IL TERZO GIORNO: IL RITORNO DEGLI ANIMALI NELL’ERA DELL’ONNIPOTENZA BIOTECNOLOGICA
MATTIA POZZEBON
Quando si discute o si riflette sul rapporto di coesistenza – o, se si preferisce, di conflittualità – tra esseri umani e animali, è soprattutto il potere di morte esercitato dai primi sui secondi a costituire oggetto di dibattito e a suscitare, a ragione o a torto, le critiche più accese e le discussioni più radicali. Limitarsi a considerare soltanto la dimensione dell’annientamento, tuttavia, rischia di offrire una visione parziale del potere di controllo che gli esseri umani esercitano sulla vita animale. Non andrebbe infatti trascurato l’enorme potere di vita di cui dispongono: accanto alla capacità di togliere la vita, l’essere umano possiede anche il potere di generarla. L’esercizio di questo potere è antico quasi quanto quello di morte e risale alle prime forme di domesticazione. Nel momento in cui gli esseri umani hanno iniziato ad allevare gli animali, hanno progressivamente sottratto al processo riproduttivo il suo carattere naturale. Sono intervenuti in esso in maniera sempre più pervasiva, accentuandone così la dimensione artificiale, dalle prime strategie di allevamento selettivo fino alle più avanzate metodologie di riproduzione assistita.
Si può anzi sostenere che l’era delle biotecnologie applicate agli animali abbia avuto inizio con la prima interazione di questi ultimi con gli esseri umani, perlomeno se assumiamo una definizione ampia di “biotecnologie”. È tuttavia innegabile che, al giorno d’oggi, i continui progressi tecnologici – dalla clonazione alle nuove tecniche di editing genetico come la CRISPR-Cas9 – stiano trasformando radicalmente il modo in cui l’essere umano domina e plasma la vita animale. Queste innovazioni hanno ampliato enormemente gli orizzonti di intervento, con implicazioni di vasta portata. Il potere umano si avvia in maniera sempre più rapida verso l’onnipotenza, spingendolo una volta ancora a sfidare i limiti del reale e a rendere tale ciò che fino a ieri era appannaggio della fantascienza: la resurrezione animale. Mai prima d’ora, il potere umano sulla vita animale era apparso così totale.
Tre casi risultano, in tal senso, particolarmente emblematici. Il primo scenario è legato al concetto di “de-estinzione”, ovvero la possibilità di ricreare esemplari di animali appartenenti a specie scomparse da secoli, se non da millenni. Se pensaste che un simile progetto appartenga ancora al regno delle idee e dei sogni, e che non abbia trovato alcuna applicazione pratica, sareste parecchio in errore. Colossal Biosciences, infatti, un’azienda statunitense che ha come core business proprio la de-estinzione animale, è già riuscita nell’impresa, seppur con le doverose precisazioni. Tra l’ottobre 2024 e il gennaio 2025, infatti, sono nati tre esemplari di dire wolf (enocione o Aenocyon dirus), una specie estinta da oltre 10000 anni. Chi volesse farsi un’idea di cosa sia un dire wolf può, con i dovuti distinguo, pensare ai metalupi presenti nella saga letteraria e televisiva Game of Thrones. Il rimando alla saga non è casuale, dato che l’esemplare femmina porta il nome di una delle protagoniste, Khaleesi, mentre i due maschi sono stati invece chiamati Romulus e Remus.
