LA MORTE DI PASOLINI: UNA LETTURA SCANDALOSA E IMPOPOLARE
ALESSANDRA ZIGAINA
“Se fosse un partito politico che partito sarebbe?”. La domanda faceva parte di un gioco e si riferiva, in quel momento, a mia madre, credente e praticante. Qualcuno, non ricordo chi, rispose: “Ovviamente la Democrazia Cristiana” ma Pier Paolo intervenne dicendo: “Assolutamente no, niente di più lontano. Maria sarebbe una seguace di San Paolo di Tarso”. Detta così poteva sembrare una battuta, ma non poteva esserlo vista l’aria severa con la quale fu pronunciata, quasi come se Paolo di Tarso fosse, se non un contemporaneo, qualcosa di non così lontano nel tempo.
Io ero ancora bambina ma quell’intervento mi colpì molto anche se allora non lo compresi del tutto. Pasolini mi ricordava mio nonno per le guance scavate e per una specie di tormento interiore che mi sembrava di intuire. Quando gli chiedevi “Come stai?”, ad esempio, non ti rispondeva mai “bene” ma “lavoro tanto”.
Lui e mio padre (il pittore Giuseppe Zigaina) si erano conosciuti da ragazzi, in Friuli, all’inaugurazione di una sua mostra. Pasolini si interessava di arti figurative (era un allievo di Longhi), disegnava e scriveva per alcuni giornali. Prima di incontrarsi avevano già sentito parlare uno dell’altro. Da quel momento non hanno condiviso solo la passione per l’arte ma anche quella per la politica descritta, come solo un poeta può fare, nel poemetto Quadri friulani (Le ceneri di Gramsci) dedicato a mio padre. Una passione sconvolta dai tragici fatti di Ramuscello, quando il Pci espulse Pasolini dal partito per indegnità morale dopo essere stato accusato di corruzione di minorenni e atti osceni in luogo pubblico. Quando accadde, la prima persona che Pasolini chiamò fu mio padre che a Casarsa vide la disperazione della madre e fu testimone della loro decisione di lasciare il Friuli per Roma. Quella partenza non interruppe il loro rapporto. Si vedevano a Roma dove mio padre andava periodicamente per lavoro e si incontravano a casa nostra, a Cervignano, dove lo vidi l’ultima volta l’anno stesso della morte.
Il loro fu un rapporto certamente di collaborazione (mio padre illustrò un suo libro, era la mano che dipingeva nel film Teorema o il frate santo che confessa Ciappelletto nel Il Decameron, lavorarono insieme a un festival del cinema che ebbe a Grado tre edizioni) ma sicuramente fu un rapporto di amicizia. “Zigaina – scrisse Pasolini – è ontologico per me come io, credo, di essere per lui”. Una conoscenza reciproca profonda che sicuramente prescindeva dalle parole. Pasolini fu l’unico a mettere in luce un aspetto fondamentale di mio padre affermando di non conoscere nessuno che vive come lui (una vita ordinata e tranquilla) e che dipinge come lui, quadri dai contenuti così forti da definire il suo studio “un piccolo campo di concentramento”.
La scomparsa di Pasolini fu per lui un trauma. Io avevo dodici anni ma ricordo esattamente quello che accadde a casa mia quando arrivò la notizia. Vidi mio padre piangere per la prima e ultima volta e lo vidi partire subito per Roma. Ricordo il giorno del funerale a Casarsa e il pranzo a casa mia con alcune delle persone più vicine a Pierpaolo arrivate in Friuli da Roma insieme alla mamma Susanna che a momenti pareva non avere realizzato la morte del figlio.
Fu forse per superare quel trauma che mio padre incominciò presto a leggere o a rileggere non solo quello che Pasolini aveva scritto ma anche quello che Pasolini leggeva, oltre a raccogliere e a esaminare per primo i suoi disegni. All’inizio – e lo ricordo bene – anche mio padre sostenne che Pierpaolo fosse stato ucciso perché troppo scomodo ma, dopo lunghi mesi di ricerche, cominciò a pensarla diversamente elaborando una teoria scandalosa: Pasolini avrebbe organizzato la sua morte violenta come una sorta di rito sacrificale che potesse fungere da montaggio della sua intera esistenza collocandola (come in effetti è accaduto) nel mito. Una morte rituale, momento culminante di una precisa strategia espressiva, annunciata nei sui testi.
