CONTRO IL SOLARPUNK

Solarpunk_(saubere_Stadt)MAURIZIO BALISTRERI

Il solarpunk è un sottogenere della narrativa speculativa e un movimento culturale che immagina un futuro sostenibile e inclusivo, basato su tecnologie ecologiche, comunità resilienti e una radicale trasformazione dei valori socio-economici. Le sue caratteristiche principali includono 1) centralità della sostenibilità ambientale: il solarpunk propone un futuro in cui l’umanità convive in armonia con la natura, utilizzando tecnologie rinnovabili e pratiche di vita sostenibili per affrontare le sfide climatiche. Ad esempio, si immaginano città alimentate dall’energia solare, agricoltura urbana e sistemi di riciclo avanzati. 2) Inclusività e la giustizia sociale: questo movimento mette al centro l’importanza di piccole comunità eterogenee e inclusive, che condividono risorse e saperi per il bene comune. Promuove l’emancipazione delle culture emarginate e delle tradizioni indigene, viste come fonti di innovazione sostenibile. 3) Opposizione alla distopia e visione ottimistica: a differenza della fantascienza distopica (si pensi, ad esempio, alla realtà virtuale e alle droghe sintetiche del cyberpunk), il solarpunk propone soluzioni concrete per problemi globali, evitando il fatalismo. Non si limita a descrivere un futuro idilliaco, ma sviluppa un’idea di speranza critica, fondata su strategie pratiche per superare l’attuale crisi socio-ambientale. 4) Decentralizzazione e autonomia: il solarpunk si basa su sistemi locali, autosufficienti e decentralizzati. Promuove il prosumerismo (produzione e consumo locale), la decarbonizzazione e la de-urbanizzazione, valorizzando uno stile di vita off-grid, e pertanto riducendo al minimo da infrastrutture esterne centralizzate (a questo riguardo, consiglio la lettura dell’ultimo romanzo di Francesco Verso, I camminatori, pubblicato da Future Fiction). 5) Arte e attivismo: questo movimento non si limita alla narrativa, ma coinvolge discipline come l’architettura, l’urbanistica e l’arte. Attraverso l’arte-attivismo o “solartivismo”, cerca di sensibilizzare il pubblico su tematiche ambientali e sociali, spesso combinando creatività e azione politica. 6), Infine, resistenza al consumismo e al “greenwashing”: il solarpunk è una risposta al capitalismo consumistico, opponendosi alla mercificazione della sostenibilità. Rifiuta l’idea di una sostenibilità superficiale e brandizzata, mirando invece a un cambiamento autentico e controculturale. In sintesi, il solarpunk è una narrativa speculativa che propone una visione trasformativa che unisce tecnologia, etica e immaginazione per costruire un futuro più equo e rispettoso del pianeta, in nome della necessità di sviluppare un nuovo equilibro con la natura.

Anche se il Solarpunk offre una visione affascinante e piena di speranza per il futuro, che combina creatività e innovazione tecnologica con un profondo rispetto per l’ambiente (e fino a questo punto è una prospettiva sicuramente condivisibile) vorrei provare a confrontarmi criticamente con i suoi presupposti. La cosa che mi convince meno del Solarpunk, come narrazione e visione trasformativa, è la difesa di un modello di sviluppo che mira a conciliare il progresso tecnologico con il rispetto dell’ambiente. In un’epoca segnata dalla crisi climatica, affermare che l’umanità dovrebbe convivere in armonia con la natura, utilizzando tecnologie rinnovabili e pratiche sostenibili, è un appello che, anche se nobile, risulta troppo generico e si presta, poi, a molteplici interpretazioni. Innanzitutto, il concetto stesso di “armonia con la natura” è ambiguo: da un lato, potrebbe implicare una gestione moralmente responsabile delle risorse naturali, ma dall’altro potrebbe tradursi in un controllo o una manipolazione della natura stessa, mascherati da buone intenzioni. Nelle versioni più estreme, questa ambivalenza rende difficile stabilire un confine chiaro tra ciò che è moralmente accettabile e ciò che invece si configura come una strumentalizzazione della natura. Tuttavia, “convivere in armonia con la natura” potrebbe essere anche soltanto un appello pragmatico (un semplice invito alla prudenza!), che invita a considerare con attenzione le conseguenze delle nostre azioni, minimizzando i danni irreversibili per le generazioni presenti e future. In questo senso, il solarpunk non sarebbe altro che un’esortazione a sviluppare soluzioni che, pur promuovendo il progresso e lo sviluppo, tengano conto delle complessità e fragilità del sistema naturale. O, volendo essere meno generosi, una semplice dichiarazione d’intenti priva di sostanza e orientamento.

