DETERRENZA, FIRST STRIKE, MINACCIA
PIER MARRONE
La vendetta è un’azione che si compie come atto di rappresaglia nei confronti di un’altra azione che ha danneggiato un qualche nostro interesse o ha costituito un’offesa ai nostri valori di riferimento. Ognuno di noi nel proprio posto di lavoro, nella cerchia delle proprie conoscenze, nell’ambito della propria famiglia estesa ne ha probabilmente qualche esempio alla mano. Quello che mi interessa però non è la vendetta esercitata nei confronti dei singoli individui, quanto quella esercitata contro gruppi di avversari o verso stati e nazioni.
Perché iniziano le guerre? I motivi possono essere ovviamente innumerevoli, ma c’è una motivazione generale che porta all’inizio di un conflitto: l’aggressore pensa di poter vincere. Almeno nelle guerre convenzionali vale ancora quanto affermato da Carl von Clasewitz, il grande teorico della guerra: l’aggressore vuole la pace, l’aggredito vuole continuare la guerra. C’è chi sostiene che l’aggressione non paga, ma questo non è vero. Qualche volta paga profumatamente. Non paga quando l’aggressore non fa bene i suoi calcoli. Il nuovo pontefice, Leone XIV ha iniziato il suo ministero invocando la pace. La pace è la principale utopia secolare del cattolicesimo. Un’utopia che si fatica a credere possa realizzarsi in un mondo fatto di stati in inevitabile competizione tra di loro.
Questa competizione che spesso sfocia in conflitto armato è realmente inevitabile? Secondo il modello del realismo offensivo elaborato dallo scienziato politico John Mearscheimer nel suo capolavoro, La tragedia delle grandi potenze, la risposta è affermativa senza tentennamenti. Per comprendere per quale motivo si debba giungere a una risposta così pessimistica (ma forse semplicemente realista) occorre essere in possesso di un modello delle relazioni internazionali tra gli stati. Questo modello poggia sull’intuizione, nutrita di innumerevoli evidenze empiriche, che le relazioni tra gli stati disegnino un gioco anarchico, sostanzialmente privo di regole condivise, che non siano quelle della potenza e della violenza. A questa intuizione molti oppongono l’idea che in realtà questo modello è smentito dall’esistenza delle organizzazioni internazionali, che sorgono infatti per regolare in maniera amichevole le dispute tra gli stati. Ma se io sono in conflitto con il mio vicino di casa, perché ritengo che abbia invaso la mia proprietà, posso rivolgermi a tribunali per veder riconosciuto il mio diritto. Se la decisione è a me favorevole, allora le forze dell’ordine renderanno esecutive le decisioni dell’organo giudiziario. Perché queste decisioni possono essere rese effettive? Perché esiste un ente che detiene il monopolio della coercizione in un territorio determinato. Questo ente è lo stato. Il fatto che io sia fortemente disincentivato a farmi giustizia da solo è l’effetto del riconoscimento di questo monopolio, la cui esistenza è in grado di reprimere i miei desideri di vendetta per quelli che io ritengo i torti subiti, ma che potranno essere riconosciuti tali solo dopo una decisione di un qualche organo dello stato.
A livello internazionale non esiste un ente, un superstato, che sia dotato del monopolio della coercizione. Tutti gli stati si trovano, invece, in una situazione di potenziale precarietà, che può essere momentaneamente messa in sicurezza non da una irraggiungibile stabilità strutturale delle relazioni internazionali, ma dall’acquisizione di una relativa posizione di predominio nel proprio territorio circostante di interesse, ossia nella capacità di divenire un dominatore regionale. In realtà, di dominatori regionali in questo momento e già da molto tempo, ne esiste solo uno, ossia gli Stati Uniti d’America, che è un attore dominante continentale, non avendo nessun rivale nel continente americano. In tutte le altre aree geografiche del pianeta l’equilibrio si esercita attraverso strategie di contenimento o attraverso conflitti armati. L’idea è di evitare che ci sia un egemone regionale. Le grandi potenze navali (quello che è stato l’impero britannico, gli Stati Uniti d’America) hanno svolto il ruolo di bilanciatori d’oltremare, esercitando strategie di contenimento, principalmente nel continente europeo e in Asia. Talvolta, sono state capaci di farlo a costi contenuti, protettte dal potere frenante dell’acqua, che ha impedito ai suoi avversari una proiezione nel territorio nemico.
