L’ALTERITÀ COME ANTIDOTO AL DELIRIO DI ONNIPOTENZA

MICHELE ILLICETO

  1. Onnipotenza: delimitazione di campo tra possibilità e impossibilità

La questione dell’onnipotenza ha a che fare con altre due categorie ad esse attigue: quella della potenza e dell’impotenza. Solo che, a loro volta, tutte e tre hanno a che fare con un’altra dimensione che le giustifica e le chiama in causa, e cioè quella della possibilità che si collega al suo opposto che è dato dall’impossibilità. Se una cosa non fosse possibile, non si porrebbe la questione relativa alla necessità di qualcosa o di qualcuno che in sè abbia il potere di trasformare tale possibilità in realtà, vincendo la sua possibile impossibilità.

La categoria della possibilità si rivela essere una categoria che in sé contiene un misto di debolezza e di potenza. Infatti, può e non può. Il potere della possibilità è un potere debole, sospeso, che, tuttavia, se incontra un altro potere, riesce a rivelarsi “germinale”. Il potere della possibilità è un potere che dipende da un altro potere: quello di realizzare il possibile superando l’impossibile.

Quindi, è la coppia “possibilità-impossibilità” che fa da sfondo alla discussione circa la categoria della onnipotenza, a sua volta collegata a quella della potenza e dell’impotenza, senza dimenticare il loro comune riferimento alla centrale categoria della realtà. Infatti, una cosa che non è, ma che è possibile che sia, necessita di una potenza (onnipotente?) affinchè davvero sia. Quindi, il criterio ultimo che decide del potere è la sua capacità di trasformare il possibile in reale. Su questo crinale si collocano e trovano una loro spiegazione sia il racconto della creazione (e le varie mitologie dell’inizio) sia le eventuali spiegazioni scientifiche, ambedue tese a giustificare il reale del possibile e il possibile del reale.

Pertanto, si può definire “potenza” la capacità di far diventare reale ciò che è puramente possibile, dopo aver superato lo scoglio dell’impossibile, che, a sua volta, è esso stesso una possibilità. Tale potenza, a sua volta, diventa onnipotenza se di fronte ad essa non ci sono impossibilità che non possano essere trasformate in possibili e, quindi, essendo fattibili, in dati e in fatti compiuti. La potenza è ciò che permette a un potere di dare “compimento” al possibile. Quindi, l’onnipotenza è una qualità propria di un potere che ha la capacità di trasformare l’impossibile in possibile e, quest’ultimo, in qualcosa che di fatto viene realizzato, finalmente giungendo al suo compimento. Alla sua definitività.

Alla luce di queste brevi e introduttive considerazioni di inquadramento del problema, una prima conclusione ci porta a sostenere che la categoria dell’onnipotenza si colloca solo nello spazio in cui si consuma il gioco tra il possibile e l’impossibile. Da qui derivano una serie di conseguenze, la prima delle quali ci dice che solo nel campo dei possibili ha senso parlare di onnipotenza, avendo sullo sfondo, come suoi ulteriori correlati, sia la categoria della potenza che dell’impotenza. Pertanto, fuori da questo ambito, l’onnipotenza, con i cuoi concetti affini e i suoi corollari menzionati sopra, non ha senso.

Ora – ed è la seconda conseguenza – la possibilità è qualcosa che prende campo solo nel tempo e come tempo, avendo il possibile una connotazione temporale e il tempo la forma di ciò che possibile. Pertanto, se il campo dei possibili coincide con quello caratterizzato dalla temporalità e, di conseguenza, dalla storicità, è chiaro che il discorso che ha come oggetto l’onnipotenza, insieme alle altre sue categorie, va inquadrato solo all’interno di tale contesto storico-temporale, connotato a sua volta dal divenire, il quale mette in scena il contrasto tra ciò che è possibile e ciò che non lo è. Solo ciò che è nel tempo, ed è fatto di tempo, e che storicamente è aperto all’accadere o meno,  si espone al gioco dialettico che si viene a instaurare tra possibile-impossibile. La terza conseguenza che ne scaturisce è quella per cui, fuori dal campo dei possibili, non ci sarebbe bisogno di alcuna potenza e, in modo correlato, di nessun ricorso alla onnipotenza. La quarta conseguenza è data dal fatto che, poiché l’unico orizzonte caratterizzato dalla temporalità, dalla storicità e dal divenire, è quello umano, si ha che non ha senso porre la questione dell’onnipotenza fuori dall’orizzonte umano. Pertanto, l’onnipotenza non riguarda Dio, ma l’uomo, e se, qualora dovesse riguardare anche Dio, è necessario che questo Dio si comprometta con l’umano e, quindi, con il tempo e con la storia, dato che esso è l’unico regno dove i possibili si danno.

