LE APODISSI DI UN REAZIONARIO

PIER MARRONE

Non mi occuperò della produzione letteraria, teatrale, cinematografica di Pier Paolo Pasolini. Non intendo affatto discutere i suoi meriti artistici che sono rilevanti e meritano di essere conosciuti e, per quanto riguarda il patrimonio delle idee che in questa produzione è contenuto, diffusi e discussi. Mi concentrerò essenzialmente su una sua celebre raccolta di interventi civili, gli Scritti corsari, con qualche incursione nelle altrettanto significative Lettere luterane, perché contengono quanto di più vicino nella sua produzione alle mie competenze e ai miei interessi e perché sono testi che hanno avuto grande fortuna nella costruzione dell’immagine di PPP come intellettuale controcorrente, coraggioso, capace di analisi spiazzanti, raffinate e in grado di aprire inedite prospettive alla riflessione. Si tratta anche di raccolte di scritti che hanno avuto una certa fortuna non solo nella cultura di sinistra, alla quale indubbiamente PPP apparteneva, almeno come sentimento soggettivo (però anche per riconoscimento quasi unanime), ma anche negli ambienti di destra, a partire almeno dalla fine degli anni Ottanta. Antecedentemente, questa rivalutazione non era stata possibile sia perché lo stigma sull’omosessualità di PPP lo impediva sia perché PPP veniva percepito come parte della cultura del sistema, alla quale soprattutto i militanti più giovani dell’estrema destra intendevano opporsi. Il recupero di PPP da parte della cultura di destra non avveniva tanto e unicamente per la sua poetica che cantava le periferie urbane degradate (dove pure il sottoproletariato non si dimostrò certo insensibile ai richiami delle destre estreme) quanto perché pensava di averne individuato le cause.

Furio Jesi, prima della sua tragica e prematura scomparsa, ebbe modo di riflettere a più riprese sulla persistenza del mito e sulle sue connessioni con la cultura di destra. Anzi: a Jesi si deve una definizione di che cosa sia una cultura di destra. L’icastica definizione che offre Jesi è che si tratti di “idee senza parole”. Con questa espressione Jesi intendeva un utilizzo culturale del passato inteso come insieme di categorie metastoriche, tendenzialmente immuni da processi evolutivi, che qualora ci fossero stati, andrebbero rubricati sotto il segno della corruzione. Tuttavia, perché queste idee dovrebbero essere senza parole? L’espressione è palesemente polemica e individua un’assenza di argomentazione nell’assunzione di idee come Tradizione, Occidente, Patria, Nazione, Onore, Coraggio, Virilità e via elencando, sempre però utilizzando le maiuscole, a suggerire appunto qualcosa che non cambia. Un utilizzo, si potrebbe dire, di categorie culturali trasformate in ipostasi e in oggetti immuni dal corso del tempo.

È un utilizzo categoriale che deve molto alla storia delle religioni, poiché la storia delle religioni, ancorché sia appunto storia, deve pur sempre fare i conti con un’esperienza indubbiamente autentica, che ha i suoi riferimenti (i miti di origine, le storie degli dei, dei semidei, degli eroi) in un tempo fuori del tempo (in illo tempore, secondo l’espressione resa celebre da Mircea Eliade, uno dei più importanti storici delle religioni della contemporaneità, che PPP ben conosceva). Non si tratta, dunque, di idee senza parole, bensì di idee che vorrebbero muoversi in un ambito sottratto al divenire e alla storia.

Si tratta, tuttavia, esclusivamente di un difetto della cultura di destra nelle sue frange più estreme e esoteriche? Penso di no. Forse anche l’esaltazione del proletariato come classe progressiva e l’esaltazione dell’ineluttabilità delle leggi della storia, così come l’idea di rivoluzione permanente o di assalto al quartier generale avevano caratteristiche simili, almeno nel senso di sovvertire l’argomentazione trasformandola in parola d’ordine, slogan, graffito, murales, martellante ripetizione propagandistica.

Così non mi stupisco che la Cuba castrista abbia suscitato simpatie in alcuni miei amici di destra che la visitarono. In fondo gli slogan che si leggono ancora sui muri de La Habana, slogan come “patria o muerte”, “siempre joven siempre rebelde” alludono a qualcosa che è ben presente nell’estremismo di destra, ossia il culto della morte e il culto della gioventù, assieme a quello della “bella morte” incontrata nella giovinezza. Quello che forse differenzia le idee senza parole della destra estrema dalle idee senza parole della sinistra estrema è la presenza di una nostalgia per un passato che nella sinistra estrema non ci può ovviamente essere. Questi sono alcuni dei motivi per i quali ritengo che PPP sia stato un intellettuale reazionario. È certo che non sia una categoria adatta a inquadrare tutta l’opera di PPP, se non altro perché un’opera artistica, se riuscita, trascende le categorie politiche, ma come dicevo la dimensione che mi interessa è quella dell’intellettuale che interviene pubblicamente, cosa che PPP fece costantemente.

