PER UNA ANTROPOLOGIA DELLA SPERANZA
MICHELE ILLICETO
La speranza, prima di essere una virtù teologale, è un tentativo, tutto umano, di interpretare e affrontare le mille peripezie che la vita ci pone innanzi per riuscire, nel modo migliore possibile, a stare al mondo.
La prima dimensione con cui la speranza ha a che fare è certamente quella della temporalità, dovendo noi fare i conti col divenire e con il fluire, con la distanza, la lentezza, il ritardo, i rimandi, i differimenti. Infatti, mentre ci muoviamo tra presente e futuro, ci rendiamo conto che, se il presente non ci basta, il futuro non ci è garantito. Pertanto, ci muoviamo tra il già e il non-ancora, tra il dato che è a noi disponibile e il compito che invece ci mette continuamente in gioco.
Con la speranza noi affrontiamo il presente guardando al futuro, e guardiamo al futuro per cambiare il presente. Per chi spera, il tempo non appare più come una semplice sequenza di frammenti insignificanti, ma riesce a scorgere nel presente la potenzialità generativa che in esso si nasconde. Come ha scritto il monaco di Bose, S. Chialà, “Senza la speranza il presente si imbruttisce, perché l’uomo perde quell’ orizzonte che gli è necessario per trascendere se stesso”.
In secondo luogo, proprio perché collocati nel fluire del divenire temporale, la speranza ha a che fare col fatto che l’uomo è un essere mancante, incompleto, incompiuto. Nulla gli basta e per questo è in esilio perenne. La speranza, in questo caso, non ti fa girare a vuoto. E’ un modo per affermare che la vita non è un gioco che non porta a niente, ma un viaggio che ha un senso perchè ha un fine, un telos da conoscere e da realizzare.
Se un tempo ci siamo identificati con la figura del pellegrino, oggi, nella società dell’incertezza, abbiamo scelto di identificarci, come ha scritto Bauman, o con la figura del turista o con quella del giocatore, che altro non sono che forme disperate di vivere la speranza.
Su tale scia, la speranza ha a che fare con una terza categoria: quella del desiderio. Non c’è speranza senza questa lontananza dalle stelle. A questo punto emerge che il tipo di speranza che si nutre dipende dal tipo di desiderio che si coltiva. E risulta decisivo capire che cosa è un desiderio, da dove nasce e che cosa implica, per non confonderlo col semplice bisogno, incentrato più sul proprio io, o peggio col capriccio. Infatti, se il desiderio ti apre al futuro, il capriccio ti tiene incatenato al presente.
Ma la speranza ha a che fare soprattutto con l’attesa. Nel suo celebre quadro del 1965, dal titolo “Concetto Spaziale Rosso, Attesa”, Lucio Fontana ha raffigurato l’attesa con un taglio. Essa indica una fessura, una ferita, uno spiraglio che tiene aperto un luogo dal quale può fare il suo ingresso, in modo imprevisto e inaspettato, l’Altro, il Nuovo, l’Assoluto, l’Infinito, l’Incommensurabile. Bisogna però ricordare che ci sono due tipi di attesa. La prima è passiva, ed è di chi subisce gli eventi e il tempo, e la seconda è attiva, ed è propria di chi forza il tempo per costruire quei processi che permettono all’evento atteso di realizzarsi.
Proprio perché legata all’attesa, la speranza esige pazienza e mitezza. P. Ricoeur ha scritto che: “La speranza viene a noi vestita di stracci perché le confezioniamo un abito di festa”. Questo significa che l’attesa non è un modo per evadere dal presente, ma un modo più profondo di vivere in esso. Se l’evasione è una forma contraffatta di speranza, al contrario, chi spera non nega il presente, ma lo assume e lo cambia. La speranza non disimpegna, ma responsabilizza.
La speranza ha a che fare anche con il nostro senso di impotenza e con le due categorie della possibilità e dell’impossibilità. Infatti, come hanno sottolineato Kierkegaard e Heidegger, per l’uomo, “essere” significa “poter-essere”. Questo gioco fa sì che mentre il presente è evidente, il possibile, al contrario, è latente, nascosto, ma non per questo meno efficace. Il possibile non è “ciò che non è” in assoluto, ma solo ciò che “non-è-ancora” e che potrebbe essere. E’ un essere sospeso. E’ il non-ancora presente nel “già”. Solo che, non vedendolo, pensiamo che non esista affatto. Pensiamo che sia inesistente, impossibile. Invece esso “dorme” nelle pieghe della storia, e ci vuole qualcuno che lo risvegli. Ci pensa la speranza. Certo, se dormi anche tu, il possibile non si realizzerà mai. Ecco che la speranza ci rende sentinelle vigili.
