ASSAPORO ANCORA LA LIBERTÀ CHE SA DI DADO E STELLINE
CAMILLA NARBONI
Avevamo appena finito una lezione di Filosofia Teoretica o qualcosa del genere, in una delle piccole aule di Piazza Botta con i soliti 15-20 studenti del nostro corso. Era ancora un mondo puro, eravamo giovani, poveri e visionari. Mi hai invitato a casa tua a cena, siamo andati al “Supersconto” come lo chiamavi tu (e quanto mi faceva ridere questo nome!) per prendere una bottiglia di vino da due soldi. Era affascinante scoprire le nostre tipicità lessicali, un modo trasversale di aprirci e comunicare, trovare affinità e differenze, costruire identità e idee. Abbiamo camminato sotto alla ferrovia per arrivare a casa tua, un appartamento che avevi in affitto, non so con chi, quel giorno eri solo. Mi ricordo i muri bianchi con un intonaco spesso e pastoso, e una seducente luce ancora chiara che arrivava da fuori, poi qualcosa di verde, forse le finestre. Abitavi in alto.
Io vagavo per il mondo con sguardo incantato e provinciale dell’Emilia bucolica, e tu mi hai sapientemente inzuppata in soluzioni lisergiche più crude e oscure, con i tuoi lunghi capelli chiari e i jeans azzurro sbiadito. Ho ricordi sfumati di quegli anni inebrianti, come se altri strati si fossero deposti sulla mia pelle rendendomi difficile penetrare fino ai giorni in cui avevamo vent’anni e la brezza nelle vene. Ma certe cose zampillano luminose e trasparenti come sorgenti in mezzo ad acque stagnanti. Ricordo perfettamente il tuo viso, i tuoi dettagli, i tuoi colori, il tuo passo, le tue scarpe, la tua voce, la tua intonazione e cantilena genovese. Sono un’osservatrice estetica, una fotografa senza macchina. Camminavamo ed eravamo buffi: io sul marciapiede e tu sulla strada, per mitigare un po’ la differenza di altezza, così abbiamo addolcito anche la differenza di altitudine (o di profondità). Con semplicità assoluta e disarmante mi hai cucinato una minestrina in brodo (brodo di dado, si intende!), forse le stelline, in una pentolina di acciaio che usavi solo per questo e che hai poi sciacquato per il giorno dopo. Com’erano belli i nostri pasti frugali e razionalisti da studenti fuori sede! Non ci importava molto, solo spendere poco e riempirci lo stomaco. Ma ci importava di parlare, parlare, parlare, come noi filosofi sappiamo fare, senza tenere chiuso nessun percorso percorribile! Orizzonti aperti. Liberi. Assaporo ancora la libertà che sa di dado e stelline. La tua cultura e conoscenza era – e senz’altro è esponenzialmente tutt’ora – più ampia e consapevole della mia, e questo mi affascinava parecchio. Quindi ti ho seguito come un passerotto incuriosito e desideroso, siamo andati in camera e ci siamo sdraiati sul letto perché tu volevi guardare Le 120 giornate di Sodoma di Pasolini. Io su Pasolini poeta e scrittore ci avevo fatto la tesina della maturità, ma mi spaventava il titolo del film. Non l’avevo mai visto. E forse non l’abbiamo visto tutto nemmeno quella volta insieme, non ricordo più. Io ero ancora una ragazza fine e la mia unica parolaccia era “Fighi!” (sinonimo del ligure “belìn”), tu ridevi come un matto di questo mio bizzarro intercalare dialettale e volevi scriverlo gigante sul muro del letto. Poi fighi, sei tornato a Genova, hai cambiato università e non ci siamo mai più rivisti.
CINEMA ENDOXA - BIMESTRALE CAMILLA NARBONI ENDOXA LUGLIO 2025 Pasolini