Devo dire che ci sono dei tratti generali di molti degli interventi di PPP che me li rendono sconcertanti, come, ad esempio, la preminenza dell’impressione sull’analisi; una superficiale distinzione tra cultura e sottocultura; la mancanza di riscontri empirici alle sue affermazioni. PPP molto spesso e quasi sempre ha una tesi da dimostrare, non un fenomeno da comprendere. Così anche tutta le sue filippiche contro il consumismo e la mutazione antropologica degli italiani si nutre di un passato che è esistito, forse, solo nella sua mente e nelle sue passioni, che temeva di non riuscire a soddisfare in un mondo indirizzato verso stili di consumo differenti rispetto a quelli che lui poteva offrire. Ecco allora le invettive indirizzate contro i giovani delle società occidentali. In primo luogo, queste invettive si rivolgono verso quelli che all’epoca venivano chiamati “capelloni”, che PPP vide per la prima volta a Praga. Due ragazzi english speaking, che a suo dire hanno fatto a meno del linguaggio verbale per comunicare (ma forse solo perché non padroneggiavano il ceco; e PPP parlava un inglese fluente?), rinunciando anche alla ricchezza di una lingua, che veicola una cultura (anche se non mancano censure frequenti verso quanto quella cultura english speaking produce, in particolare la sociologia, un prodotto americano secondo PPP), per concentrarsi su un unico segno, la lunghezza dei capelli nella quale si sarebbero concentrati “tutti i possibili segni di un linguaggio articolato”. Non solo PPP lo sa, ma sa anche il contenuto preciso di questo segno, estremamente povero eppure complesso. I capelloni a Praga, che loro ritengono la periferia del mondo, intendono esercitare un apostolato, per mezzo della stessa Apparizione (in maiuscolo, quasi fosse un’epifania religiosa) dei loro capelli. E quanto appare è niente meno che un’ontologia alla quale non c’è nulla da aggiungere, una Novità che preannuncia Eventi epocali, sempre con un funereo utilizzo delle maiuscole. Conclude da vero guru intellettuale PPP: “Io fui destinatario di questa comunicazione e fui anche in grado di decifrarla”. Forse, però, i giovani english speaking nemmeno si erano accorti di lui.

La cosa sorprendente non è tanto la supponenza di PPP, che si autocertifica, in quanto intellettuale, dotato di capacità diagnostiche di altrimenti insondabili fenomeni sociali, quanto il fatto che nessuna voce, a mia conoscenza, si sia levata per chiedergli: “scusa tanto, ma tu com’è che sai tutte queste cose?”.  L’indulgenza sufficiente di PPP guarda a questi ragazzotti come a dei rivoluzionari da operetta da osservare con sospetto, soprattutto perché la loro è una sottocultura di protesta opposta, ma in fondo solidale, a una sottocultura di potere. Magari osano sognare una rivoluzione non marxista. “Il linguaggio di quei capelli, anche se ineffabile, esprimeva ‘cose’ di Sinistra. Magari della Nuova Sinistra, nata dentro l’universo borghese (in una dialettica creata forse artificialmente) da quella Mente che regola, al di fuori della coscienza dei Poteri particolari e storici, il destino della Borghesia”, glossa PPP, abbondando nuovamente in rassicuranti maiuscole. Questa capacità corruttiva è una malattia planetaria: “Sull’Isfahan di una diecina di anni fa – una delle più belle città del mondo, se non chissà, la più bella – è nata una Isfahan nuova, moderna e bruttissima. Ma per le sue strade, al lavoro, o a passeggio, verso sera, si vedono i ragazzi che si vedevano in Italia una diecina di anni fa: figli dignitosi e umili, con le loro belle nuche, le loro belle facce limpide sotto i fieri ciuffi innocenti. Ed ecco che una sera, camminando per la strada principale, vidi, tra tutti quei ragazzi antichi, bellissimi e pieni dell’antica dignità umana, due esseri mostruosi: non erano proprio dei capelloni, ma i loro capelli erano tagliati all’europea, lunghi di dietro, corti sulla fronte, resi stopposi dal tiraggio, appiccicati artificialmente intorno al viso con due laidi ciuffetti sopra le orecchie.”

