ARENDT VS. TRUTH

PIER MARRONE

Cosa c’entra la verità con la politica, ammesso c’entri qualcosa? Non è semplice dare una risposta a questa domanda così diretta e forse così ingenua. Il cinismo da sempre diffuso nei governati non è diverso oggi da quanto è con ogni probabilità stato in ogni società con una certa complessità. I politici pensano solo a sé stessi, tutti i politici rubano, che i politici vadano a lavorare. Qualunquismo e populismo non sono invenzioni della contemporaneità. Queste invettive sciocche e pervicaci hanno lo scopo di far sembrare migliori coloro che le pronunciano, mentre molto spesso proprio coloro dalle cui bocche escono sono tra i primi a genuflettersi davanti a chi detiene il potere, sempre in cerca di qualche piccolo privilegio, di qualche misero favore che aggiusti, anche di pochissimo, le loro banali vite e che, nello stesso tempo, dia l’impressione di renderle meno banali in virtù di una prossimità, magari siderale, all’esercizio del potere, per lo più intravisto solo da  lontano e proprio per questo tenuto, in definitiva, in grande considerazione.

Entrando maggiormente nel dettaglio, possiamo, credo, concordare che in sistemi autoritari, dittatoriali, totalitari, autocratici il nesso tra potere e verità si sia dissolto, anzi: che intenzionalmente sia stato distrutto. Gli stati di questo genere non hanno nessun interesse a legare le decisioni politiche alla verità dei fatti, ma hanno tutto l’interesse a costruire una verità che indossi i panni dell’ideologia del potere, ossia che non sia affatto indipendente dall’interlocutore che la pronuncia. Una menzogna sufficientemente ripetuta alla fine veste i fatti di una indiscussa verità; un’insinuazione sufficientemente diffusa è in grado di smentire le verità fattuali più solide. Esistono i no-vax, i terrapiattisti, i negazionisti delle camere a gas, e mille altre follie che fanno capo al nostro strumento più potente: l’immaginazione. In effetti, questo è anche il nostro strumento più perverso. Le perversioni sono patologie dell’immaginazione che non solo si è allontanata dalla realtà, come è probabilmente bene che venga fatto da un’immaginazione che sperimenta scenari per l’azione, ma che vuole costruire la realtà a propria immagine (è proprio il caso di dire). La realtà ha, però, la sgradevole tendenza a piombarci addosso e a prendersi numerose rivincite, anche se queste magari devono attendere secoli per mostrarsi nella loro evidenza e noi, almeno finora, non abbiamo tutto questo tempo né nemmeno tutta questa pazienza.

E dunque intanto che cosa facciamo e che cosa dovremmo pensare della politica? Forse prima di pensarne qualcosa, dovremmo essere capaci di cominciare a distinguere. Dovremmo essere capaci di dire quanto magari non sempre siamo in grado di pensare, ossia che non tutti i sistemi politici stanno sullo stesso piano e quindi non tutti i politici si collocano nella medesima dimensione. Ci devono essere delle differenze significative e sostanziali tra una democrazia e un’autocrazia, poiché non può, non deve essere indifferente che nella prima posso addirittura manifestare a favore dell’autocrazia, mentre nell’autocrazia non mi è permesso manifestare a favore di un cambio democratico. Non può non significare nulla che nella prima posso leggere quello che voglio, dire quello che voglio, scrivere quello che voglio, mentre nella seconda tutte queste azioni sono soggette a serie limitazioni per non compromettere l’esercizio di un potere sempre pronto, per la sua medesima struttura, all’esercizio arbitrario.

Ma della verità che cosa ne rimane, una volta che abbiamo rimarcato queste differenze? La preferenza per le società democratiche è solo una questione di gusto? Non è semplice dire perché dovremmo preferire la democrazia a altri sistemi di governo. Una delle giustificazioni standard è che in una democrazia il mio voto conta e contano le mie preferenze. L’argomento è debole, perché se fosse vero che il tuo voto, proprio il tuo e non quello di qualcun altro, conta, alle elezioni, ci si dovrebbe accorgere se tu non ti presenti alle urne. È davvero così? Naturalmente, il tuo voto non conta nulla, se non in situazioni dicotomiche dove è proprio il tuo voto l’unico a poter fare la differenza. Sono situazioni rarissime. In altre situazioni non conta quasi nulla, ma non è privo di costi per te. Andare a votare, infatti, rappresenta un costo che può non essere indifferente. Devi uscire di casa con qualsiasi tempo atmosferico, prendere la macchina, trovare posteggio, fare delle file. Potresti fare un incidente mortale nel tragitto o uno nel quale rischieresti di rimanere paralizzato. Tutte cose molto improbabili, d’accordo, ma che sono comunque maggiormente probabili del fatto che il tuo voto – sì: il tuo voto, proprio il tuo e non quello di qualcun altro – conti qualcosa. Quindi, se hai una preferenza per i sistemi democratici non può ragionevolmente essere questa. Deve trattarsi di qualcos’altro. Deve essere qualcosa che a che vedere con la capacità dei sistemi deliberativi democratici di prendere le decisioni giuste in un numero ragionevolmente superiore rispetto a altri sistemi deliberativi. Perché, scusate, se un dispotismo illuminato fosse capace di prendere decisioni giuste molte volte, per quale motivo non dovremmo preferirlo?