Colossal è dunque davvero riuscita a compiere questo miracolo biotecnologico? In realtà non esattamente, ed è proprio da qui che nasce la necessità di parlare di “doverose precisazioni”. Quando Colossal ha annunciato al mondo la sua impresa, si sono alzate numerose critiche rivolte alle modalità dell’annuncio stesso. Non sarebbe infatti corretto parlare di animale “de-estinto”, poiché, geneticamente, i tre esemplari creati risultano più simili al tradizionale e tutt’ora esistente lupo grigio che non al vero dire wolf. Può essere forse utile capire, in maniera semplice, come si è svolto l’intero processo. A partire dalla sequenziazione del DNA del dire wolf, ricavato da alcuni reperti fossili ossei, gli scienziati hanno modificato 20 tratti genetici del lupo grigio sulla base delle informazioni ottenute. In questo caso, è stata impiegata la già citata tecnica CRISPR-Cas9. La tecnica CRISPR consente di modificare in modo mirato geni specifici, senza alterare il resto della sequenza genomica. Questo processo si basa sull’azione combinata di particolari enzimi detti Cas. Tra questi, il più importante è Cas9, che agisce come una forbice molecolare, tagliando con precisione il segmento desiderato del DNA. Il secondo elemento fondamentale è una proteina RNA, una breve sequenza di RNA che indirizza l’enzima verso i geni specifici da modificare. In questo modo, è dunque possibile ottenere delle cellule geneticamente modificate. Attraverso la tecnica Somatic Cell Nuclear Transfer, comunemente chiamata clonazione, i nuclei di queste cellule vengono trapiantati in ovociti denucleati, ossia privati del proprio nucleo, ottenendo così in laboratorio degli embrioni clonati. Questi embrioni vengono infine impiantati in madri surrogate che, nel caso dei tre dire wolves, erano esemplari di cane domestico in grado di portare avanti questa particolare gravidanza. Il punto critico e fondamentale è che non è stato utilizzato materiale genetico proveniente dall’antico enocione. A partire dalle informazioni ottenute tramite la sequenziazione, gli scienziati hanno modificato specifici tratti genetici legati a caratteristiche fenotipiche, cioè visibili, come le dimensioni o il mantello, che differenziano il lupo grigio dall’enocione. In poche parole, il risultato non è stato quello di riportare in vita l’antico dire wolf, bensì di creare un esemplare di lupo grigio geneticamente modificato con tratti fenotipici simili all’antico lupo.
Oltre al dire wolf, Colossal ha annunciato di essere ormai vicina a riportare in vita anche il dodo, mentre il sogno – senz’altro uno dei progetti più celebri, non solo di Colossal ma dell’intero campo degli studi sulla de-estinzione – rimane la resurrezione biologica del mammut lanoso. È possibile che la distanza tra ciò che si pensava avesse realizzato Colossal – riportare in vita una specie estinta da millenni – e l’effettivo risultato – creare esemplari geneticamente modificati di una specie ancora esistente – abbia suscitato dubbi su quella che inizialmente era stata definita “onnipotenza”. Tuttavia, anche tralasciando per un momento l’enorme portata di quello che comunque è stato il risultato effettivo – animali portatori di 20 tratti genetici modificati – l’“onnipotenza” non risiede unicamente negli attuali poteri divini di far risorgere una specie estinta, ma anche nella volontà dell’essere umano di avvicinarsi a questo obiettivo e, un giorno, riuscirci, investendo milioni di dollari, aprendo nuove strade al progresso scientifico e impiegando come cavie tanti animali quanti ne richiede la sua hybris.
Il secondo caso riguarda una specie animale non ancora propriamente estinta: il rinoceronte bianco settentrionale. Non si può parlare in realtà di estinzione completa perché, se per estinzione si intende la totale scomparsa di ogni esemplare, in questo caso ne sopravvivono infatti ancora due. Tuttavia, si tratta di due sole femmine, la madre Najin e la figlia Fatu, entrambe incapaci di portare a termine una gravidanza naturale. Per questo motivo, si può a tutti gli effetti considerare la specie funzionalmente estinta. Anche in questo caso, l’essere umano è intervenuto nel tentativo di salvare in extremis una specie altrimenti destinata a scomparire dal palcoscenico della storia. Il progetto di salvataggio è portato avanti da BioRescue, un consorzio internazionale di enti di ricerca. In questo caso, non è stata utilizzata l’ingegneria genetica, bensì avanzate tecniche di riproduzione assistita, come l’Ovum Pick-Up (OPU) e la fecondazione in vitro (IVF). In particolare, l’innovazione introdotta dall’OPU consiste nella possibilità di aspirare ovociti immaturi direttamente dalle ovaie della donatrice, in questo caso Najin e Fatu, senza alcun trattamento ormonale preventivo, evitando così di alterarne la fisiologia. Gli ovociti vengono poi selezionati e fatti maturare in laboratorio. Una volta maturi, vengono fecondati in vitro con il seme del donatore maschio: in questo caso, si tratta di materiale seminale crioconservato proveniente da esemplari di rinoceronti maschi ormai scomparsi. Infine, quando l’embrione ottenuto risulta idoneo, viene impiantato nell’utero di una ricevente. Proprio come nel caso del dire wolf, anche per il rinoceronte bianco settentrionale gli scienziati hanno dovuto ricorrere a un’altra specie per portare a termine la gravidanza, impiegando alcuni esemplari di rinoceronte bianco meridionale. Nonostante dal 2019 a oggi siano stati prodotti 39 embrioni puri, anche questo secondo caso non può essere considerato, almeno per ora, un pieno successo, poiché nessuna gravidanza è ancora riuscita a giungere a termine.