Forse, maggiormente sincero è PPP nel suo disprezzo per i giovani in un agghiacciante passo delle Lettere luterane: “I figli che ci circondano, specialmente i più giovani, gli adolescenti, sono quasi tutti dei mostri. Il loro aspetto fisico è quasi terrorizzante, e quando non terrorizzante, è fastidiosamente infelice. Orribili pelami, capigliature caricaturali, carnagioni pallide, occhi spenti. Sono maschere di qualche iniziazione barbarica, squallidamente barbarica. Oppure, sono maschere di una integrazione diligente e incosciente, che non fa pietà”. Certo, non mancano picchi di cultura e informazione nemmeno tra questi mostri, ma sono cultura e informazione delle quali questi poveracci non sanno cosa farsene, rinchiusi dentro la loro infelicità. Ora, come sa PPP che questi giovinastri sono infelici ora e destinati all’infelicità in futuro? Ha fatto qualche indagine con i mezzi della disprezzata sociologia, una scienza borghese? Per PPP etichettati come mostri hanno il destino già segnato, ma ciò che in realtà è segnato dopo decenni dalla pubblicazione di queste considerazioni è solo l’effetto comico di un signore maturo che non perde occasione per lamentarsi di un mondo nel quale non si riconosce più (e questo naturalmente è legittimo) soprattutto perché questo mondo non riconosce a lui e al suo autocertificato ruolo di intellettuale dissidente una qualche autorità.

Le critiche di PPP muovono al sorriso (tuttavia, almeno in me, non certo all’indulgenza per la sua insopportabile supponenza), ma devono, nello stesso tempo, essere prese in qualche loro aspetto, invece, seriamente. E, allora, io credo occorrerà chiedersi per quale motivo PPP si sentiva fuori posto nella società nella quale viveva, la quale non gli lesinò certo riconoscimenti artistici, ruolo sociale, benessere economico. Se uno si sente fuori posto, è immaginabile che dentro di sé alberghi un’idea di un altro luogo, dove invece fuori posto non si sentirebbe, probabilmente perché si sentirebbe maggiormente prossimo a quanto chiamerebbe casa (o patria o nazione o appartenenza culturale).

Questo luogo per PPP esiste e si chiama società contadina. È una società destinata a scomparire almeno nell’Occidente orrendamente corrotto dal consumismo, ma che ha ancora importanti sopravvivenze nelle periferie urbane. Le periferie urbane, infatti, sono per PPP contadine nei propri valori, che si trasmettono dai padri ai figli. “I figli hanno assicurata un’esistenza simile a quella dei padri. Essi sono anzi destinati a ripetere e reincarnare i padri. La rivoluzione ha la pigrizia del sole che splende sui prati spelacchiati, sulle baracche, sui palazzoni scrostati. Tutto ciò non ferisce il passato, non lacera i suoi valori e i suoi modelli. L’urbanesimo è ancora contadino. Il mondo operaio è fisicamente contadino: e la sua tradizione antropologica recente non è trasgressiva. Il paesaggio può contenere questa nuova forma di vita (bidonville, casupole, palazzoni) perché il suo spirito è identico a quello dei villaggi, dei casolari. E, appunto, la rivoluzione operaia ha questo ‘spirito’”.

La pigrizia del sole che splende sui prati preserva i valori del passato. Quali siano poi questi valori non si comprende bene. Apprendiamo però che si stava meglio quando si stava peggio, ossia durante il regime fascista, che detto da un compagno di strada del partito comunista è un gran bel dire. “Nessun centralismo fascista è riuscito a fare ciò che ha fatto il centralismo della civiltà dei consumi. Il fascismo proponeva un modello, reazionario e monumentale, che però restava lettera morta. Le varie culture particolari (contadine, sottoproletarie, operaie) continuavano imperturbabili a uniformarsi ai loro antichi modelli: la repressione si limitava ad ottenere la loro adesione a parole. Oggi, al contrario, l’adesione ai modelli imposti dal Centro, è totale e incondizionata. I modelli culturali reali sono rinnegati. L’abiura è compiuta.”

Il Centro deve essere stato nella mente di PPP una specie di Spectre, capace di condizionare culture, sottoculture, in grado di portare alla dissoluzione genocidaria popolazioni incontaminate, felici della loro povertà (quella sì, e non in senso figurato, monumentale). Al consumismo che consuma la famiglia, che spezza l’alleanza oggettiva tra Chiesa cattolica e mondo contadino PPP oppone la sua personale nostalgia delle origini (come recita un titolo di un bel libro dello storico delle religioni Mircea Eliade), quella di un mondo contadino metastorico. “L’universo contadino (cui appartengono le culture sottoproletarie urbane, e, appunto fino a pochi anni fa, quelle delle minoranze operaie – ché erano vere e proprie minoranze, come in Russia nel ‘17) è un universo transnazionale: che addirittura non riconosce le nazioni. Esso è l’avanzo di una civiltà precedente (o di un cumulo di civiltà precedenti tutte molto analoghe fra loro).” C’è da dubitare che questa analogia valga per tutto il mondo, e non sia invece il risultato di un pregiudizio eurocentrico di PPP.

