CENNI STORICI SULLA MEDICINA DEL PLACEBO: IL POTERE DELLE NOSTRE CREDENZE
SILVIA D’AUTILIA
Durante la seconda guerra mondiale, il chirurgo americano Henry Beecher aveva terminato le scorte di morfina negli ospedali militari in cui prestava servizio. Un soldato si ferì gravemente al punto da richiedere un’urgente operazione chirurgica, ma Beecher temeva appunto le dolorose conseguenze che potevano derivare dalla mancata somministrazione del potente antidolorifico. Senza pensarci due volte, l’infermiera che lo assisteva riempì una siringa di soluzione fisiologica e la iniettò al giovane. Il risultato fu sorprendente: il soldato immediatamente si tranquillizzò come si trattasse di morfina e Beecher riuscì a svolgere l’intervento. Era evidente che una credenza “fiduciosa” aveva avuto effetti sbalorditivi e impensabili. Ogni volta che Beecher rimaneva senza morfina, ripeteva la procedura e i risultati lo convinsero a studiare il funzionamento di quello che oggi conosciamo come “effetto placebo”. Così, nel 1955, pubblicò sul Journal of the American Medical Association un lungo rapporto intitolato The powerful placebo: nell’articolo, Beecher non documentava soltanto la sua scoperta, ma invitava altresì la comunità scientifica a testare l’efficacia dei farmaci sia con i principi attivi veri e propri sia con i placebo, ovvero quelli che oggi conosciamo come studi a doppio cieco, nei quali né gli sperimentatori, né i pazienti sanno con quale sostanza sono trattati. Naturalmente Beecher, che è oggi ritenuto l’apripista delle ricerche sul placebo, non ometteva di considerare che i risultati potevano dipendere da una grande concomitanza e variabilità di fattori: dal corredo genetico della persona alle sue esperienze vissute, dal diverso grado di suggestionabilità alla particolare patologia in essere. In ogni caso, un mondo nuovo si spalancava per la medicina ed era certamente il caso, nonostante le delicatissime implicazioni etiche e soggettive, di approfondirne la portata.
Poco meno di 50 anni dopo, nel luglio 2002, venne pubblicato un nuovo studio sul New England Journal of Medicine che mirava a stabilire l’efficacia della chirurgia artroscopica in casi di osteoartrite del ginocchio. Il chirurgo ortopedico Bruce Moseley, principale autore della ricerca (A controlled trial of arthroscopic surgery for osteoarthritis of the knee), voleva stabilire quale fosse la migliore strada terapeutica nei casi di pazienti affetti da grave dolore alle ginocchia. Il metodo di ricerca prese in carico un totale di 180 pazienti affetti dalla patologia assegnandoli in modo casuale a ricevere l’arredamento artroscopico, la lavanda artroscopica o la chirurgia placebo (consistente in un’incisione cutanea con débridement simulata e senza l’inserimento dell’artroscopio.) Il monitoraggio dello studio durò 24 mesi e i risultati furono inattesi: ovviamente, i pazienti realmente trattati con la chirurgia trovarono giovamento dall’intervento; ma il fatto straordinario fu che anche il gruppo placebo aveva riportato gli stessi identici benefici in termini percentuali. Alla fine dello studio, il gruppo di lavoro giunse alla conclusione che: “in questo studio controllato, che coinvolge pazienti con osteoartrite del ginocchio, i risultati dopo lavanda artroscopica o débridement artroscopico non erano migliori di quelli dopo una procedura placebo.”