Il terzo e ultimo caso è senza dubbio il meno rivoluzionario e “mediatico” tra i tre, per due ragioni principali. Innanzitutto, non riguarda leggendarie specie estinte né una delle specie carismatiche della savana africana, ma comuni animali domestici. In secondo luogo, la procedura alla base, la già menzionata clonazione, è una tecnica nota e praticata da decenni: basti pensare alla celebre pecora Dolly, nata nel lontano 1996. Ciononostante, da alcuni anni a questa parte si è aperta davanti ai nostri occhi una nuova era per gli animali da compagnia. Diverse multinazionali, dagli Stati Uniti al Giappone – mentre in Italia la pratica è ancora illegale – offrono, o forse sarebbe meglio dire vendono, la possibilità di clonare il proprio animale da compagnia defunto, così da poterlo avere con sé per un tempo che neppure la morte sembra più in grado di interrompere. È senz’altro necessario precisare che il risultato non potrà mai coincidere con l’animale originario. Uno dei malintesi più comuni, quando si parla di clonazione, è infatti l’idea che questa tecnica consenta di ricreare un esemplare identico al precedente. Se da un lato il nuovo individuo è geneticamente identico, dall’altro non lo è dal punto di vista fenotipico. Ma c’è anche un’altra caratteristica che rende il nuovo animale diverso dal precedente. Barbra Streisand, ad esempio, proprietaria di due cagnolini clonati a partire dal suo defunto Coton de Tulear, ha sottolineato come i due nuovi esemplari abbiano personalità diverse. Questo perché la personalità è, in larga parte, il risultato degli stimoli ambientali. La sconfitta della morte e la conquista dell’eternità per il proprio animale non sono realtà e neppure le aziende produttrici cercano di venderle come tali. L’illusione che questa vittoria sia stata raggiunta, però, è concreta, almeno per chi può permettersi di acquistare una copia genetica.
Cercando ora di tirare le somme, cosa ci ritroviamo davvero tra le mani? Tre casi che sembravano promettere di mostrarci l’onnipotenza biotecnologica e umana – promessa, va detto, avanzata più che altro da chi scrive – si sono rivelati, in realtà, solo tre mezzi successi. In nessuno dei tre casi è stato raggiunto pienamente quanto ci si attendeva all’inizio: un lupo estinto che si rivela sostanzialmente un lupo grigio; un rinoceronte sull’orlo dell’estinzione che, per ora, rimane tale; un animale domestico morto che, in definitiva, rimane morto. Dove si cela allora questa fantomatica onnipotenza? Non si nasconde affatto, ma è ben visibile negli esempi citati. Ciò che è reale, senza dubbio, è la volontà di onnipotenza dell’essere umano. Ma questo lo avevamo già appurato. L’onnipotenza si riflette anche nelle conquiste che questi tre casi rappresentano, in un tentativo sempre più sofisticato di correggere e piegare il corso degli eventi – sia esso naturale o già di per sé artificiale, laddove l’estinzione e la morte siano state provocate dagli esseri umani stessi – ai propri desideri.
