VOLONTÀ DI DIALOGO
PIER MARRONE
Mi è capitato, ovviamente spesso, di interrogarmi sulle motivazioni che mi fanno ritenere sia meglio vivere nel paese dove vivo, rispetto ad altri, un paese che è incastonato in una serie di alleanze che ne limitano, fortunatamente, la sovranità. Fare parte di un’istituzione sovranazionale, l’Unione Europea, e avere un ruolo geopolitico molto importante, grazie alla posizione della nostra penisola nel mare Mediterraneo assieme alla nostra affiliazione a un’alleanza, la Nato, che è ben più che un’alleanza militare, sono dati politici strutturali sui quali non si può smettere di interrogarsi, se siamo interessati a dare delle risposte a quelle motivazioni.
È comprensibile che molto spesso queste motivazioni per molti non hanno bisogno di essere giustificate. Fanno semplicemente parte di un modo di vivere che, per il solo fatto di essere il proprio, tanti non ritengono debba nemmeno essere interrogato. Ora, questo atteggiamento non è consigliabile per alcuni motivi. In primo luogo perché si basa su una contrapposizione tra “noi” e “loro”, che messa in questi termini risulta infondata: infatti, non può essere una buona giustificazione del nostro modo di vivere valori, istituzioni, relazioni tra le persone il fatto che siano semplicemente nostre. A questa giustificazione altri potrebbero opporre la giustificazione opposta e del tutto speculare: il loro modo di vivere è superiore al nostro perché è il loro.
In realtà, questo accade di rado, dal momento che, almeno negli anni che ci troviamo a vivere e probabilmente anche nel futuro a medio termine, la contestazione al modello d vita che possiamo chiamare sinteticamente “occidentale” proviene da forme culturali che ritengono di essere legittimate alla critica da una fonte trascendente l’esperienza umana, ossia il Corano, in quanto libro divino. Di fronte a una critica di questo genere, non sembra esserci risposta adeguata possibile per noi, che viviamo in un Occidente ampiamente secolarizzato, ossia in un insieme di culture che hanno conosciuto la fine della trascendenza come criterio di giustificazione della propria vita su questa terra. Nessuno di noi pensa che un partito sia legittimato o meno a partecipare alla competizione politica a partire dalla sua adesione ai valori, spesso sanguinari, è il caso di dire, espressi dall’Antico Testamento, né pensa che debba essere ispirato dai valori dei Vangeli. Desideriamo che chi partecipa alla competizione politica sia ispirato, in linea generale, da valori espressi dalle nostre costituzioni, dal loro incorporamento nel diritto scritto e nel diritto consuetudinario, qualora non sia in contrasto con gli ordinamenti nazionali e sovranazionali, come quelli dell’Unione Europea. La religione è ritenuta un affare privato, anche se è evidente il ruolo sociale che svolge. Tuttavia, questo importante ruolo sociale non è un criterio di discriminazione riguardo alle posizioni politiche ritenute ammissibili nell’agone della competizione per il potere. In molti paesi Occidentali, nella quasi totalità con l’importante eccezione degli Stati Uniti, non è rilevante l’esibizione di simboli religiosi come parte del proprio programma politico.
Certamente, dal momento che l’Occidente ha rinunciato alla legittimazione religiosa dei propri sistemi politici, che non avrebbe permesso l’evoluzione in senso democratico-liberale, poiché questa è basata sul pluralismo delle opinioni, si pone un problema di notevole importanza. Se un sistema politico non ha fondamento legittimo nella religione (che per chi ha fede è ovviamente un fondamento molto solido), su che cosa può fondarsi? È un problema che ha affaticato da lungo tempo la riflessione filosofica e le soluzioni, come è da attendersi, sono state molto varie e contrastanti. C’è stato chi ha ritenuto che il potere legittimo sorga dalla devoluzione di tutti i diritti dei cittadini a chi esercita la sovranità politica (che può essere tanto un individuo, quanto un’assemblea). I cittadini rinunciano a tutti i diritti per acquisire il diritto di avere la vita protetta dal sovrano. Questa era la soluzione di Hobbes, che rifletteva un’epoca sconvolta dalle guerre di religione in Europa. La sua soluzione era ideare una sovranità del tutto terrena, non fondata in altro che nella paura di perdere la vita, che gli apparati dello Stato avrebbero dovuto assicurare, porteggere, preservare. Ecco perché i cittadini dovevano professare in pubblico la medesima religione del sovrano, secondo il principio del cuius regio eius et religio sancito dalla pace di Augusta (1555), che aveva messo fine al tragico periodo delle guerre di religione in Europa. È chiaro che si tratta di una visione antropologica profondamente pessimista, che non accredita l’essere umano di nessuna capacità di raggiungere un accordo cooperativo con i propri simili, se non sotto la minaccia del potere del sovrano, che ha tutti i diritti di esercitare la coercizione, a patto di garantire la nostra vita.
