POWER ON: DA DOVE VIENE IL POTERE DELLO STATO?

PIER MARRONE

I filosofi non hanno dei laboratori, come ce li hanno gli scienziati, pieni di macchinari, talvolta costosi e molto complessi e delicati, altre volte semplici ed economici per produrre esperimenti. Questo non significa che non facciano esperimenti o non possano suggerire esperimenti, ma gli esperimenti che sono contenuti nella cassetta degli attrezzi di chi si occupa di filosofia si svolgono con l’ausilio dell’immaginazione. Daniel Dennett ne distingue due generi: 1) gli esperimenti di pensiero; 2) le pompe dell’intuizione. Ammesso che questa distinzione sia di una qualche utilità, gli obiettivi che si intendono raggiungere nell’uno e nell’altro caso, sono molto simili, poiché si tratta di immaginare delle situazioni limite o di immaginare delle scene dalle quali possano emergere con chiarezza gli elementi di un problema, che intendiamo affrontare, oppure gli assunti nascosti di un concetto che usiamo con naturalezza, ma il cui utilizzo presenta numerose criticità che lo rendono nient’affatto naturale come ingenuamente ritenevamo. Come esperimento di pensiero si può citare il celebre “cervelli in una vasca” di Putnam, oppure lo stato di natura di Hobbes; come esempi del secondo si possono citare  il celebre mito della caverna di Platone, oppure il racconto contenuto nel dialogo Menone, dove Socrate  (in generale, tutti i miti platonici sono pompe dell’intuizione) conduce uno schiavo ignorante alla dimostrazione di un teorema di geometria. Anche gli ormai numerosi programmi di vita artificiale, inizialmente un progetto di cooperazione tra informatici e biologi che aveva come obiettivo di progettare al computer alcune semplici strutture capaci di evolversi in modalità autonome, seguendo le leggi della selezione naturale, sono esempi di esperimenti mentali, sebbene molto più rigorosi di quelli tradizionali ideati dai filosofi.

Gli esperimenti mentali, insomma, sono strumenti per potenziare l’immaginazione e per rendere chiare situazioni che ci riguardano da vicino e che addirittura possono costituire una parte rilevante della nostra esperienza di esseri che conoscono, amano, odiano, riflettono, cooperano. Questa ultima caratterizzazione – la cooperazione – è quanto mi interessa, perché sulla cooperazione tra gli esseri umani si scontrano da molti secoli due visioni, semplificando, ma non banalizzando, che sono opposte. Ci sono coloro che ritengono che la cooperazione sia un fenomeno naturale tra gli esseri umani, proprio nel senso che noi siamo predisposti a cooperare dalla nostra stessa costituzione umana. Molti biologi evoluzionisti sono su questa linea e pensano alla cooperazione tra individui della medesima specie come una modalità di massimizzare la trasmissione del proprio patrimonio genetico. Per rimanere nell’ambito filosofico sono innumerevoli gli esempi di coloro che ritengono la cooperazione un fatto meritevole di essere approfonditamente indagato, anche per il fatto che non può certamente essere contestato. Aristotele, gli Stoici, Tommaso, Locke, Hume, Kant (che con la sua frequente perfidia parlava di “insocievole socievolezza” degli esseri umani): tutti concordano su questo punto, almeno nelle sue linee generali. Nella filosofia contemporanea forse solo Stirner, autore de L’unico e le sue proprietà, ha uno sguardo radicalmente divergente.

Naturalmente, l’esempio primo che a molti che frequentano i lidi filosofici viene in mente per sostenere che la cooperazione non è un fatto della natura, bensì piuttosto una costruzione che si situa totalmente dal lato dell’artificio e dell’invenzione, è Thomas Hobbes. Hobbes pensava che la cooperazione è il risultato dell’esistenza dello stato. Senza lo stato noi vivremmo costantemente immersi in uno stato di guerra potenziale, che non potrebbe garantire la sicurezza, almeno relativa, di poter godere di quel bene il cui possesso è la garanzia per il godimento di ogni altro, ossia la vita. Gli esseri umani sono macchine desideranti che vogliono sempre di più di quanto hanno e sono disposti a qualsiasi cosa per procurarselo. Nessuno può essere al sicuro in questa situazione che Hobbes chiama “stato di natura”, ma tutti devono costantemente temere tutti. Tuttavia, per Hobbes noi non siamo solo una costante fucina di desideri, ma siamo anche dotati di razionalità strumentale e siamo perciò in grado di comprendere quanto questa situazione sia negativa e perennemente instabile.