Quindi la speranza ha a che fare con la nostra fragilità e con l’esperienza dei nostri limiti, che possono aprirci o chiuderci. I nostri limiti sono lo scarto che intercorre tra ciò che vogliamo e ciò che possiamo, tra volere e potere. Anzitutto si tratta di andare oltre il deliro di onnipotenza, e fare del limite una grande occasione per scoprire che nessuno basta a se stesso, e che, come diceva S. Agostino, se troviamo mutevole la nostra natura, forse è meglio trascendere noi stessi. Per questo la speranza è un atto di auto-trascendimento.
A questo punto la speranza ci mette di fronte all’esperienza del “Negativo”. Se ciò che desideriamo si realizzasse subito, non ci sarebbe di sperare, ma non ci sarebbe neanche il dolore. Invece ci sono degli ostacoli, le cadute, i fallimenti, i ritardi, gli imprevisti, le illusioni e le delusioni. Di fronte a tutto ciò spesso reagiamo con sfiducia, scoraggiamento, disimpegno, rassegnazione e disperazione. Ci chiudiamo in noi stessi e viviamo alla giornata, girando a vuoto. Invece la speranza ci fa rialzare e ripartire, ci fa ricominciare.
Ora, il negativo ci fa soffrire. In questa ottica la speranza ha a che fare col dolore, con la possibilità di sbagliare, di fallire, perché tra noi e il compimento, tra l’Egitto e la terra promessa c’è tutto un lungo deserto da attraversare.
E questo accade perché la speranza ha a che fare anche con la nostra libertà. Non si spera automaticamente, ma si sceglie di sperare a proprio rischio e pericolo. In questo senso la speranza non va confusa nè con l’ottimismo nè col pensiero positivo come oggi si cerca di fare. Ad ambedue manca il dolore. Manca il momento della prova. La speranza non idealizza un futuro aleatorio. Essa ha a che fare con il fatto che l’uomo può essere illuso e ingannato, e quindi anche deluso. Infatti, ci sono troppe false speranze in giro.
La speranza ha a che fare col sogno e con l’utopia. Utopia è un neologismo coniato dal filosofo Tommaso Moro. Se mettiamo insieme i due significati del lessico greco (eu-topos, che vuol dire luogo ottimo, e ou-topos, che vuol dire non-luogo o luogo inesistente), ecco che utopia significa “luogo-altro, luogo-oltre”. Un luogo che non è alla portata dei nostri sguardi catturanti, possessivi e distruttivi. La speranza ha a che fare con l’utopia perché ha a che fare con l’oltre-passamento (che non è il superamento). Il grande filosofo marxista, E. Bloch, nella sua opera dedicata a tale tema, dice che “Pensare è oltrepassare”, cioè andare-oltre, che non è andare-fuori, ma lasciare aperto uno spazio dal qual può fare il suo ingresso l’Altro. Ed è qui che la speranza ha a che fare con i sogni, non con quelli fatti ad occhi chiusi con quelli fatti ad occhi aperti, dando ragione ad Aristotele che definiva la speranza come “il sogno di chi è sveglio”.
Da ultimo la speranza ha a che fare con l’azione. Noi siamo incompiuti, ma tendiamo verso il compimento, verso la pienezza, verso “il” fine (telos) e non verso “la” fine. Se il fine, come ci ha insegnato Aristotele, porta a compimento, la fine ci ruba tutto ciò che abbiamo costruito, cancellandolo. Solo che il futuro non viene da solo, non viene da sé. Oggi, purtroppo, più che costruttori di futuro siamo diventati consumatori di atomi di tempo, di attimi che, come schegge impazzite, quando passano non ci lasciano nulla. Siamo diventati, come dice Bauman, “collezionisti di esperienze”. Chi spera, invece, si impegna, lotta e costruisce. La speranza ci aiuta a vincere l’apatia.
Volendo concludere, superando anche Spinoza, la speranza è una passione che, se da un lato ci fa soffrire a causa dell’incertezza del futuro, dall’altro ci tiene in vita, e se dovesse venire la sconfitta, che venga pure, almeno ci troverà non dormendo, ma lottando, perché forse l’obiettivo vero non è ottenere ciò che si è sperato, ma aver provato a dare un senso a questo nostro essere ospiti del tempo.
ENDOXA - BIMESTRALE FILOSOFIA TEOLOGIA Endoxa marzo 2024 Endoxa marzo 2025 Michele Illiceto Speranza