La prima volta che mio padre ne parlò fu nel 1984 in una conferenza all’Università di Berkeley, negli stati Uniti. Nel 1987 uscì il primo libro Pasolini e la morte. Mito alchimia e semantica del “nulla lucente” seguito da altri volumi via via più ricchi di argomentazioni che, a mio parere, anziché rafforzare il suo pensiero lo hanno indebolito. Ma non è questo il punto.
Personalmente ritengo che i suoi sette volumi sull’argomento pubblicati da Marsilio rappresentino le ultime opere d’arte di mio padre, sempre se mi è consentito accostare un testo a un quadro e se mi si concede di vedere nel suo lavoro un filo che percorre tutto, dalla prima sua mostra a Trieste con quel girasole abbandonato in un campo vicino a dei rifiuti, fino all’interpretazione di quella morte nel campetto di calcio di Ostia.
Detto questo, mio padre era un uomo brillante che univa un grande senso pratico a una notevole dose di razionalità. Ma, oltre a conoscere molto bene Pasolini, era un artista e gli artisti a volte “fotografano” inconsciamente la realtà. Un’istantanea, la sua, che per svilupparsi ha avuto bisogno di un lungo lavoro di analisi dei testi.
Non so se mio padre avesse ragione. Non lo posso sapere perché io non ho letto di Pasolini nemmeno una piccolissima parte di quello che ha letto lui, come non ho letto le montagne di libri che si trovano ancora nel suo studio e che sono connesse a questa ricerca: Jung, Freud, Frazer, Eliade, Propp, Ernesto De Martino…
Francamente trovo, tutto sommato, non così importante che la sua lettura sia o meno quella corretta. Quello che mi sono spesso chiesta è, invece, come mai sia stata volutamente omessa per molto tempo dalla maggior parte di quanti hanno scritto o parlato della morte del poeta, mentre è stata accolta con grande interesse da figure che non appartengono al mondo della critica letteraria. Per citare solo alcune di queste, il regista romano Leonardo Ferrari Carissimi che sul tema ha girato un film, gli psicoanalisti Alessandro Guidi e Pierluigi Sassetti che sulla teoria di mio padre hanno scritto un libro, il pittore e scrittore calabrese Ilario Quirino autore di diversi volumi che sviluppano le ipotesi di mio padre.
Nel contempo accadono anche cose come questa: nella puntata di Una giornata particolare dedicata da Aldo Cazzullo alla morte di Pasolini, il giornalista, dopo avere ricostruito tutto quello che sappiamo su questa storia conclude dicendo: “e poi ci sarebbe anche una fantasiosa ipotesi secondo la quale Pasolini avrebbe organizzato la sua morte”. Tutto questo senza neanche citare il nome dell’autore di questa tesi, quasi si trattasse di un mitomane qualsiasi e non di un intellettuale amico di Pasolini che sul tema ha scritto sette libri.
Perché queste omissioni? Perché si usa la parola PROFEZIA di fronte ad alcuni scritti di Pasolini che sembrano annunciare la sua fine come se il poeta avesse avuto doti divinatorie, ma si esclude a priori che lo stesso possa avere organizzato la sua morte lasciando tracce del progetto nelle sue opere?
Credo che non ci sia una sola risposta a queste domande. La prima osservazione riguarda la politica. La teoria di mio padre ha trovato ampio spazio sui giornali di centro destra ma gli intellettuali, i giornalisti, gli operatori culturali di sinistra l’hanno spesso ignorata. Come se le idee di Pasolini, la sua opera, il suo messaggio venissero depotenziati, sviliti, o inquinati da una morte che non è avvenuta per mano dei fascisti o dei cosiddetti poteri forti.