Altri non hanno avuto questa propensione così negativa verso gli uomini, incapaci di affrontare una vita che Hobbes descriveva come “misera, solitaria, brutale e breve” senza la presenza di un’autorità che necessariamente deve essere percepita come assoluta (ossia non condizionata da nessun antecedente, come potrebbe essere la legittimazione attraverso la religione). Locke ad esempio pensava che la cooperazione tra gli uomini fosse un fenomeno del tutto naturale e spontaneo, dal quale era possibile che si evolvesse una forma di organizzazione statale non repressiva delle aspirazioni personali più intime dei cittadini, che si esprimono nei commerci e nelle istituzioni intermedie tra il singolo individuo e lo Stato, che costituiscono quella che noi chiamiamo “società civile”. Questa società civile comprende i partiti, le religioni, che devono convivere in un clima di pluralismo delle credenze, le associazioni culturali (dalla bocciofila ai club per scambisti) in una descrizione, tralasciando la parentesi che ovviamente non compare nelle pagine di Locke, per lo meno quelle a noi note, che aderisce molto bene a quella che è, per lo meno al momento attuale, la nostra situazione politica. Questa visione è ottimista, al contrario di quella di Hobbes, perché pensa che la cooperazione risponda a esigenze profondamente radicate in ogni individuo. Lo scopo dello Stato è di essere il guardiano notturno del libero svolgimento di queste attività che rispondono all’esigenza di dispiegare quelli che per Locke sono i nostri diritti naturali.
Questa idea del sorgere spontaneo della cooperazione, che l’etologia ha confermato in numerose specie animali, è anche quella che aveva David Hume, il quale, tuttavia, non pensava fosse di una qualche utilità indagare se gli Stati realmente esistenti sorgessero dai meccanismi cooperativi ipotizzati da Locke. Anzi: Hume pensava che fosse meglio non farlo, dal momento che non si hanno notizie di Stati che siano sorti da qualcos’altro di diverso dalla violenza, la sopraffazione e l’inganno. La cooperazione e i commerci sono però in grado di addomesticare queste origini brutali, che non sono affatto stigmate demoniache destinate a sanguinare periodicamente a ricordarci l’anima nera dalla quale nasce il potere.
Tutti questi sforzi di giustificare le nostre istituzioni sono proseguiti nel corso del tempo e anche in decenni recenti hanno mostrato una capacità di interrogare le nostre vite associate. Uno dei tentativi più interessanti si deve non a un filosofo, bensì a un giurista, Bruce Ackerman. Non è del resto affatto strano che un giurista abbia qualcosa da dire su questi temi, proprio perché i meccanismi dello Stato, anche quelli che tutelano la cooperazione spontanea tra i cittadini devono essere protetti e tutelati dalla capacità coercitiva delle autorità statali. Per Ackerman tutte le teorie fondative, che pretendono cioè di sapere cosa sia effettivamente accaduto all’inizio della società politica o che cosa sarebbe dovuto accadere perché ne nasca una società giusta speculano o sull’ignoranza oppure si vestono delle mitologie del contratto sociale, quello reso celebre come esperimento mentale da Hobbes, Locke, Rousseau, Kant, Rawls. Si tratta di costruzioni del tutto ipotetiche prive di interesse per comprendere la natura delle nostre società democratiche-liberali e per affermarne, con una solida ragionevolezza, la superiorità su altre forme di governo e di organizzazione sociale.