  1. Dio e onnipotenza

Questi passaggi ci fanno giungere al secondo punto in questione: e cioè che l’onnipotenza – pensata come categoria divina, propria di un Dio che è stato sempre inteso dalla tradizione filosofica e religiosa come “onnipotente” – va ripensata solo all’interno dell’orizzonte umano, storico-temporale. Pertanto, se ciò che è stato detto fin qui ha un senso, se ne deduce che non bisogna più porre la domanda se Dio sia onnipotente o meno (si pensi al famoso argomento formulato da Epicuro riguardo al rapporto tra bontà e onnipotenza di Dio rispetto all’esistenza del male), in quanto l’onnipotenza riguarda solo l’ambito delle possibilità tipicamente umane.

Se poi si guarda al cristianesimo, ciò vale ancora di più, visto che una sua grande novità è data dalla centralità che in esso ha la logica della croce, e quindi della kenosi, secondo cui Dio non ha bisogno di esercitare la sua onnipotenza rispetto a sé medesimo, ma rispetto ad altro –  ad un “altro” -, cioè rispetto a ciò da cui, già a partire dalla creazione, ha deciso di farsi limitare. Infatti, la prima autolimitazione di Dio è stata la creazione, dove questo “altro” è dato dal creato e dall’uomo, che appunto si danno nel tempo e come tempo. Ciò significa, di conseguenza, che Dio è chiamato a dimostrare la propria onnipotenza proprio rispetto a questo suo “altro”, cioè nel suo rapportarsi al tempo e alla storia come campo dei possibili, in cui il creato e l’uomo si trovano collocati. Se Dio, nella sua onnipotenza, ha creato il mondo e l’’uomo, con tale gesto Dio si è sottoposto alla logica del gioco tutto umano, temporale, storico e dialettico, che nel tempo si intreccia tra impotenza e onnipotenza, tra possibilità e impossibilità.

Se la creazione (come atto fondativo ed esplicativo della onnipotenza divina) è pura es-posizione, allora il Dio biblico è un Dio es-posto a un’alterità che Egli ha posto come ciò che lo limita. La sua è una onnipotenza es-sposta, che si gioca e si ri-gioca di continuo anche di fronte al fatto che l’uomo, con la sua libertà, ha il potere di limitarlo, anche se sempre e solo nel tempo. Se la libertà è il campo dei possibili tipicamente umani, allora l’onnipotenza divina si è es-posta nel gioco dei possibili di colui Dio ha posto come suo altro. Se poi, esponendosi, è entrato nel campo dei possibili, Egli ha scelto di non usare, tra le sue possibilità, la sua onnipotenza possibile. In tal modo, Dio ha scartato l’onnipotenza come una sua possibilità nella decisione di autolimitarsi, scegliendo in alternativa la via della deponenza, il cui apice è stato raggiunto con l’evento della croce, vissuto come radicale “spoliazione” (cfr. Fil 2,7). In tal senso, Dio ha dimostrato un altro tipo di potenza: quella di rinunciare alla propria onnipotenza. Questa esposizione-deponenza-spoliazione, che è una forma di potenza rovesciata, va però inquadrata nella logica della kenosi (abbassamento-svuotamento-annichilimento), che a sua volta trova la sua ultima giustificazione all’interno di quella che è in definitiva la vera e unica potenza: la potenza dell’amore inteso come “agape”, cioè dell’amore oblativo, centrale nella teologia giovannea (cfr. Gv 4,8.16). In altri termini, sulla croce, l’onnipotenza di Dio sta nel suo non usare tale onnipotenza, pur avendone la possibilità. Lo dice S. Paolo: “ciò che è stoltezza di Dio è più sapiente degli uomini, e ciò che è debolezza di Dio è più forte degli uomini” (1 Cor 1,25).

Di quale potenza di tratta? E’ la potenza del fare spazio all’altro, anche quando l’altro ha ridotto lo spazio di potenza destinato a me. Il vangelo, infatti, ci mette innanzi una logica totalmente nuova: quella per cui Dio rovescia i potenti non con la forza della sua onnipotenza ma con la forza della sua debolezza: la debolezza della croce. Facendo ciò, Dio apre all’uomo la strada per fare altrettanto, e cioè usare la potenza della debolezza come via per disarmare la forza ingannatrice della onnipotenza: “Amate i vostri nemici” (Mt 5,44). Questo tipo di debolezza è tipica dei miti, che il vangelo proclama beati (Mt 5,5) e che il filosofo N. Bobbio ha elogiato, proprio nelle pagine del suo Elogio della mitezza, dove affronta il rapporto tra potere e uso della forza. Se il nemico, con la sua onnipotenza, riduce la mia potenza, incitandomi a usare a mia volta la stessa onnipotenza che egli ha usato nei miei confronti, io disarmo la sua onnipotenza solo se decido e scelgo di evitare di usare la mia. E in tal modo chiudo il circolo vizioso della strapotenza. Non è la guerra lo scontro tra due forme deliranti di onnipotenza? Scontro che ape a un circolo tragico che da null’altro può essere spezzato se non dalla mitezza figlio di una saggezza ispirata dalla ragionevolezza?