Altrettanto si può dire dell’accoglienza “accademica” con alcune eccezioni come quelle di Stefano Agosti e Cesare De Michelis dell’Università di Venezia (entrambi purtroppo scomparsi) o Miguel Angel Cuevas dell’Università di Siviglia. A questo proposito, la mia seconda osservazione riguarda il merito. Il lavoro di mio padre si basa sull’analisi dei testi, allora perché la sua teoria non viene contestata poesie o scritti alla mano? Facciamo un esempio: lui dà una spiegazione al perché l’ottavo capitolo di “Una disperata vitalità”, nella raccolta “Poesia in forma di rosa” (Garzanti), viene impaginato al centro come un’epigrafe e ne analizza il testo leggendolo come un annuncio di morte. Perché non viene data una spiegazione alternativa a questa bizzarra scelta tipografica? O, ancora, perché quando mio padre dà la sua interpretazione dell’uso delle parentesi nella poesia Patmos (dove si fa l’appello ai morti di piazza Fontana) qualcuno non contesta la sua lettura che tuttavia sembra rendere chiare scelte altrimenti incomprensibili e che non possono certo essere casuali? Perché quando afferma che la parola treni (tradotta in altre lingue con la parola che si usa per i mezzi di trasporto) va intesa come lamenti funebri (dal greco) non viene smentito?
Perché, insomma, non viene contestato nel merito? Forse perché non gli viene perdonato di avere osato sconfinare nel campo della critica letteraria essendo lui un pittore? O perché per controbatterlo sarebbe necessario avere letto e riletto tutto ciò ha letto lui negli ultimi 30 anni della sua vita?
Non entro nel merito di quanti invece obiettano che Pasolini non poteva farsi ammazzare o cercare la morte perché amava la vita, perché quel giorno era allegro o perché adorava il calcio: tutte cose che in questi anni si sono sentite dire. Mentre comprendo che questa lettura non sia stata accettata da chi era legato a lui da un affetto profondo come Ninetto Davoli o come la cugina Graziella Chiarcossi.
Ritengo, tuttavia, che a prescindere dalle conclusioni alle quali arriva, il lavoro di mio padre abbia messo in luce degli aspetti di Pasolini per molto tempo trascurati dai più e che hanno a che fare, tra le altre cose, con una passione che i due condividevano fin da ragazzi, proprio al tempo della loro iscrizione al Partito Comunista: l’interesse per la storia delle religioni e per la mitologia.
Quando mio padre era vivo non l’ho seguito su questa strada: ero presa dalla mia vita e dal mio lavoro e poi lui aveva un modo così assertivo di parlare della sua teoria sulla morte di Pasolini che, per ovvie dinamiche padre/figlia, mi infastidiva. Quando è morto, però, sono andata a trovare l’editore Cesare De Michelis alla Marsilio. Gli ho chiesto che cosa potessi fare perché il lavoro di mio padre su Pasolini fosse valorizzato come merita. Lui mi ha risposto “Niente, perché tuo padre aveva ragione e prima o poi questa cosa sarà chiara a tutti”.
Io non credo. Se in 50 anni non si è capito che cosa è successo non lo scopriremo certo nei prossimi 50 ma credo, invece, che sia venuto il momento di considerare tutte le ipotesi in campo anche quelle più scandalose e impopolari come scandalosa e impopolare è stata la vita del poeta.
ENDOXA - BIMESTRALE LETTERATURA ALESSANDRA ZIGAINA ENDOXA LUGLIO 2025 Pasolini

In quegli anni che tu eri piccola anch’io abitavo a Cervignano, e ricordo a Grado il fermento per le riprese di Medea con la Callas…quando morì ero ormai a Milano , giovane di sinistra, e rimasi molto colpita dalla morte di Pasolini, non conoscevo né conosco bene i suoi scritti,ma ti dirò che così, a sentimento, la tesi di tuo padre mi pare più che plausibile, ma troppo complicata per la massa e per la strumentalizzazione politica che se ne fa adesso., come giustamente rilievi. E Bravo papà..una intelligente e documentata analisi,peccato molto misconosciuta, fai bene a tentare di diffonderla, nel mio piccolo condividerò il tuo articolo.
"Mi piace""Mi piace"