Quello dell’osteoartrite non è stato l’unico ambito in cui è stato volontariamente studiato l’effetto placebo sull’efficacia effettiva di un farmaco. Un anno prima, nel 2001, Irving Kirsch, professore di psicologia presso l’Harvard Medical School degli Stati Uniti e presso l’Università di Plymouth nel Regno Unito, si appellò al Freedom Information Act per conoscere l’esito dei test clinici effettuati sui sei antidepressivi in commercio, poiché la Food and Drug Administration, l’agenzia governativa americana che approva i nuovi farmaci da immettere sul mercato attraverso trial clinici randomizzati (randomized controlled trial), ne vietava la circolazione. Più della metà dei test attestava che il farmaco non dava risultati migliori della pillola di zucchero somministrata ai pazienti. Alla fine delle sue ricerche, Kirsch diede alle stampe il libro tradotto anche in italiano I farmaci antidepressivi: il crollo di un mito (Tecniche nuove, 2012). Nel testo l’autore si interroga su quale sia dunque il motivo alla base del sempre più massivo ricorso agli psicofarmaci, al loro uso e consumo senza risparmiare nessuna fascia della popolazione. La risposta risiede nel meccanismo psicologico della vendita stessa: la convinzione che la tal medicina sicuramente funzioni sulle nostre sofferenze. Questo è esattamente il punto in cui marketing e cura si toccano: la certezza di una salvezza esterna. Oggi il mercato non deve più fare tanto leva sui desideri, ma sulle credenze. Se qualcuno convince l’opinione pubblica che un farmaco miracoloso è in grado di curare la depressione, la stessa diagnosi di depressione acquista più senso e valore, perché esiste la medicina che la elimina. Il marketing farmacologico ha completamente ribaltato il modello ippocratico della cura: prim’ancora dei malati ci sono le malattie e le malattie vanno curate come se il malato non ci fosse: contingentemente e specificamente.
La storia della medicina occidentale d’altronde è soprattutto una storia di specialismi tecnici, per i quali abbiamo sempre bisogno di particolari e peculiari interventi esterni per recuperare la salute, chirurgicamente o farmacologicamente. Non è mai stata, o non è quasi mai stata, una storia di sguardi interni complessivi, di ciascuno verso se stesso e verso le proprie potenzialità di ripresa e riabilitazione.
Secondo Bruce Lipton, autore del best seller La biologia delle credenze, il motivo per cui la mente e le sue credenze sono state così trascurate dalla medicina ha soprattutto a che fare con motivazioni economiche: se cambiare credenze può davvero apportare un effetto benefico sulle nostre sofferenze, il mercato dei farmaci è spacciato. Valorizzare la portata dell’effetto placebo nella cura è un colossale antagonismo dell’industria farmaceutica e dei profitti ad essa connessi. Ecco perché, secondo Lipton, la medicina è uno dei principali ambiti che dimostra come le nostre società siano strumentalmente e convenientemente poco educate alla cura delle credenze. Non si tratta di incarnare ottimisticamente e superficialmente il mantra del pensare positivo. È un’abilità molto più complessa e ha a che fare col prioritario superamento di un pregiudizio fondamentale, ovvero la certezza secondo cui i nostri pensieri non avrebbero alternativa alla robusta cornice di principi politici e capisaldi socio-economici che orientano e condizionano le nostre vite.
Nel 1964 Herbert Marcuse pubblica quello straordinario libro intitolato L’uomo a una dimensione. Fin dall’introduzione denunciava l’incapacità delle nostre società di elaborare una visione alternativa a quella presente. Il nostro sarebbe un mondo senza opposizione, in preda alla più poderosa paralisi critica, “con una resa del pensiero e della speranza” al subdolo e capillare potere totalitario delle esigenze economiche. Gli stessi profondi bisogni del singolo sono soffocati sull’altare del progresso tecnico continuo che abbaglia, attrae, inganna e seduce attraverso l’esca della pronta disponibilità dei consumi. La medicina, con le sue rapide dinamiche di domanda-risposta, si è appunto perfettamente inserita in questo quadro di senso. Il prezzo dello sviluppo farmacologico è la completa neutralizzazione delle possibilità del singolo, tramite un processo riassumibile all’incirca così: elaborazione di una diagnosi specialistica, assegnazione di pazienti a quella diagnosi, produzione della risposta tecnica. Non c’è altro, a discapito degli inaspettati risultati che stanno scaturendo dal fortunato incrocio tra alcune branche della scienza come l’epigenetica, la psiconeuroimmunologia, la fisica quantistica e gli studi sulla neuroplasticità. Nel testo Tu sei il placebo dello scienziato americano Joe Dispenza ne troviamo una saliente esposizione. Secondo l’autore, sarebbero proprio i nostri pensieri consapevolmente intenzionali, assieme alle nostre emozioni, a fornire un’alternativa al dogma biologico del determinismo genetico: le nuove ricerche epigenetiche dimostrerebbero che non è affatto scritto nei geni il nostro destino, né le patologie che siamo destinati a sviluppare e con le quali convivere. Al contrario l’insieme di circostanze esterne che l’individuo vive e sperimenta, assieme al bagaglio di sue convinzioni e credenze, ha direttamente effetto sull’attività dei geni. Le intenzioni che prendono infatti avvio dal lobo frontale del cervello si trasformano in messaggi chimici da inviare a tutto il corpo, attivando o disattivando i relativi geni, proprio come fossero degli interruttori. In questo senso si parla di “neuroplasticità autodiretta”, proprio in riferimento alla capacità del soggetto di creare nuovi percorsi neurali e demolire quelli preesistenti tramite lo specifico tipo di pensieri che formuliamo ed esperienze che viviamo: questa capacità del cervello di autorappresentarsi immagini mentali alternative a quelle reali, e con un variabile grado di suggestionabilità, grazie al quale cambiare le credenze immagazzinate nell’inconscio, è assimilabile al principio della fisica quantistica per cui tutte le possibilità possono potenzialmente avere luogo nel presente. I fatti non sono mai esclusivi e definitivi. Questi studi confluiscono ormai in quella disciplina relativamente recente chiamata ‘psiconeuroimmunologia’ e votata a studiare gli effetti che pensieri ed emozioni hanno sul sistema immunitario, a riprova dello strettissimo legame mente-corpo.
