L’UNICO DIALOGO DA CUI NESSUNO PUÒ FUGGIRE
RICCARDO DAL FERRO
Viviamo un’epoca che di dialogo ne sa davvero poco.
La virtualizzazione della realtà ci permette di ridurre drasticamente le occasioni di intercambio “vis-à-vis” che ci costringono a guardare negli occhi l’interlocutore; la paura delle reazioni sbagliate, del politicamente corretto, delle tempeste mediatiche ci spinge a non dire quasi mai davvero quello che pensiamo, anche quando siamo coinvolti in una discussione accesa; le continue e seducenti distrazioni di cui siamo circondati rappresentano un’alternativa valida al dialogo e all’interscambio discorsivo. Per tutti questi motivi, il dialogo non se la passa particolarmente bene.
Al fondo di questi impedimenti c’è però una concezione ben precisa, che giustifica la virtualizzazione, il politicamente coretto e la pigrizia discorsiva, e questo è la “zombificazione”. Lasciate che mi spieghi meglio: non riuscendo più a percepire l’esistenza di un’interiorità, soprattutto negli altri, e considerandoli perciò degli zombie privi di anima, il dialogo diventa superfluo, ridicolo, evitabile. Quando discutiamo, lo facciamo al solo scopo di avere la meglio, di soverchiare, di “vincere” una diatriba. Insomma, il dialogo non tiene più in sé la maieutica volontà di imparare, mettersi in discussione e progredire, questo lo si può fare solo ed esclusivamente se presupponiamo che l’interlocutore possa tenere in sé delle buone intenzioni, una volontà determinata, un’anima in cui riflettersi. Quando Socrate nel “Menone” dialoga con uno schiavo cercando di fargli dimostrare il teorema di Pitagora, il filosofo sta dimostrando che il suo interlocutore possiede le strutture concettuali, matematiche ed esistenziali per intuire in modo autonomo la proporzione tra le misure di un triangolo rettangolo.
Ecco la parola chiave: autonomia. Per poter intrattenere un dialogo vero si deve presupporre l’autonomia dell’interlocutore, ovvero il fatto che egli, alle sue idee e posizioni, ci sia giunto in modo libero. Solo attraverso quella libertà possiamo pensare tanto di fargli cambiare idea, quanto di poter imparare qualcosa da lui. L’autonomia esistenziale è il contrario dello zombie, il quale per definizione è una non-creatura priva di libero arbitrio, anima e autonomia. Lo zombie è guidato, eterodiretto, e con una tale entità non può esserci alcun dialogo. Nel non-dialogo a cui oggi siamo abituati sui social network, le accuse di essere pagato da qualcuno (“ki ti pagah?!?”), di avere interessi nascosti, o il più semplice insulto che emerge a ogni piè sospinto, vanno esattamente nella direzione di mettere in dubbio l’autonomia altrui, e quindi la capacità di intrattenere uno scambio onesto e proficuo.
Ma c’è di più: non si tratta solo di una sfiducia nell’altrui interiorità e autonomia, si tratta di una mancanza di familiarità con la propria interiorità. Socrate, ancora lui, diceva che io sono il primo estraneo che incontro nella vita. Estraneo, ovvero persona aliena, sconosciuta, persino distante. La filosofia ci insegna che la conoscenza di sé non è un obiettivo dato, facile, immediato, ma è un lungo esercizio di familiarizzazione con il proprio animo. Conoscere le paure e le angosce, fraternizzare con i talenti e le capacità, fare amicizia con i difetti, le storture, le perversioni: tutto questo è il lungo, faticoso e stancante atto di conoscenza di sé, che mi permette di comprendere il fondo del mio animo e di guardare alla mia interiorità come ad un terreno di cui avere grande cura. Una buona parte della cura è proprio il dialogo, l’interscambio profittevole e creativo con altre creature che, al mio pari, tentano di familiarizzare con il proprio animo. Ecco allora che la maieutica non è più l’atto di insegnamento gerarchico del maestro verso l’allievo, ma il processo di interscambio, reciproca messa in discussione e crescita parallela di due entità che, guardandosi dentro l’un l’altro, vedono anche cosa soggiace dentro il Sé.