Esiste allora un limite a questo sfoggio di potere tecnologico? Dobbiamo porvi un freno? I tre esempi citati non possono che sollevare dubbi, prese di posizione, critiche feroci o, quantomeno, discussioni di carattere politico, socioeconomico e soprattutto etico. Una prima grande domanda riguarda le conseguenze per gli animali coinvolti, per il loro benessere e la possibilità di condurre una vita che sia, per quanto possibile, priva di stress e dolore. E ciò non riguarda soltanto i “nuovi” animali, esposti ad esempio al rischio di difetti genetici, ma anche gli esemplari “strumentali”, utilizzati nello sforzo di raggiungere l’obiettivo, come i cani e i rinoceronti impiegati per le gravidanze. Senza ombra di dubbio, i diversi gruppi di ricerca coinvolti hanno condotto le necessarie valutazioni etiche, assicurandosi che tale benessere non venga compromesso. Sarebbe però opportuno interrogarsi su quale grado di benessere sia stato assunto come accettabile alla radice, nello sforzo di trovare un equilibrio tra il rispetto per l’animale e la volontà di portare a compimento il proprio obiettivo. E anche assumendo che questi animali siano effettivamente sottoposti a situazioni di dolore e stress, dobbiamo considerarli necessari qualora l’obiettivo sia quello della conservazione? Non si tratta in questo caso tanto dell’esempio dei dire wolves o dei mammut, quanto piuttosto dei rinoceronti. Questa specie, infatti, è stata decimata nel corso degli anni dall’essere umano, sia attraverso il bracconaggio volto all’ottenimento del prezioso corno, sia a causa dell’espansione dello spazio antropico, a discapito di quello del rinoceronte. Due articoli pubblicati entrambi nel 2025 e incentrati sul tema della de-estinzione – Playing Jesus to Save Species: A Virtue Ethics Approach to Biotech De-Extinction Projects di Bjørn Myskja e Mickey Gjerris e Between Hype and Hope: De-extinction is a Tool, Not a Panacea for the Biodiversity Crisis di Rodrigo Béllo Carvalho – discutono la legittimità etica di salvare dall’estinzione specie la cui scomparsa sia stata provocata dall’azione umana. Tuttavia, anche riconoscendo la responsabilità degli esseri umani, rappresenterebbe questo un motivo sufficiente per mettere in pericolo o sacrificare animali attualmente esistenti? La medesima domanda non può che valere anche considerando le risorse economiche, il tempo e la forza lavoro impiegati in questi progetti che, pur avendo magari a cuore il mondo animale, potrebbero forse essere meglio spesi per salvaguardare gli individui e le specie ancora in vita.
Interrogarsi sulla necessità di questi progetti e sul compromesso da trovare con la salvaguardia degli esseri viventi attuali introduce una seconda questione di natura ecologica. Ogni animale, inserito all’interno di un ecosistema, occupa una propria nicchia ecologica, all’interno della quale svolge una funzione che contribuisce all’equilibrio con le altre specie, animali e vegetali, presenti nello stesso ambiente. Il rinoceronte bianco, ad esempio, è considerato una specie chiave poiché, in quanto mega-erbivoro, pascolando enormi quantità di vegetazione, consente il mantenimento dell’equilibrio vegetativo e impedisce la crescita eccessiva della vegetazione. Pertanto, il suo salvataggio e la reintroduzione all’interno della savana avrebbero un senso e un’utilità che vanno ben oltre il semplice permettere agli esseri umani di “giocare a fare Dio” e di espiare colpe di cui, pur non essendone direttamente responsabili, si sentono tali come specie. Ma cosa dire, invece, di animali come l’enocione e il mammut? Nel caso di quest’ultimo, si discute da anni di come una sua reintroduzione potrebbe giovare alle praterie artiche, contribuendo a mantenere compatto il permafrost in fase di scongelamento. Tuttavia, gli ecosistemi che un tempo ospitavano il mammut lanoso sarebbero oggi in grado di accogliere, senza stravolgimenti, questo nuovo elefante “simil-mammut”? Lo stesso discorso potrebbe valere per il dire wolf, un predatore apicale di dimensioni maggiori rispetto al lupo grigio. In che tipo di competizione entrerebbe con gli altri predatori apicali? E quale impatto avrebbe, invece, sulla fauna erbivora? In generale, e non solo in relazione al reinserimento di queste due specie estinte, introdurre specie aliene con il rischio che risultino invasive per le popolazioni autoctone rappresenta da sempre un problema oggetto di dibattito e di studi specifici. Tale questione non si porrebbe se l’intento fosse creare questi animali per mantenerli in cattività. Ma in questo caso, oltre a sollevare ulteriori interrogativi legati al loro benessere, il progetto risulterebbe anche pressoché inutile rispetto agli obiettivi iniziali. Qualora nascesse un numero sufficiente di esemplari da consentire il ripopolamento in natura, la loro reintroduzione dovrebbe costituire un ulteriore aspetto da valutare con estrema attenzione. Nel caso dei mammut, ad esempio, ad attenderli ci sarebbe il Parco del Pleistocene, una riserva naturale situata nella Siberia orientale, popolata da animali come bisonti e yak, con l’obiettivo di ricreare l’ecosistema pleistocenico e, grazie all’azione dei grandi erbivori, contribuire al mantenimento del permafrost ghiacciato.
