TEMPO D’INIMICIZIA
FABIO CIARAMELLI
È inevitabile collegare il tema della dimensione conflittuale dell’esistenza umana, al centro dell’ultimo libro di Roberto Esposito (“I volti dell’Avversario”, Einaudi 2024), al clima generale del nostro tempo, che appare caratterizzato da quella che papa Francesco ha chiamato e continua a chiamare “guerra mondiale a pezzi”. Un vicolo cieco drammatico e violento, dove contano solo i rapporti di forza e le prospettive di successo, brodo di coltura ideale del nichilismo e della cosiddetta “competizione vittimaria” che l’accompagna, secondo la quale tra le parti in conflitto (che si tratti della guerra tra la Russia e l’Ucraina o di quella in corso a Gaza e dintorni) si sviluppa una macabra gara consistente nel denunciare esclusivamente i lutti del proprio campo, accompagnando tale denuncia d’un assordante e disumano silenzio senza pietas circa i disagi, le sofferenze e i massacri subìti dal campo avverso.
Ancor più adeguata a cogliere lo specifico del nostro tempo è forse allora quella che lo definisce “l’era della non-pace”. Suona così il titolo d’un libro recente del politologo britannico Mark Leonard, secondo il quale l’enorme diffusione dei conflitti costituisce l’assai inquietante costante della nostra epoca, che non viene interrotta neanche dalla cessazione più o meno provvisoria della guerra guerreggiata.
L’analisi ariosa e meticolosa che Roberto Esposito, nel libro appena citato, ha dedicato alla lotta di Giacobbe con l’Angelo – scena biblica enigmatica, oggetto di famose e meno famose riletture artistiche, letterarie, filosofico-teologiche e psicoanalitiche – riceve tutto il suo senso partendo esattamente da queste risonanze dell’attualità. Oltre al cenno fugace che l’autore vi dedica nelle prime pagine del libro, due sono gli spunti fondamentali dell’impostazione di Esposito che mi sembrano autorizzare questo collegamento: la presa di distanza dalla “tesi ricorrente che la storia è fatta solo dai vincitori” e la considerazione della “Lotta come forma ineluttabile della vita”. Si tratta di due acquisizioni concettuali che attraversano lo studio delle principali irradiazioni culturali dell’episodio biblico, rifiutando vigorosamente l’assuefazione alla pigra “identificazione della Storia con i vittoriosi” che, come scriveva Ignazio Silone negli anni Cinquanta del secolo scorso, finisce con l’equiparare “il sicario al martire”.
Il libro di Esposito è costruito come un intenso dialogo tra il testo biblico e il lettore che non può modificarlo, pur potendo modificare la sua lettura e soprattutto la sua esperienza vitale. Proprio per questo il suo tema di fondo è l’identità. Innanzitutto, l’identità dell’Avversario, contro cui Giacobbe lotta tutta la notte sulla riva d’un fiume: un’identità che nel testo biblico resta indeterminata, anche se la successiva tradizione artistica l’interpreta come un angelo, cioè un messaggero della divinità. Ed è esattamente da questa lotta – cioè dalla tensione antinomica tra l’umano e il divino – che scaturisce la nuova identità di Giacobbe, anch’essa “inseparabile dall’alterità o dal conflitto”.
Insomma, quel che emerge dall’analisi dei molteplici e indeterminati volti dell’Avversario è innanzitutto l’insolubilità dell’enigma circa l’identità di quest’ultimo. Enigma che perciò resta tale, così come resta indecidibile il ruolo che Giacobbe e l’Angelo svolgono nella Lotta, dal momento che è proprio e solo la Lotta che riesce a identificarli, senza mai perdere la sua carica conflittuale.
Il tema di fondo è, dunque, l’impossibilità radicale d’esibire una identità che possa fare a meno del conflitto, cioè che non sia contrassegnata dalla violenza dello scontro tra i lottatori. “È la Lotta stessa – come scrive Esposito – a identificarli, facendo dell’uno l’immagine speculare dell’altro”. Il riferimento allo specchio ci porta nel lessico psicoanalitico. In quest’ottica, specchiarsi nell’Avversario significa innanzitutto combattere con sé stessi, con la parte perversa della propria personalità, presente in forma latente ma incapace di liberarsi. Ecco, dunque, che l’Avversario si precisa come la propria ombra: una parte della propria identità da cui, attraverso la Lotta, ci si vorrebbe staccare definitivamente. Uniti e separati dalla Lotta, i due contendenti “condividono la stessa intenzione e la stessa impossibilità di realizzarla”. Così come la vita non potrà mai vincere la morte, l’identità non potrà mai separarsi dall’alterità. La connessione tra le due si precisa in forma di inimicizia essenziale. L’Avversario che ci fronteggia, che ci minaccia che e vorremmo annullare, non è altro che la nostra ombra. Perciò, in realtà, ci accompagna sempre. Il progetto di proiettarla fuori di noi per distruggerla definitivamente una volta per tutte si dimostra solo velleitario e, in fin dei conti, anche autodistruttivo.
Per questa ragione, “per mettere fine all’eterna lotta tra i popoli, ciascuno dovrebbe riconoscere la propria ombra, anziché proiettarla nel nemico di turno”. L’ombra dell’inimicizia andrebbe allora riconosciuta come costitutiva delle stesse identità. “Solamente allora, aggiunge Esposito nelle ultime pagine del libro, i popoli del mondo raggiungeranno la maturità di Giacobbe, allorché scorge nella figura dell’Avversario anche il volto di Dio”.
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