La democrazia è davvero in grado di prendere le decisioni giuste, almeno qualche volta in più rispetto a altri sistemi? Al processo di decisione democratica sono state rivolte numerose critiche nel corso della storia e nel corso della storia della filosofia. La prima, a nostra conoscenza (ma forse un prodromo esiste già in Eraclito) è quella rivolta da Socrate. La struttura di un ragionamento fatto al modo di Socrate, che può essere considerato il padre della critica epistocratica (quella concezione secondo la quale dovrebbero governare gli esperti, ossia coloro che sanno), potrebbe essere il seguente:

(1) se hai bisogno di occuparti del bene di qualcosa di specifico, dovresti andare da qualcuno che ha le corrette conoscenze vere giustificate relativamente a quell’oggetto ed è considerato un esperto nel campo di cui fa parte quell’oggetto;

(2) tuttavia, quando si tratta del bene dello Stato, la democrazia ci dice che possiamo andare da chiunque, perché non esistono esperti maggiormente qualificati di altri;

(3) ma così come esiste il bene di un determinato oggetto, di una determinata situazione, di un determinato gruppo di persone, allo stesso modo esiste ciò che è il bene per lo Stato;

(4) pertanto, per sapere qual è il bene dello Stato, è necessario identificare chi sono le persone competenti che hanno le conoscenze adatte relativamente a questo particolare oggetto;

(5) la democrazia è incapace di identificare queste persone competenti e facendo affidamento su chiunque è quindi il governo degli incompetenti.

Socrate non era un democratico e quando nell’Apologia di Socrate di Platone lui, paragonandosi a un tafano fastidioso, fa notare ai magistrati che lo stanno giudicando che la città dovrebbe essergli grata perché ha contribuito a renderla migliore, allora si capisce già come sarebbe andata a finire. Questa critica epistocratica di Socrate non è un argomento per niente facile da smontare.

Hannah Arendt non si è mostrata molto propensa a confutarlo, sebbene la sua inclinazione verso i sistemi democratici sia indubbia. Anzi: ha cercato di fatto di ritorcere l’argomento epistocratico contro sé stesso. Per Arendt, infatti, la verità non può non assumere un carattere dispotico, se osservata dal punto di vista della vita politica, poiché annulla tre elementi essenziali alla vita democratica: le dispute, i disaccordi, le deliberazioni. L’appello alla verità ha come intento di chiudere la discussione, mentre la discussione è precisamente ciò che caratterizza quei tre elementi. Se la politica è l’arena della contesa, l’appello alla verità intende indicare un territorio che è al di là di ogni possibile contesa. Questo fa concludere a Arendt che verità filosofiche che riguardino ad esempio l’eguaglianza o la giustizia distributiva non possono aver corso in democrazia, la quale rimane il luogo della persuasione e della dissuasione. L’idea di Arendt è che l’appello alla verità in politica è quanto lei chiama un political-stopper, ossia serve per interrompere la discussione, non per proseguirla.

Ci sarebbe da chiedersi per quale motivo mai sarebbe sempre un bene proseguire la discussione. Forse ci sono discussioni sulle quali è possibile giungere a una conclusione, ad esempio possiamo discutere se le differenze razziali producono differenze cognitive e/o differenze nelle capacità di partecipare alla vita democratica, ma una volta che sia stato reso chiaro che le presunte differenze razziali non hanno nessun significato scientifico quanto alle capacità cognitive e alla capacità di partecipazione politica alla vita democratica, allora proseguire la discussione per il gusto di proseguirla, pare non avere molto senso. Arendt distingueva tra due grandi insiemi di asserzioni vere. Le verità fattuali e le verità teoriche. Le prime sarebbero proprietà degli enunciati empirici, quelli che riguardano cose che occorrono nel mondo, le seconde sarebbero proprietà degli enunciati della logica, della matematica, della morale (forse). Le prime dipendono dalle condizioni del mondo (che il muro di fronte a me sia bianco, dipende dal fatto che effettivamente in questo momento sia bianco), le seconde sono asserzioni la cui verità non dipende dalle condizioni del mondo (il teorema di Pitagora, il rapporto tra diametro e circonferenza in un cerchio non dipendono dalle condizioni del mondo e non dipendono nemmeno dal fatto che qualcuno abbia mai pensato al teorema di Pitagora o alla relazione tra diametro e circonferenza in un cerchio).