E per quanto riguarda il cagnolino di Barbra Streisand? Anche in questo caso, al di là delle problematiche di natura tecnico-scientifica, come ad esempio i difetti genetici, vi sono almeno altre due questioni da tenere in considerazione. La prima riguarda le aspettative. Anche qualora chi decidesse di clonare il proprio animale da compagnia fosse consapevole della possibilità che il nuovo esemplare possa sviluppare una personalità e dei comportamenti diversi rispetto a quelli dell’animale di cui conserva il ricordo, sarebbe davvero disposto ad accettare il nuovo compagno con pazienza e senza rimorso, nel caso in cui non corrispondesse alle proprie aspettative? Il rischio, in caso contrario, potrebbe essere quello di creare una nuova categoria di animali abbandonati o maltrattati: quella degli animali clonati. Con buona pace dei critici della clonazione, secondo i quali chi desidera un nuovo animale da compagnia non dovrebbe ricorrere a tale pratica, ma piuttosto rivolgersi a strutture quali i canili o offrire una seconda possibilità ai randagi.
Infine, un problema che investirebbe tutti e tre i casi discussi, seppur con diversa intensità, sarebbe quello dell’oggettificazione animale, ossia la concezione secondo cui il mondo animale sia un possedimento esclusivo della specie umana, la quale si ritiene perciò autorizzata ad alterarne ogni meccanismo interno, fino al punto di opporsi persino alla morte. Ciò non significa ovviamente che si tratti di un nuovo fenomeno nella relazione tra esseri umani e animali: l’oggettificazione dell’animale è un problema antico quanto la sua domesticazione. Tuttavia, in un periodo storico in cui sembra emergere un progressivo riconoscimento del valore intrinseco degli animali e del rispetto loro dovuto, sia all’interno dello specifico dibattito etico sia nel più ampio sentire comune, avrebbe senso correre il rischio di rafforzare ulteriormente tale concezione, soprattutto laddove i potenziali rischi per l’animale sembrino superare i benefici?
In conclusione, non c’è stata, alla base di quanto scritto, alcuna volontà di esprimere un giudizio definitivo su questi casi, poiché non credo sia questo il luogo. I dubbi e le domande hanno trovato più spazio delle risposte. Anche nella sua onnipotenza, reale o soltanto auspicata, l’essere umano non può esimersi dall’interrogare se stesso e dal prendere coscienza di ciò a cui, come specie, sta lavorando e delle immense potenzialità tecnologiche di cui dispone. Riflettere sulla propria forza in quanto specie e sull’impatto che essa può avere su un mondo che non si pone in opposizione a noi, ma accanto a noi, significa riappropriarsi di quel senso di umiltà e finitezza che, anche in questi desideri di resurrezione, stiamo forse lentamente smarrendo.
BIOTECNOLOGIE ENDOXA - BIMESTRALE FILOSOFIA Endoxa settembre 2025 MATTIA POZZEBON Onnipotenza