Ora, immagina tu di essere l’unico, in un gruppo abbastanza vasto in cui i singoli membri siano costretti a continue relazioni reciproche, a possedere un coltello con il quale difendere te stesso e i tuoi amici. La difesa tua e dei tuoi alleati avviene anche attraverso la minaccia verso i tuoi avversari. Si tratta di una minaccia credibile, perché tu hai già utilizzato la tua potente tecnologia da taglio per uccidere qualche nemico e intimidirne altro. Qualcuno, però, prima o poi, comincerà a coltivare strani pensieri. Magari immaginerà, ad esempio, che lo potresti usare a scopi aggressivi, per acquisire le risorse di altri membri importanti del gruppo e non soltanto per difendere i tuoi amici. Presto o tardi, insomma, comincerà a chiedersi perché non dovrebbe possederlo anche lui quel coltello così prezioso. Ammettiamo che nel tuo gruppo il coltello costituisca la migliore tecnologia aggressivo–difensiva disponibile e non esistano tecnologie di difesa efficienti, perché il gruppo dove vivi è costituito da emofiliaci, per i quali anche una ferita poco profonda potrebbe costituire una possibilità molto concreta di morte. Potresti volere, tu l’unico proprietario, possederne allora un altro e dotarne i tuoi amici più stretti; ma anche un tuo potenziale avversario potrebbe cominciare a pensare la stessa cosa e in effetti adoperarsi lungo la stessa via, magari per acquisire la leadership di una porzione importante del vostro gruppo. Arriva il momento in cui non esiste più un unico coltello, ma un arsenale relativamente vasto di armi da taglio diviso, più o meno equamente, fra due gruppi in reciproca competizione. La tentazione di un assalto di sorpresa al gruppo rivale è, in effetti, forte, ma, poiché non esistono tecnologie di difesa dalle armi da taglio apprezzabilmente sicure per gli emofiliaci, nessuno dei due gruppi è sicuro di sterminare o disarmare permanentemente il gruppo avversario, ossia non è affatto sicuro che un attacco a sorpresa sia o risolutivo o addirittura attuabile. Un duello fra i due gruppi potrebbe avere esiti letali e costituire una minaccia alla sopravvivenza di tutti. Che cosa è razionale fare per assicurare la vostra sopravvivenza nel medio e lungo periodo? Un dilemma di questo genere è stato a lungo familiare nel secolo scorso: quando si sono confrontate nello scenario ipotetico del conflitto le tecnologie di distruzione nucleare, i problemi che vi sono legati e le riflessioni che sono sorte. Tutte questioni che non hanno mancato di appassionare esperti di strategia, teorici dei giochi e delle decisioni, consiglieri militari, studiosi di politica – talvolta con responsabilità politiche –, esperti di geopolitica, filosofi morali e della politica. La riflessione strategica sull’uso degli armamenti nucleari ha avuto il suo avvio verso gli anni Cinquanta del secolo trascorso, in conseguenza delle stragi di civili largamente dimostrative di Hiroshima e Nagasaki, e ha prodotto lavori pregevoli nel corso di più di un quarantennio, per affievolirsi successivamente, in conseguenza della dissoluzione dell’impero sovietico, che aveva messo fuori gioco – momentaneamente – uno dei due giocatori di quella partita. Presso il grande pubblico è divenuta nota con il poco rassicurante nome di equilibrio del terrore e con l’acronimo, profetico, ma fuorviante, di MAD (Mutal Assured Distruction). Rispetto al racconto dell’esempio iniziale, che conserva una sua utilità esplicativa, vi sono però variabili non di poco conto. La prima sembra essere derivata da un contesto empirico. Questo contesto ha generato quella che secondo molti rimane un assioma non bisognoso di dimostrazione. Si tratta di questo: poiché la capacità distruttiva delle armi nucleari si estende potenzialmente a tutto il genere umano, è irrazionale usarle, poiché tale uso genererebbe una escalation inarrestabile e incontrollabile. Questa certezza assiomatica, tuttavia, non è in disaccordo con un’altra convinzione, ossia che proprio a causa di un immenso potenziale distruttivo non è irrazionale minacciare l’uso degli ordigni nucleari. Sembrerebbe che nel recente conflitto russo-ucraino gli apparati militari russi stessero contemplando l’utilizzo di qualche ordigno nucleare tattico, ossia un’arma progettata per essere utilizzata nel teatro bellico, diversa da un ordigno nucleare strategico, la cui funzione teorica è soprattutto quella della deterrenza. Potrebbero esserne stati dissuasi dagli americani, non a corto ovviamente di argomenti nucleari convincenti. Ma forse, se l’episodio si è realmente verificato, potrebbe anche essere stata una mossa per testare le intenzioni degli avversari. La forza delle armi nucleari strategiche potrebbe essere quella derivata dal fatto che non si possono usare. Questo vale naturalmente in una situazione, come è quella attuale, nella quale non esiste un egemone globale, ma solo egemoni regionali. Un egemone globale probabilmente non esistera mai. Recentemente ho sentito da più parti dire che la potenza nucleare della Russia è tale che, se volesse realmente attaccare i paesi nucleari, non avrebbe nessuna difficoltà a farlo, poiché è in possesso di migliaia di testate nucleari. Il vicepresidente russo Medvedev ha più volte minacciato l’utilizzo dell’arma atomica contro paesi europei. Allora perché