I regimi autoritari e totalitari sarebbero caratterizzati da una tendenza alla negazione delle verità fattuali. Tuttavia, anche l’appello alla verità è una causa di sofferenza per i regimi democratici perché appellarsi a verità fattuali o a verità razionali rappresenta una volontà di chiudere la discussione, mentre la democrazia è appunto il regno della discussione e della persuasione. I regimi autoritari hanno la notoria tendenza a negare o a occultare verità fattuali. Tuttavia, anche le democrazie possono affrontare crisi di legittimità se si appellano a verità razionali. Anche in questo caso, forse più in questo caso che in quello delle verità fattuali, l’idea è di chiudere la discussione. Ma discussione, contesa, dissenso sono precisamente ciò che caratterizza l’arena democratica.

Che il campo politico abbia delle caratteristiche agonistiche mi trova d’accordo. In fondo, la politica è la guerra combattuta con le armi della dialettica e non con le armi da fuoco. Anzi: è combattuta con le armi della dialettica per evitare di usare le armi da fuoco o altre più letali. Il problema è che non è affatto detto che giungere a delle verità serva a chiudere il dibattito o abbia come effetto secondario la chiusura del dibattito Questo per due motivi:

  1. a) molte verità non sono affatto autoevidenti e, ad ogni modo, è sufficiente che qualcuno dica che una verità non è autoevidente, affinché non lo sia;
  2. b) ci possono essere verità che valgono in linea generale e che sono autoevidenti in linea generale, ma le quali, anche quando generano un vasto consenso, non è affatto detto che con ciò stesso la discussione sia destinata a chiudersi.

Io penso che esista almeno nei regimi democratici una larga convergenza su alcuni principi sui quali, a parole, tutti i regimi sono d’accordo:

(1) che un sistema di istruzione pubblico di qualità accessibile a tutti i meritevoli, indipendentemente dal loro reddito, rappresenti una risorsa da promuovere e conservare;

(2) che un sistema sanitario pubblico vada incontro a quello che è ritenuto un generale diritto alla salute e abbia importanti effetti sulla stabilità sociale;

(3) che un sistema fiscale equo dovrebbe comportare una ragionevole imposta progressiva sul reddito;

(4) che lo Stato dovrebbe garantire la possibilità di spostarsi sul territorio nazionale attraverso un sistema di trasporti pubblici o di trasporti accessibili a prezzi ragionevoli;

(5) che tutti dovrebbero avere accesso a sistemi igienici e all’acqua potabile;

(6) che a ognuno dovrebbe essere garantita un’abitazione dignitosa.

Forse solo il punto (3) è oggetto di una seria controversia, poiché ci sono coloro che ritengono che, ad esempio, un sistema di prelievo fiscale basato sulla flat tax, sia più efficiente. Tuttavia, la tassazione progressiva sul reddito è accolta come maggiormente equa dalla maggioranza dei cittadini perché corrisponde a un’intuizione morale piuttosto potente, ossia che chi ha di più deve dare di più. Ma anche che volessimo lasciare da parte questo punto, sugli altri cinque è difficile negare che ci sia un consenso molto vasto derivato dalla ragionevolezza veritativa dei principi generali che vi vengono espressi. Questo consenso sulla ragionevolezza e verità di questi principi ha qualche probabilità di chiudere la discussione democratica? Ovviamente no, proprio perché si tratta di principi generali, che non sono nemmeno delle verità empiriche, e la cui ragionevolezza è raggiunta attraverso un esteso uso dell’immaginazione applicata alla moralità.

Tuttavia, questa non è l’unica conseguenza che è possibile trarre da una contestazione della tesi di Arendt che la verità è nemica della democrazia, poiché la democrazia è il regno della contesa, del disaccordo, della disputa e della persuasione attraverso la dialettica e la retorica. Un’altra e di non minore portata riguarda la preferenza che noi dovremmo avere per un sistema politico a differenza di altri. Se noi siamo in una posizione relativamente disinteressata e/o di distanza dal potere (ovvero se non facciamo parte dell’élite che comanda) dovremmo preferire il sistema politico che ha maggiori probabilità di generare decisioni giuste, ovvero aderenti alla maggioranza dei principi che ho elencato. Questo sistema politico si identifica con le democrazie liberal-democratiche? Non l’ho ancora detto, ma se la risposta è positiva, allora qui si troverebbe una ragione per respingere la posizione di Arendt che ritiene l’appello alla verità incompatibile e, addirittura, potenzialmente pericoloso per la democrazia.

ENDOXA - BIMESTRALE FILOSOFIA

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