La disabitudine al dialogo si trasforma, paradossalmente, nella disabitudine al Sé. Un popolo di individui il cui approccio al dialogo è quello dello schiacciare l’avversario, l’avere ragione, il vincere una competizione, è un popolo di individui che perdono l’essenziale strumento per conoscere se stessi, per familiarizzare con i propri demoni, per capire come funziona la loro interiorità. La scommessa a perdere secondo cui nell’interlocutore non esiste un’anima degna di essere ascoltata risulta nell’incapacità di trovare, dentro di sé, quella stessa anima che dovrebbe garantirmi la salvezza dalla zombificazione.
A questo punto qualcuno potrebbe persino pensare che certo, perdere l’interiorità è una brutta cosa, ma in fin dei conti la condizione dello zombie non è poi così indesiderabile: si evita la faticaccia di conoscere se stessi, si vive in modo “automatico” eterodiretti da forze cieche, ci si dà alla spensierata esistenza dei divertimenti mondani e poi si muore. Che senso ha familiarizzare con i propri mostri interiori quando comunque il finale è per tutti quello? Chi la pensa così potrebbe anche aver ragione, non fosse che per il fatto che, prima o poi, il dialogo con quel sé nascosto diventa inevitabile e più a lungo lo abbiamo rimandato, più il mostro apparirà terribile.
Come Pascal ci insegna, la miseria deriva prima di tutto dall’incapacità dell’uomo di stare da solo, in silenzio, in una stanza. La condanna dell’individuo dotato di cervello è che la zombificazione non sarà mai completa perché prima o poi la vita lo costringerà a riflettere su se stesso. Qualcuno che ama morirà o se ne andrà; il lavoro ritenuto intoccabile e stabile sparirà; la salute, data per scontata così a lungo, verrà a mancare. E la sua solitudine lo costringerà ad un dialogo interiore con quello sconosciuto che, negli anni, è diventato ancor più alieno nel silenzio dialogico della vita. In quel momento, lo zombie è costretto a farsi da parte e l’individuo pensante si trova tra le mani l’autonomia che ha cercato in ogni modo di fuggire. Non può scappare da quel dialogo, non c’è salvezza dalla voce interiore, e tutte le occasioni perse per familiarizzare con essa diventeranno rimpianto, e tutto quel rimpianto gli crollerà addosso a causa dell’incapacità di comprendere ciò che l’animo tenta di comunicargli.
Lì, la sofferenza si moltiplica a dismisura e la distanza con il sé si trasforma in una tortura.
Tutti questi sono degli ottimi motivi, almeno agli occhi di un filosofo, per accettare la fatica del dialogo con l’altro. Un dialogo che non sia guidato dalla necessità di vincere, ma di ascoltare veramente. Un dialogo non macchiato dalla tracotanza di chi aspetta solo il proprio turno per parlare. Un dialogo in cui si presuppone che l’altro possegga un’anima, non sia uno zombie, abbia una sua autonomia e si differenzi da me solo per la prospettiva che ha sul mondo. In questo modo, il dialogo diventa maieutico, reciproco progresso, vicendevole apprendimento, parallela crescita nella conoscenza di sé. Si tratta di una bellissima avventura, quando vissuta tra esseri umani dotati di autocoscienza e che scommettono nell’altrui autocoscienza.
Io non so se tu sia zombie o abbia un’anima, ma scommetto per la seconda. Per questo, dialogo con te, e ciò mi permette di dialogare con me, come se fossi anche io, irriducibilmente, un individuo dotato di anima.
ENDOXA - BIMESTRALE FILOSOFIA DIALOGHI ENDOXA SETTEMBRE 2023 Riccardo Dal Ferro