Ecco perché si hanno buone ragioni per credere che la persona, se messa nelle condizioni di vivere situazioni ambientali agevoli e confortevoli, e se intenzionalmente disposta a cambiare con costanza le sue credenze, dispone già di una sua riserva corporea di farmaci. Un’ulteriore conferma potrebbe arrivare in senso contrario dal fatto che, così come esiste il placebo, è stato studiato un fenomeno altrettanto forte e potente a livello chimico-fisiologico definibile ‘nocebo’, e della cui trattazione si rimanda alle ricerche del fisiologo Walter Bradford Cannon per comprendere come paure, credenze negative e vissuti mal rielaborati avrebbero la capacità di paralizzarci, ammalarci o di peggiorare una preesistente condizione patologica.
Naturalmente, si ha troppo rispetto della personale sofferenza altrui per generalizzare questi studi, renderli trasversali a tutti, ed elevarli al rango di dogmi inconfutabili. Non ignoriamo le questioni etiche sottese. Eppure, a discapito di quanto svolto finora, i tempi sono ormai maturi per mettere tra parentesi le robuste influenze economiche del mercato, far dialogare queste analisi con quanto dato già per definitivo oggi nella scienza e nel sapere medico-sociale, e indagarne sempre più il valore.
Ecco perché, in conclusione, non possiamo che tornare a Marcuse e alla sua denuncia di “unidimensionalità” dell’uomo contemporaneo, nel segno della cieca accettazione del dato di fatto, e della mancata volontà di immaginarlo diversamente. La delega continua al deus ex machina del progresso e della tecnologia dimostra chiaramente che quanto più è forte il condizionamento esterno, tanto più si rimpiccioliscono i processi di consapevolezza ed espansione del singolo. Per questo motivo, per aderire concretamente alla proiezione ed elaborazione di un altro possibile, occorre prioritariamente un’educazione non banale e non scontata all’immaginazione e alla speranza, che, nostro malgrado, non sono affatto disposizioni naturali dell’uomo, ma pratiche che necessitano di un continuo esercizio di apprendimento e cambiamento del cattivo presente. In questo senso, dice Ernst Bloch, nel saggio Il principio speranza pubblicato in tre volumi, che nulla come la speranza allarga gli uomini, a differenza della passiva rassegnazione che li confina alle strettoie preconfezionate della realtà. Nella bellissima introduzione al testo, Remo Bodei riassume magistralmente questi concetti in pochissime righe che meritano assolutamente di essere riportate qui:
È necessario abbattere il diffuso pregiudizio secondo cui prima si dà il “reale” e poi spuntano i possibili, come scarto o aborto di essi. Da questo punto di vista, sembra invece più fruttuosa l’idea di partire dai possibili, per farli poi passare attraverso i filtri o le forche caudine della prova di realtà.
Ribaltare le fondamenta. Declinare le certezze. Questo e nient’altro che questo significa praticare la speranza.
BIOTECNOLOGIE ENDOXA - BIMESTRALE FILOSOFIA MEDICINA Endoxa marzo 2025 Silvia D'Autilia Speranza

