logos – come un luogo che parla esclusivamente a nome suo.  Questo significa che siamo ospiti di un logos che, ospitandoci tutti, ci rende reciprocamente dialogici e, quindi, deputati a ospitarci gli uni gli altri. Dialogare è ospitarsi reciprocamente nella ragione e nella parola di cui nessuno è padrone.

 

  1. Dialogicità tra esposizione e imposizione.

Ogni parola è dialogica anche quando è solitaria, se si intende tale solitudine come ricerca di un’assenza o come sperimentazione di una mancanza rispetto a chi non c’è o non si dà. Noi pensiamo che solo la parola ci renda dialogici. Invece, prima che la parola, già il corpo è dialogico. Il corpo, in quanto linguaggio – come parola prima della parola – dialoga con la parte che gli manca, come direbbe Platone nel mito degli androgini riportato nel Simposio.

E se il corpo comincia dal volto, è il volto che rende dialogico il corpo. Il volto è dialogico di per sé, perché è ri-volto verso un altro. Un volto ri-volto, in quanto es-posto, parla e dialoga col suo puro esserci. Anzi, parla mentre chiama e interpella. Non si impone, ma si propone, ed esponendosi, si depone. Il volto-corpo dialogico è la traccia somatica della nostra radicale esposizione ontologica e della nostra innata natura dialogica.

Il dialogo è la parola che si espone e non la parola che si impone, e non si im-pone perché non si autopone. La parola di chi parla è posta dalla parola silenziosa di chi ascolta. Anche chi ascolta parla. Infatti, chi non parla, parla col silenzio dell’ascolto. Il dialogo è la parola che, es-ponendosi, è in cerca di chi la raccolga. Parola in attesa di essere accolta e raccolta. Il dialogo è aver cura della parola che si es-pone. Per questo, esige non un logos del dominio ma un logos della cura. Il dia-logos è il logos nel suo farsi cura.

Anche il silenzio è dialogico se viene inteso come attesa di una parola che manca.  Infatti, il dialogo è una parola spezzata, interrotta, sospesa. Parola in ricerca. Parola in uscita. Parola mendicante. In attesa di essere raccolta. Anzi, accolta, raccolta e legata, e quindi liberata dalla propria solitudine autarchica.

Se, in quanto dialogici, siamo es-posti, accade che nel dialogo nessuno si auto-pone, ma si trova posto. Quindi es-posto. In tal senso la parola ci istituisce e ci costituisce, ma allo stesso tempo ci destituisce. Nel dialogo ognuno si costituisce, destituendosi (decentrandosi). Non vi è autentica costituzione senza destituzione dialogica. Ora, se la costituzione fa l’io, la destituzione fa il Noi. Per questo motivo, il dialogo è luogo di nascita sociale. Se il logos è ontologico il dia-logos è spazio etico. Infatti, comunicare col dialogo significa cercare questo luogo in cui è posto qualcosa che ci accomuna. Lasciandoci accomunare da un luogo che non è di nessuno, siamo tutti alla ricerca di questo dialogo originario, anzi del dialogo come origine principio, arkè. Ogni volta che dialoghiamo, è come se ci dessimo appuntamento in un luogo in cui forse siamo già stati, ma da cui siamo o caduti o addirittura stati cacciati. Ogni volta che dialogo con te, ritorno a quel dialogo originario in cui io e te siamo già stati. In questo senso ogni parola diventa un dono per fare memoria di questo legame originario. E questa memoria ci induce all’azione.

  1. Dialogo e alterità

Fondamentalmente il dialogo è esperienza di alterità. È la parola dell’altro rivolta a me ed è la parola mia rivolta all’altro. Ma anche la parola “altra” rispetto ad ambedue. La parola che si trova Altrove. Parola dell’Altrove che ci porta oltre. Perché l’oltre è il luogo dell’altro. Parola duale che rompe il monos, l’Uno. Parola dei molti nell’Uno che li raccoglie. Ma anche parola del Terzo che rompe la dualità, qualora questa dovesse chiudersi e proporsi come un doppio dell’uno stesso. Il dialogo non è nella linea dell’1+1 che porta a un aumento esponenziale che a sua volta genera l’inflazione del linguaggio, ma dell’1×1=1.

È la parola posta tra (dia-) me e me (dialogo interiore) e tra me e l’altro (dialogo sociale). Tra me e me, in quanto il primo altro sono io. E parla tra me e l’altro se l’altro è fuori di me. Ma è anche la parola dell’Altrove. L’Altrove è il luogo del Terzo che irrompe anche nella dualità. Insomma, è parola della comunità nel cuore di ogni identità. Parola dell’Infinito che lascia tracce sui nostri volti, che, se anche se esposti, ci rendono dialogici. Il dialogo è, perciò, il politico in noi. Ma anche il religioso in noi. L’etico universale di matrice kantiana, posto nella coscienza singolare di kierkegaardiana memoria. Una religiosità prima di ogni fede e di ogni credenza.

Il dialogo è la parola che rivela una fessura. Una ferita. Un’apertura. Una zona di non padronanza. Non siamo padroni dell’Altrove che nel dialogo si fa parola che ci interpella. Il dialogo è il metafisico nel fisico. L’etico nel politico. Il plurale nell’Uno. Perché l’Altrove è il luogo da dove la Parola, sfuggendoci, ci interpella. Precedendoci, ci costituisce e, trascendendoci, ci compie.

Proprio perché la parola è già relazione, il dialogo trasforma il fuori in un oltre che ci abita, ponendo l’altro nel cuore del Medesimo, direbbe Levinas. Dialogo è la parola che ci interpella “nel tra” e “nel mezzo” di un luogo che nessuno può colonizzare. Parola dell’attraversamento. Ma attraversare è lasciarsi attraversare. Attraversamento che in Levinas diventa visitazione del “vis a vis”, che, nell’era dei social network, è molto più che il semplice face to face.

E, poichè la storia dell’Occidente è storia del logos del dominio, ecco che il compito che ci sta innanzi consiste nell’impedire, con il dia-logos, che il logos si atrofizzi ulteriormente, soccombendo sempre più alla logica della onnipotenza e della prepotenza. Al contrario, lavorare per un logos capace di accogliere e raccogliere. L’auspicio è che ritornino la ragione e la parola non come strumenti di dominio ma come vie per la cura delle relazioni (personali, nazionali, internazionali, geopolitici). Ma che sia una parola parlante-silente e ospitale-accogliente. Una parola deponente. Sempre prossima ad accogliere nel Detto, il Non-Detto.

ENDOXA - BIMESTRALE FILOSOFIA

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