Al contrario, occorre essere realistici e riconoscere che ci sono due elementi universalmente presenti dove è in atto un’aggregazione umana di una qualche consistenza: 1) la lotta per il potere; 2) il desiderio di giustizia. Il primo elemento è intuitivamente semplice da accettare. Ognuno di noi lo ha visto all’opera nella propria esistenza. E non occorre certo aspettare il giorno delle elezioni politiche per sapere che moltissime persone amano l’esercizio del potere; è sufficiente far parte di una qualsiasi associazione, come la maggior parte di noi. Si tratti di un sindacato, di un partito, di un’associazione professionale, di un dipartimento universitario: la lotta per il potere, con tutto il corollario di alleanze e prevaricazioni. è realmente un fenomeno onnipervasivo. Il secondo elemento, il desiderio di giustizia, deve essere interpretato, secondo Ackerman, in un senso altrettanto intuitivo. La giustizia è ricevere ciò che ci spetta, ossia, secondo il mantra di Aristotele, è “dare a ciascuno il suo”. Quindi, la considerazione della giustizia e dell’ingiustizia deve essere sviluppata secondo gli effetti distributivi che hanno per ciascuno di noi. In effetti, anche questa idea è piuttosto convincente. Essere soggetti di giustizia è vedere riconosciuto qualcosa, che per una serie di circostanze, le più varie, ci viene consegnato come appartenente a noi. Può essere un aumento di stipendio, una promozione, un risarcimento, la considerazione degli altri, l’assoluzione a un processo che ci vede imputati, la condanna di una persona che ci ha danneggiati. È difficile sostenere che questa idea della giustizia come corretta distribuzione dei beni, siano beni materiali oppure beni immateriali, non catturi larga parte della nostra esperienza della giustizia.
Questi due elementi della nostra esperienza semplicemente umana, il potere e la giustizia, ovviamente si intrecciano, si incontrano e si scontrano tra di loro. E inevitabilmente si scontrano perché esercitare il potere non può essere senza conseguenze sugli effetti distributivi della giustizia, dal momento che viviamo in un mondo dove vige la scarsità dei beni. Nulla, infatti, è nel nostro mondo presente in maniera illimitata, a cominciare dal tempo della vita di ciascuno di noi. Per questo il potere è sempre sottoposto alla richiesta di legittimità, almeno nelle nostre società liberal-democratiche. Che cosa significa? Una cosa molto semplice: che ciascuno può chiedere a chi esercita un potere, perché mai dovrebbe essere qualificato per esercitarlo. E chi si vede rivolgere questa domanda non può legittimamente eluderla, ma deve rispondere. Ossia: il potere esercitato nelle nostre società presuppone l’utilizzo del dialogo. Alla richiesta di legittimità è possibile non rispondere ovviamente, ma questo è un atto che equivale ad ammettere che il proprio esercizio del potere è illegittimo e abusivo.
La politica democratica, ossia l’intreccio inestricabile tra pretese di potere e richieste di giustizia è in fondo una struttura di dialogo, vale a dire una conversazione, dotata di sue regole precise, che nelle nostre società è possibile estrapolare e che non sono nemmeno numerose, secondo Ackerman. Queste regole sono la razionalità, la coerenza, la neutralità. Sono parole che noi tutti conosciamo molto bene, ma siamo altrettanto sicuri di conoscere il loro significato preciso, siamo certi che questo significato sia uno solo, possiamo scommettere, poi, che queste regole siano a loro volta razionali e coerenti tra di loro? Come si vede, non è sufficiente avere una comprensione intuitiva di una parola per tradurlo in un concetto preciso. Prendiamo la razionalità. Le due principali concezioni di razionalità sono quella kantiana e quella strumentale, maggioritaria e in uso nelle scienze umane. Per la prima, razionale è ciò che è universalizzabile, ossia che ha le caratteristiche per lo meno della generalità, se non dell’universalità, come per Kant è la ragione nel suo uso conoscitivo e la ragione nel suo uso etico. Per la concezione strumentale razionale è il comportamento che seleziona i mezzi migliori in vista del raggiungimento di un fine. Sono quindi i mezzi a essere razionali, non invece i fini che rispondono ad altri criteri, ma che essendo appunto fini, ossia non essendo strumenti, sono sottratti alla considerazione strumentale e quindi alla dimensione della razionalità.