  1. Onnipotenza e alterità

Più che illimitato e infinito, il campo umano e storico-temporale dei possibili è invece finito, anche se “indefinito”. In quanto indefinito, spesso abbiamo pensato che nulla possa limitare i nostri possibili. Un possibile indefinito, a sua volta, apre la strada all’idea che tutto sia possibile, e che, se tutto è possibile, allora tutto è fattibile. Di conseguenza, si comincia a pensare che non vi sia limite alla mia potenza, intesa, come abbiamo già visto sopra, come la capacità di realizzare l’infinito ventaglio dei possibili. Ed è a questo punto che si inserisce la seduzione e il desiderio di onnipotenza, che, proprio perché non tiene conto del fatto, molto concreto e reale, che i possibili non sono infiniti ma finiti e indefiniti, assume una forma delirante.

In definitiva l’onnipotenza nasce sulle ceneri del limite. Appena l’uomo dimentica i propri limiti, trasforma la propria potenza in onnipotenza, subendone gli effetti devastanti, come ci hanno insegnato i greci quando parlavano di hybris. Ora, mentre Dio ha deciso di autolimitarsi, e, autolimitandosi, ha limitato la sua onnipotenza, l’uomo, al contrario, nasce già limitato, in quanto collocato in un orizzonte spazio-temporale e storico, dove il divenire, tra il nascere e il morire, continuamente lo limita nei suoi possibili, scontrandosi con la propria finitudine. L’uomo non decide di autolimitarsi, ma si trova già limitato, anche se non sempre se ne rende conto. In questo senso, pur essendo limitato, deve sempre scegliere di autolimitarsi, nel rispetto della sua condizione di finitudine, originaria, costitutiva e fondativa.

Mentre l’autolimitazione di Dio è frutto di una decisione che rimanda a un atto di amore con il quale Dio ha posto l’altro da sé, l’uomo non deve decidere di autolimitarsi, in quanto “si trova” già limitato da un altro che non ha posto. Heidegger direbbe, a riguardo, che si trova “gettato” da un fondamento di cui non dispone, e che, quindi è un fondamento infondato. Noi, invece, diciamo che si trova posto (creato?) da un Altro che non ha il potere di porre. Se siamo un altro posto da un Altro, e se siamo posti come altri di fronte ad altri, allora la nostra potenza è limitata. Di conseguenza, è l’alterità il vero limite che impedisce alla potenza di scadere in onnipotenza. Un limite che, mentre chiude, apre. Che non ci mortifica ma che ci custodisce.

L’alterità si pone, pertanto, come vera esperienza di un limite che, se assunto, mi impedisce di cadere vittima del delirio di onnipotenza. Infatti, la potenza dell’altro è quello di limitarmi senza annullarmi. Anzi, con questo suo limite, egli paradossalmente mi salva dal mio possibile delirio di onnipotenza. Insomma, il vero antidoto all’onnipotenza è l’alterità, la quale, limitandomi, mi restituisce allo spazio della mia potenza come campo dei possibili limitati, e allo stesso tempo mi impedisce –  nella dimenticanza dei miei limiti –  di scadere nel baratro dell’onnipotenza. L’alterità mi limita, aprendomi e non chiudendomi.

E, guarda caso, sono proprie queste le due categorie – la categoria del limite e quella dell’alterità –  che oggi mancano sia nelle prassi sociali che politiche, e che, di conseguenza, danno libero sfogo alle varie forme di delirio di onnipotenza. Infatti, in questo doppio vuoto, a farla da padrone è l’io che, non percependosi più come finito, si espande sempre più a dis-misura, oltrepassando con una nuova forma di hybris, la misura, anzi, ogni misura, ponendosi egli stesso – da solo e in modo solipsistico e autoreferenziale – come unica misura, non solo di sé, ma degli altri, anzi delle varie forme di alterità: quella del tempo (pensiamo alle nuove generazioni), quella sociale e quella del creato intero.

La domanda allora che resta è: c’è un potere che ci salva da un cattivo uso del potere? Un potere che, pur lasciandoci giocare nel campo dei possibili, non ci faccia cadere nel baratro del delirio di onnipotenza? La risposta a questa domanda esige un discorso che faremo un’altra volta. Di certo, non possiamo ignorare quanto hanno detto, a tal proposito, due grandi pensatori del Novecento: G. Anders, il quale, nel suo L’uomo è antiquato, ha affermato che Ciò che ci manca non è il potere, ma il non-potere”, e H. Jonas, che nel suo Il principio responsabilità, ha scritto che “Mai tanto potere è stato accompagnato da una così scarsa capacità di indicarne l’uso migliore (…) Meno crediamo nella saggezza, più ne abbiamo bisogno”.

ENDOXA - BIMESTRALE FILOSOFIA TEOLOGIA

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