Ma che cosa c’era di così buono nella civiltà contadina? Innanzitutto la povertà, che preservava i contadini da desideri eccessivi e corruttori. “È questo illimitato mondo contadino prenazionale e preindustriale, sopravvissuto fino a solo pochi anni fa, che io rimpiango (non per nulla dimoro il più a lungo possibile, nei paesi del Terzo Mondo, dove esso sopravvive ancora, benché il Terzo Mondo stia anch’esso entrando nell’orbita del cosiddetto Sviluppo). Gli uomini di questo universo non vivevano un’età dell’oro, come non erano coinvolti, se non formalmente con l’Italietta. Essi vivevano quella che Chilanti ha chiamato l’età del pane. Erano cioè consumatori di beni estremamente necessari. Ed era questo, forse, che rendeva estremamente necessaria la loro povera e precaria vita. Mentre è chiaro che i beni superflui rendono superflua la vita (tanto per essere estremamente elementari, e concludere con questo argomento).” Come diceva Nietzsche, i semidei sono sempre vissuti nel passato e l’epoca presente è sempre quella degenerata che sospira al cadere delle foglie in autunno.

La povertà rende la vita necessaria, il superfluo rende la vita superflua. Ma che cosa si può definire superfluo? Quanto non è necessario alla riproduzione sociale, direi. Si dà però il caso che non esiste un’unica riproduzione sociale, ma molte, indeterminate addirittura, perché noi ci ibridiamo con la tecnica, ossia con quanto produce potenzialità e beni che prima del nostro incontro con la tecnica, si tratti della punta di pietra per scheggiare una selce, dell’aratro, della penna Bic, o del telefono cellulare, non esisteva, mentre il fine di questa interazione è stato sempre identico: potenziare le nostre povere capacità fisiche attraverso la nostra enorme capacità immaginativa.

Il benessere è perciò per PPP corruzione, come si può percepire semplicemente camminando in una città qualsiasi dell’Occidente capitalistico. L’uniformità della folla è una uniformità nella tristezza e nell’infelicità. Però PPP non era così disonesto da dire che dall’altra parte della cortina di ferro ci fosse la varietà di un abito di Arlecchino. Anche lì la folla è sorprendentemente uniforme, ma è l’uniformità generata dall’eguaglianza sociale, e quindi genera esaltazione e allegria: “il fatto che il popolo abbia vinto nel ‘17, una volta per sempre, la lotta di classe e abbia raggiunto l’uguaglianza dei cittadini, è qualcosa che dà un profondo, esaltante sentimento di allegria e di fiducia negli uomini. Il popolo si è infatti conquistato la libertà suprema: nessuno gliel’ha regalata. Se l’è conquistata.”.

Penso sia fondamentalmente vero che in quei paesi dell’universo comunista si fosse raggiunta una sostanziale eguaglianza, una eguaglianza nella miseria, una parità per la maggior parte della popolazione nella schiavitù. PPP è troppo superficiale e ferocemente ideologico per comprendere una semplice verità: che per distribuire la ricchezza prima devi produrla. Ma a lui il benessere sociale in definitiva non interessava, quel benessere relativo che permette di possedere più di un cappotto per l’inverno, di possedere un mezzo di trasporto (be’, lui la sua Alfa Romeo GT 2000, un auto lussuosa, per la ricerca di efebi amanti a buon mercato nelle sue scorribande nelle periferie romane già la possedeva e questo è quanto contava), di avere accesso a cure dentistiche e magari estetiche, di poter viaggiare, di conoscere altri mondi al di fuori dell’Italietta della quale lui era un occulto rappresentante. PPP non era un intellettuale in difesa dell’umano, come recentemente lo si è definito. Era piuttosto un reazionario che odiava qualsiasi progresso che sottraesse l’umano al regno del bisogno, proiettandolo verso un futuro con meno sofferenze materiali, dove i suoi sogni pauperistici non sarebbero stati più ascoltati da nessuno, all’infuori di qualche ipocrita pauperista come lui, che certamente non sarebbe disposto a rinunciare ai suoi viaggi, ai suoi vestiti, alle cene nei ristoranti, dedicandosi invece a un faticoso autoconsumo.

ENDOXA - BIMESTRALE FILOSOFIA

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