Hobbes è abile a disegnare un incubo tale che l’unica strada possibile sia uscire dallo stato di natura e provvedere a costruire quel “dio mortale” che è lo stato. Hobbes lo qualifica come dio mortale perché ha le caratteristiche dell’onnipotenza, nei limiti delle possibilità del mondo fisico. Nulla, quindi, può sfuggire al potere dello stato. Questo non significa, però, che tutto sia nel potere effettivo dello stato, poiché ciò che dallo stato non è espressamente proibito è, allora, permesso. Sia coloro che hanno uno sguardo naturalistico e, in fondo, ottimistico, sia coloro che in varia misura condividono almeno qualche aspetto della cupa visione di Hobbes convergono però nel ritenere lo stato, come garante di una cooperazione ordinata (che si tratti anche di una cooperazione giusta è tutta un’altra questione), un fatto che non è opportuno mettere in questione. Anche chi, come Hume, pensa che ogni stato si generi dalla rapina e dalla violenza, aggiunge spesso, per lo meno come riserva mentale, quanto Hume suggeriva esplicitamente: non è un bene indagare troppo a fondo sull’origine degli stati, perché si rischia di fare scoperte sgradevoli.

Ma perché non dovremmo interessarci sull’origine del potere? Se fossimo in grado di dare una risposta alla domanda sulla fonte del potere, questo potrebbe essere utile per altre questioni, ad esempio per valutare la legittimità degli stati esistenti. Forse, poi, un’unica risposta non esiste e le fonti della nostra indagine devono essere rintracciate non solo negli esperimenti di pensiero, che non sono certo unicamente dei passatempi per filosofi sfaccendati, ma anche nelle evidenze storiche, nei resoconti etnografici, nella storia delle religioni. Il potere è camaleontico e non si esaurisce nella costruzione di istituzioni coercitive e questa potrebbe essere una ragione per interrogarne la genesi da più di una prospettiva. Una fra le più illuminante è quella che considera il potere, che si incarna nella regalità (un fenomeno sembrerebbe diffuso in tutte le culture umane che hanno abitato la terra), come un veicolo di comunicazione con il divino e come una sorta di incarnazione del divino. Alla regalità, secondo quanto è rintracciabile nei racconti mitici e secondo quanto abbiamo appreso dalle ricerche etnografiche, erano demandate le richieste che avevano a che fare con la conservazione e la prosperità della comunità. Il re doveva essere in grado di invocare efficacemente il divino per procurare la pioggia e assicurare raccolti abbondanti. Erano certamente ammessi i fallimenti, per i quali di solito il sovrano invocava o i nemici esterni o una quinta colonna interna (pare che nulla sia cambiato, vero?), ma non dovevano essere ripetuti. Se la regalità non era in grado di soddisfare le aspettative dei sudditi, questi potevano fare scempio del corpo del sovrano, magari divinizzandolo in seguito al suo sacrificio come capro espiatorio.

Non si sa per certo se la cerimonia del capro espiatorio sia all’origine di ogni comunità politica, come vorrebbe Renè Girard. Quel che è assodato è che la regalità ha l’ambizione di imitare l’onnipotenza del divino. L’onnipotenza ha qualcosa di incomprensibile, poiché è la capacità di fare qualsiasi cosa, ossia di inoltrarsi nell’assurdo dell’arbitrarietà, che in definitiva è il sigillo della onnipotenza. Si capisce allora come la caratterizzazione che Hobbes dà del sovrano come “dio mortale” sia qualcosa di più di una metafora. Il sovrano è il principio costitutivo del sistema della moralità e della legalità, ma in quanto loro origine è logicamente estraneo e anteriore a tale sistema. I visitatori europei giungono al regno di Buganda, un regno che esiste ancora oggi all’interno del moderno Uganda, e per impressionare il re con la potenza della civiltà europea gli mostrano gli ultimi modelli di potenti armi da fuoco. Il re Mutesa decide allora di testarne l’efficacia sparando a caso su alcuni sudditi. Come il dio, anche Mutesa è tanto una potenza che agisce senza ragioni comprensibili, come accade per i tuoni e i fulmini, quanto, nel medesimo tempo, anche il garante, come giudice supremo, dell’equità del sistema giudiziario. Il sovrano trascende i limiti del quotidiano e dell’ordinario per la sua funzione derivata direttamente dal dio. Questa funzione può però degradarsi quando il sovrano-dio mortale non è in grado di esibire i segni della sua potenza, come si diceva.

Il punto non è forse che il sovrano sia un’incarnazione del dio, ma che la sua violenza mima quella incomprensibile del dio e come il dio la può esercitare impunemente. Un proverbio malgascio afferma: “Il dio ci uccide”. Sembrerebbe che siamo di fronte a un cortocircuito, ma è realmente così? Il sovrano che esercita l’arbitrio è lo stesso che garantisce la pace e l’esercizio equo del diritto? Come è possibile? Questa connessione tra sovranità come apparentata al divino e origine del potere è stata resa celebre da Carl Schmitt per il quale tutti i concetti fondamentali della filosofia politica hanno origini teologiche. Si potrebbe essere indotti a credere si tratti di un’esagerazione per il semplice fatto che comportamenti come quelli di Mutesa suscitano il nostro orrore più che la nostra semplice disapprovazione. Forse, tuttavia, dovremmo riflettere sul fatto che anche nello stato nazionale, così come si è costituito nell’epoca moderna, si percepisce ancora questa idea dell’onnipotenza del potere, che fonda sé stesso. Walter Benjamin distingueva tra la violenza che istituisce il diritto, la violenza legiferante e la violenza che si esercita all’interno del diritto, il cui esercizio stesso è conservazione del diritto. Anche in questa concettualizzazione non siamo andati molto lontano dalla constatazione che il diritto non fonda sé stesso, ossia che nessun ordine costituzionale può fondare sé stesso. A noi tutti piace dire in maniera compiaciuta che nessuno è al di sopra del diritto, ma i padri fondatori che firmarono la costituzione degli Stati Uniti d’America e i rivoluzionari che fondarono la repubblica francese erano ribelli che si affrancarono da un ordine giuridico precedente con un atto di disobbedienza, ossia mediante delle azioni violente che non riconoscevano l’ordine giuridico nel quale erano nati.