Tuttavia, per Ackerman, razionalità significa qualcos’altro in ambito pubblico e si tratta un significato così difforme, che viene da chiedersi perché ci abbia messo questa etichetta, così equivoca. Infatti, la razionalità è un comportamento che ha a che fare con la richiesta di legittimità avanzata nei confronti di chi esercita un qualsiasi potere. Razionale è non rispondere alla richiesta di legittimità sopprimendo colui che la avanza, ossia che contesta potenzialmente il potere, bensì avanzando delle motivazioni convincenti anche a chi avanza la richiesta di legittimità. Si tratta di un comportamento razionale secondo quali criteri? Forse potrebbe esserlo secondo un criterio morale, ma (1) questa morale sarebbe qualcosa di simile a una morale kantiana; (2) questa morale dovrebbe governare la politica, ma chi pensa che la politica sia governata dalla morale o debba anche solo essere subordinata dall’ordine della moralità? La politica è piuttosto il governo e il bilanciamento degli interessi diversi e potenzialmente contrastanti che agitano la società umana. Questo governo e questo bilanciamento possono certo essere incorporati in una visione che ha degli elementi di moralità (in effetti, nelle società liberal-democratiche si pensa che proprio questo debba accadere), ma quale azione politica non potrebbe rivendicare qualcosa di simile, anche quelle autocratiche, quelle teocratiche a maggior ragione, poi. La razionalità di cui parla Ackerman è qualcosa di simile alla tolleranza, ma se si tratta di qualcosa di simile, allora incorre nel noto paradosso per il quale la tolleranza per potersi esercitare nel corso del tempo non può tollerare qualsiasi comportamento, ad esempio quello che la vuole distruggere. Infatti, anche il terrorista o il rivoluzionario esprimono una contestazione al potere, ossia alle basi della legittimità del suo esercizio. Dobbiamo pensare che possa essere convinto da una serie di eleganti argomentazioni? O non dobbiamo piuttosto pensare che chi si impegna nella conversazione politica, come da Ackerman è intesa, non intenda già rispettare dei limiti? Sono questi limiti che fondano questo condizione di razionalità e non viceversa.
Anche la coerenza è una condizione niente affatto priva di problematicità. Per Ackerman la coerenza è infatti l’impegno da parte di chi partecipa alla conversazione liberal-democratica a avanzare argomentazioni nel dibattito pubblico che non siano in contrasto con argomentazioni che abbia già avanzato. Questa è una condizione molto esigente che implica ben di più di una semplice regola conversazionale, perché equivale alla richiesta che le persone non cambino nel corso del tempo né cambino le loro convinzioni. Tuttavia, questo è in contrasto con la nostra esperienza, che spesso conosce il cambio delle nostre opinioni, fortunatamente direi, ed è in contrasto con l’idea stessa della dialettica democratica, ossia con l’idea che possiamo convincere il nostro interlocutore, che si trova a essere il nostro avversario, a cambiare opinione e siamo anche disposti a accedere alle sue opinioni, almeno in una conversazione ideale, per farci convincere.
E, infine, la neutralità, che per Ackerman è il divieto di giustificare le proprie posizioni che hanno rilevanza pubblica (ossia tutte in linea di principio) sostenendo che la propria concezione del bene è superiore a quella di altri. Ora, l’aspirazione alla neutralità è epitomizzata dal sistema legale, che non contiene nomi propri, ossia che non prevede l’esistenza di leggi ad persononam. Non che queste talvolta non esistono, ma non possono essere giustificate dicendo che sono state fatte per favorire o per perseguire questa o quella persona. La neutralità è parte di quello che è comunemente chiamato Rule of Law, che non ha certo bisogno di essere rivestito da norma conversazionale per essere giustificato in maniera molto più efficace.
Naturalmente, tutte queste e tre le regole conversazionali di Ackerman hanno una loro attrattività, perché semplicemente descrivono quanto comunemente accade in molte relazioni tra le persone. Quando leggiamo la loro descrizione di sicuro ci viene da pensare: “ehi, ma io le applico nelle mie azioni!”. Hanno lo scopo, sicuramente realizzato in maniera non intenzionale da parte di Ackerman, di farci sentire migliori, attivamente partecipi dei processi liberal-democratici. Ma nessuna di queste regole conversazionali si sostiene da sola, se prima di queste, fondanti queste non ci fosse una volontà di dialogo, che io non vedo come possa essere compresa, se non come una volontà di partecipare al bene, un bene capace di accomunare, in linea di principio, soggetti molto diversi, come mai è accaduto nella storia dell’umanità, nonostante le atroci capacità degli uomini di immergersi nel male.
ENDOXA - BIMESTRALE FILOSOFIA DIALOGHI ENDOXA SETTEMBRE 2023 Pier Marrone