Inoltre, c’è qualcosa di utopico in un programma ‘politico’ che punta a trovare il punto di equilibrio ideale tra la natura (i suoi processi e le sue dinamiche) e i bisogni e le necessità dell’umanità. Del resto, l’idea stessa che si possa raggiungere un punto di equilibrio sostenibile con la natura sembra riflettere una visione eccessivamente idealizzata, quasi romantica, della natura stessa. La natura, infatti, non è un’entità statica o prevedibile: i suoi processi includono eventi caotici, distruttivi e imprevedibili, che non si armonizzano facilmente con le aspettative umane di sicurezza e stabilità. Pretendere di convivere in piena armonia con essa non soltanto potrebbe rivelarsi un obiettivo irrealistico o addirittura ingenuo, ma potrebbe anche minacciare la nostra stessa sopravvivenza. Un altro punto critico riguarda l’utilizzo delle tecnologie rinnovabili e l’idea che sia possibile conciliare l’esigenza (legittima!) di uno sviluppo scientifico e tecnologico con il rispetto della natura. L’obiettivo del Solarpunk, infatti, non è quello di ritornare a vivere nella (e secondo) natura, ma di sfruttare i saperi scientifici e tecnologici per inventare un modello di sviluppo più sostenibile e capace di promuovere una “società anticapitalista, de-urbanizzata e incentrata sui giardini”. È legittimo chiedersi, però, se lo sviluppo tecnologico e il rispetto della natura possano realmente conciliarsi e se sia veramente possibile promuovere un modello di progresso che, senza rinunciare alla scienza e alle tecnologie, mantenga comunque un impatto minimo o trascurabile sull’ambiente. Francesco Verso ci ricorda che il Solarpunk immagina un futuro che funziona con energie rinnovabili come il solare o l’eolico (Solarpunk, come ho imparato ad amare il futuro, pp. 318-344). Anche se però fonti di energia rinnovabile come il solare, l’eolico e l’idroelettrico potrebbero rappresentare valide alternative alle fonti fossili, queste tecnologie hanno un impatto ambientale. La produzione di pannelli solari, turbine eoliche e batterie richiede l’estrazione intensiva di risorse come litio e terre rare, spesso in condizioni di sfruttamento umano e degrado ambientale (non è un caso che si guarda sempre più allo spazio e agli asteroidi come nuove miniere di minerali e metalli). Il Solarpunk, pertanto, sottovaluta il lato oscuro del progresso tecnologico, riponendo una fiducia forse eccessiva nella capacità delle innovazioni di risolvere problemi complessi senza crearne di nuovi.

Cioè, il Solarpunk sembra idealizzare il futuro che abbiamo davanti, immaginando un’umanità non è più in conflitto con l’ambiente, ma trascurando le contraddizioni legate al nostro stile di vita. La soluzione che spesso viene indicata sembra andare nella direzione di una riduzione significativa dei consumi, secondo la filosofia dello sviluppo sostenibile e della decrescita propugnata da Serge Latouche, e avere come punto di arrivo (quasi obbligato) l’edificazione di piccole comunità autosufficienti. Con la costruzione, infatti, di piccole comunità autosufficienti non soltanto verrebbe meno la necessità di infrastrutture complesse (autostrade, aeroporti, oltre che grandi reti di distribuzione energetica ed idrica) ma si favorirebbe anche un utilizzo delle risorse più localizzato e controllato. Alla fine, il risultato sarebbe lo sviluppo di tecnologie a basso impatto (ambientale) e il ricorso a cicli chiusi di produzione e consumo e, di conseguenza, la riduzione dei rifiuti e delle emissioni. Un sistema di sviluppo di questo tipo, basato sullo sviluppo di piccole comunità autosufficienti, e la riduzione dei consumi produrrebbero poi una diminuzione dell’impronta ecologica. Che un programma di questo tipo miri a immaginare una società diversa, non più fondata sulla gentrificazione, l’espropriazione, l’abuso e la perdita dell’identità, è più che evidente. Al centro di questa visione c’è l’aspirazione a sviluppare modi di vivere che possano migliorare la qualità della vita non solo nel presente, ma anche e soprattutto per le generazioni future. L’obiettivo non è semplicemente la sopravvivenza individuale, ma un progetto che considera l’umanità come una collettività, una specie intera, impegnata nella ricerca di un equilibrio sostenibile con il pianeta e l’ambiente. Il tentativo, cioè, è quello di ridefinire il concetto stesso di progresso, spostandolo da una crescita esclusivamente economica (e consumistica, secondo il modello capitalistico) a una più ampia crescita etica e collettiva, capace di preservare e valorizzare la vita in tutte le sue forme oggi immaginabili. Siamo sicuri però che la felicità si ottenga semplicemente riducendo i consumi materiali e scegliendo di vivere in piccole comunità autosufficienti e poco integrate con il mondo esterno? E siamo sicuri che è questo il mondo che vogliamo lasciare ai nostri figli e alle generazioni future? Questo modello propone non solo un rifiuto della logica del capitalismo e della crescita economica illimitata, ma anche l’adozione di uno stile di vita basato soprattutto ‘su quello che abbiamo già’: “Il nostro futuro – scrive Adam Flynn – riguarda il riutilizzo e la creazione di cose nuove con quello che abbiamo già (al contrario del ‘distruggi tutto e costruisci qualcosa di completamente diverso’, come nel modernismo del XX secolo. Il nostro futurismo non è nichilista come il cyberpunk, né quasi-reazionario tipo lo steampunk: parla d’ingegno, creazione positiva, indipendenza e comunità” (Francesco Verso, Solarpunk, come ho imparato ad amare il futuro, p. 333). Ciò che abbiamo a disposizione, però, potrebbe non essere sufficiente per affrontare le sfide attuali e future, e potremmo aver bisogno non soltanto di un aggiornamento delle risorse e delle tecnologie esistenti, ma anche della loro completa sostituzione con soluzioni più efficaci, sostenibili e innovative. La felicità, poi, non si riduce esclusivamente a una vita a basso impatto ambientale o a un consumo moderato; essa dipende anche dall’interazione sociale, dalla connessione culturale e dalla possibilità di accedere a risorse educative, tecnologiche e sanitarie. Vivere in una comunità ristretta e relativamente isolata potrebbe limitare queste opportunità, ponendo nuove sfide, soprattutto in termini di diversità di esperienze, accesso alle innovazioni e apertura verso il progresso scientifico e tecnologico. In definitiva, si tratta di capire se la decrescita possa offrire una felicità autentica o se, al contrario, il suo ideale si scontri con alcuni dei bisogni fondamentali dell’essere umano, come la necessità di apertura, comunicazione e appartenenza a un contesto più ampio e diversificato.