altri paesi europei, ossia la Francia e la Gran Bretagna non rinunciano a un’arma totalmente inutile, se l’arsenale russo è così soverchiante? Gli strateghi militari sono preda di una mente prigioniera nutrita di intenzioni paradossali? Quasi nessuno ha preso sul serio le minacce di Medvedev per una serie di motivi. È vero che la Federazione Russa possiede un enorme arsenale nucleare, ma quanto di questo è utilizzabile? Nessuno lo sa. Si stima che gli Usa spendano per la manutenzione del proprio arsenale atomico circa 50 miliardi di dollari, una cifra enorme. Ma anche se una frazione minima di quell’arsenale fosse operativa, la capacità nucleare della Federazione Russa non ne sarebbe compromessa. Infatti, tu non puoi distruggere Londra mille volte. È sufficiente possedere qualche decina di ordigni per avere una force de frappe (forza d’urto), come i francesi chiamano la propria force de dissuasion nucléaire, temibile. Le armi nucleari sono lo strumento migliore per evitare di innescare una spirale di vendetta in caso di attacco? Di questo problema se ne è occupato Herman Kahn, autore di On Thermonuclear War e di Thinking the Unthinkable, due testi molto importanti sulla strategia nucleare. Kahn è stato uno studioso che ha ispirato sia il personaggio del Dottor Stranamore nel film di Stanley Kubrick, Doctor Strangelove, sia il personaggio del Professor Groeteschele nel film di Sidney Lumet Fail Safe, entrambi girati durante la guerra fredda. Piuttosto spesso Kahn viene disegnato nella cultura popolare, della quale anche questi due film sono naturalmente espressione, come un folle guerrafondaio, ma la realtà, a chi abbia la pazienza di leggere le sue opere, è di ben altra natura. A lui si deve ad esempio il seguente esperimento di pensiero. Una bomba di grande potenza distruttiva è stata appena sganciata su New York. Cosa dovrebbe fare il POTUS (President of the United States)? La risposta comune, per lo meno all’inizio della riflessione sulla guerra nucleare era che il Presidente avrebbe dovuto lanciare immediatamente una massiccia risposta nucleare. E dopo che ha lanciato la retaliatation a seguito del first strike sovietico (o russo), cosa succederebbe? Be’, così rispondevano i suoi interlocutori, i sovietici avrebbero fatto lo stesso. E poi cosa sarebbe successo? Non sarebbe successo nulla perché tutti erano già morti. Allora perché POTUS dovrebbe lanciare una massiccia rappresaglia? Forse POTUS avrebbe dovuto esplorare altre risposte militari prima di una ritorsione immediata e totale. La deterrenza può esercitarsi in forme diverse, perché non è affatto un concetto semplice. Si può esercitare in almeno tre direzioni distinte. La prima direzione è quella di una minaccia strategica rivolta contro un attaccio massiccio al proprio paese o a una parte significativa delle sue forze o delle sue infrastrutture strategiche. In questo caso la deterrenza è la minaccia di una ritorsione importante contro l’avversario. La seconda direzione è quella dell’esercizio della deterrenza contro atti ritenuti particolarmente provocatori diversi da un attacco massiccio contro il proprio paese e diretti, ad esempio, contro un proprio alleato. Anche in questo caso, si potrebbe utlizzare la deterrenza strategica. La terza direzione è quella della lex talionis contro azioni militari o non militari di dimensioni limitate. Bisogna però aggiungere che azioni di sabotaggio informatico di infrastrutture quali rete ferroviaria, elettrica, di rifornimento dell’energia, strutture sanitarie, sistemi di controllo del traffico terrestre e aereo è difficile dire che non si tratti di azioni militari. Questo non soltanto perché potrebbero essere compiute da corpi specializzati delle forze armate di un avversario, ma anche perché nel caso di un conflitto è assolutamente problematico distinguere quali siano le strutture militari e quali non lo siano. Una strada è un’infrastruttura strategica in caso di conflitto, così come un ospedale o un centro di ricerca universitario. Bisogna anche dire che nel caso dei cosiddetti conflitti asimmetrici, dove l’attaccante possiede forze militari inferiori anche di molto a chi viene attaccato, non sempre è facile individuare il paese nemico o l’organizzazione che ha condotto l’attacco. È relativamente facile, almeno lo è stato finora, individuare attori sponsor di tali attacchi, contro i quali condurre le rappresaglie. La deterrenza svolge, quindi, la funzione di rendere un’azione non redditizia e controproducente. Cosa significhi controproducente è, naturalmente, un concetto che dipende molto dalle aspettative di coloro che conduco l’attacco e dagli effetti della rappresaglia che potrebbero dimostrarsi inutilmente costosi per l’aggredito.
La deterrenza, ossia la credibile capacità di minacciare, la capacità di operare una vendetta, proporzionata o sporporzionata che sia, è qualcosa della quale è bene dotarsi per non usarla, soprattutto dove ci si trova in una situazione di equilibrio approssimativo con il proprio avversario e nemico potenziale. Se la deterrenza è efficace si potrà allora sperare che la pace produca il disarmo, perché a quanto ne sappiamo finora dalla storia e dall’antropologia non pare essere mai il disarmo a produrre la pace.
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