Noi potremmo dire che il nostro caso è diverso, poiché la nostra repubblica è nata dalla resistenza armata al nazifascismo. Ma anche questa è in fin dei conti un’asserzione normativa e non certo una descrizione di eventi storici, poiché la nostra repubblica non sarebbe certo nata senza il supporto delle truppe americane, inglesi, canadesi, neozelandesi. La presenza, poi, di queste ultime nella mia città, impedì che Trieste, il cui ruolo nella divisione delle sfere d’influenza dopo la seconda guerra mondiale non era stato ancora sancito dalle potenze vittoriose, diventasse parte della dittatura jugoslava e si trovasse dalla parte orientale della cortina di ferro che sarebbe calata dopo poco da Stettino a Trieste, secondo la celebre espressione di Churchill. L’Italia repubblicana nasce, quindi, dal disastro della guerra e dalla sconfitta violenta dell’ordine giuridico e politico che quella guerra aveva reso possibile. Possiamo però dire qualcos’altro, ossia che la sovranità nella nostra repubblica risiede nel popolo e non nell’arbitrio di un sovrano che mima l’onnipotenza divina. Qui, però, sorge il dilemma di non poco conto di identificare il popolo, che pur sempre, tuttavia, esercita la sua sovranità nei limiti della costituzione, che quindi sembrerebbe implicare un atto anteriore di conferimento della sovranità allo stesso popolo che la esercita. Come è possibile distinguere il popolo dalla turba, dalla folla che assalta i palazzi del potere legittimo? Gli atti che sospendono gli istituti di garanzia dell’habeas corpus sono il potere costituente della sovranità popolare o della dittatura? È evidente che non ogni atto di violenza sovversiva può essere concettualizzato come in grado di istituire un ordine politico-giuridico, anche se è innegabile l’attrazione che proviamo per il criminale guascone capace di sfidare la legge, come ancora una volta faceva notare Benjamin. È anche evidente che coloro che si ritrovano nelle proprie mani un potere immenso non indulgono certo in affermazioni di questo genere, se non altro per il fatto che la grandissima maggioranza di coloro che provano a prendere il potere vanno incontro al fallimento. Ma forse mancano nella storia i teppisti di successo, i criminali politici, coloro che in altre circostanze sarebbero solo stati dei guitti imbarazzanti, che si sono fatti strada con la violenza e la spregiudicatezza, con le armi e con la seduzione, verso la conquista del potere?

Allora cosa potrebbe indicare la vicinanza della regalità/sovranità al divino oppure l’appello al popolo come fonte della sovranità? Forse solo il fatto che il potere scaturisce dalla violenza e che questa non deve apparire insensata aglio occhi di coloro verso i           quali è potenzialmente indirizzata, ma deve essere piuttosto normalizzata con un richiamo alla sacralità e/o alla legittimità. Questo richiamo vale anche ad affermare implicitamente che alla sovranità non c’è alternativa, ovvero che la sua unica alternativa è il caos, ossia la guerra hobbesiana di tutti contro tutti. Questo è però in contrasto con numerose evidenze che sembrano dare ragione tanto a Locke quanto a Hume, ossia che la cooperazione reciprocamente vantaggiosa emerge spontaneamente dalle interazioni umane. Ma c’è un limite superiore alla cooperazione nel villaggio con pochi abitanti, che appena trascende il nucleo familiare, alla cooperazione nel condominio dove tutti si conoscono? Questa spontaneità vale anche dove vengono coinvolti milioni di individui? Oppure di nuovo, ancora una volta, è necessario immaginare un ente che regoli e tuteli queste interazioni, che ovviamente non potranno essere così libere come quelle che si esercitano in gruppi ristretti? Sono tutte domande che faremmo bene a riproporre continuamente al potere. Il potere dello stato appare eterno e questa è una delle ragioni per le quali noi non lo contestiamo quasi mai. Forse è la ragione principale di un mitologema, che non ha nessuna base razionale, ma trova la sua necessità nel semplice fatto che non viene mai interrogato.

ENDOXA - BIMESTRALE FILOSOFIA

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