E infine, l’idea che lo sviluppo tecnologico debba essere ispirato alla natura sembra basarsi sulla convinzione che quest’ultima racchiuda una saggezza intrinseca o un equilibrio invidiabile che l’umanità dovrebbe rispettare e imitare. Anche in questo caso, questo approccio sembra riproporre una visione romantica e idealizzata della natura, considerata come un modello ideale di ordine e armonia: “Esteticamente il solarpunk riporta la natura al centro e – afferma Verso – la osserva in maniera attenta e diversa da quanto fatto ultimamente, con materiali artificiali e un gusto postmoderno. Non si parla di fantasie floreali o di ritorno a una specie di ‘primitivismo’. Al contrario, il biomimetismo, l’ispirazione e il ricorso cioè a materiali, schemi e modelli ispirati alla natura, prevede l’inserimento o la fusione di tali elementi nelle infrastrutture urbane, negli edifici pubblici e privati e nei tessuti dei vestiti. Invece di rappresentare la natura con strumenti artificiali, si imitano i suoi processi naturali (…) (Francesco Verso, Solarpunk, come ho imparato ad amare il futuro, p. 333). Possiamo, però, anche riconoscere che la natura possa essere fonte di ispirazione e anche di creatività. Tuttavia, si deve anche considerare che la natura, per quanto affascinante e straordinaria, non è sempre un esempio di perfezione o sostenibilità: essa comprende anche processi distruttivi, squilibri e lotte per la sopravvivenza contro le quali noi possiamo essere chiamati ad intervenire per ‘correggere’ ed adattare processi che altrimenti, lasciati alla loro spontaneità, produrrebbero danni irreversibili.

Posso, pertanto, anche condividere la speranza che emerge dal Solarpunk di un ripensamento radicale delle dinamiche che regolano la nostra economia e il modello di sviluppo globale (Francesco Verso, Ecoluzione. Narrazioni solarpunk per trasformare la realtà, Future Fiction). Tuttavia, all’idealizzazione delle piccole comunità autosufficienti ispirata all’ecologia sociale di Murray Bookchin preferisco una prospettiva che privilegia le ibridazioni di un mondo sempre più interconnesso e interdipendente, oltre che sempre meno definito da confini ‘culturali’ e barriere nazionalistiche. Riconosco, poi, i pericoli di processi di colonizzazione poco rispettosi delle tradizioni, tuttavia, a differenza di Vandana Shiva, non sono convinto che i saperi locali vadano sempre preservati e che costituiscano un’alternativa alle tecnologie moderne nel contesto agricolo e ambientale. Infine, anch’io penso che sia importante rispettare la natura e posso anche ammettere che la natura possa essere fonte di ispirazione, ma al tempo stesso attribuisco valore anche a ciò che è artificiale. Anzi, sono convinto che alle volte la sostituzione di ciò che è naturale con ciò che è artificiale (prodotto dall’essere umano) non sia solo auspicabile, ma rappresenti anche un dovere morale. Negli ultimi anni i transumanisti hanno affermato che l’umano (almeno l’umano come oggi lo conosciamo) deve essere superato e che soltanto attraverso l’ibridazione con la tecnologia avrà la capacità di uscire da quella condizione fisiologica di vulnerabilità e debolezza che finora l’ha caratterizzata. Si può provare ad estendere questo paradigma ed affermare che il superamento della condizione naturale è desiderabile non soltanto per gli esseri umani, ma per tutti gli esseri viventi, inclusa la natura. In questa prospettiva, le biotecnologie (penso non soltanto ad interventi di modificazione genetica, ma anche alla creazione di sequenze genetiche sintetiche e all’ibridazione della natura con sistemi di intelligenza artificiale) possono svolgere un ruolo cruciale, consentendo una riprogettazione del mondo che sia non solo tecnicamente avanzata, ma anche eticamente responsabile.

 

 

 

 

 

ENDOXA - BIMESTRALE Fantascienza FILOSOFIA

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