CONTRO LA PRASSOFILIA: ARENDT E I GRECI
ANDREA RACITI
“Di tanto la nostra città ha distanziato gli altri uomini nel sapere e nell’arte della parola che i suoi discepoli sono divenuti maestri degli altri, ed essa ha fatto in modo che il nome di “greci” non sembra essere stato dato sulla base di una stirpe, ma sulla base della ragione, così che si possono chiamare “greci” assai più coloro che partecipano della nostra educazione [thês paidéuseos thês hemetéras (…) metéchontas] piuttosto che coloro che hanno un’origine comune”.
Isocrate, Panegirico, 50
- Odi profanum vulgus, et arceo
Celebrare è sempre un evento scabroso. Viola i confini della confidenza personale che si dovrebbero sempre osservare rispetto a un autore. Soprattutto quando si tratta di un filosofo. Si entra sempre, necessariamente, in confidenza, in una certa intimità passionale e, per ciò stesso, intellettuale, con il testo e con la parola del filosofo. Una forma, seppur minore (ma non per questo futile), della hegeliana passione del concetto. Allorché si entra in confidenza, in intimità erotico-concettuale con la parola filosofica, si inizia inavvertitamente a parlare con le parole del filosofo, a pensare con i suoi pensieri. Ci si attaccano alla pelle persino i suoi tic, le sue manie, più o meno tutti i turbamenti della sua anima torbida.
Pensare – non lo si ripeterà mai abbastanza – è il padre di ogni vizio. L’unico vizio, peraltro, degno di nota e di essere, quindi, definito tale. La filosofia raccoglie in ekklesía la comunità dei viziosi: i pensanti. La forma creaturale e sociale più bassa, infima e vergognosa. E, tuttavia, proprio per ciò, l’unica degna di stare al mondo. Anche il capello, il sudiciume e le altre sconcezze partecipano di un parádeigma eterno e immutabile, vien detto nel platonico Parmenide. Il pensiero, suprema impudicizia, cavillo pruriginoso e carcassa putrescente del reale, è innalzato, così, tramite métexis, alla suprema idealità, poiché in esso si istanzia l’infinita discrasia della stolida, ottusa Totalità rispetto a se stessa. Essa, com’è stabilito nel recente Il Pitecantropo, non può guardare alle spalle di se stessa. Il fondamento, in quanto causa sui, non può disporre del proprio esser-fondamento. Il fondamento, come tale, risulta quindi necessitato, costretto suo malgrado, a essere il fondamento. In ciò consiste la sua disperazione, la malattia mortale del Tutto incausato. Ma di ciò, non diciamo oltre in questa sede.
In ogni caso, è evidente che, se messa a confronto con le elevatezze, le altezze, insomma, con le vuote sublimità della cosiddetta “prassi”, che si risolve, nelle filastrocche altisonanti strombazzate dai prassofili, nel moto cieco e inconsulto di masse schiamazzanti atomizzate e orbate in toto del pensiero, beh, quest’ultimo non può che sganasciarsi dalle risate, contemplandone la patente goffaggine e starsene senz’altro stravaccato presso il Pritanèo, come pretese Socrate nelle ultime battute (in tutti i sensi) del suo processo. Il pensiero indirizza così le sue sovrane pernacchie metafisiche ai turbolenti infanti, ai prassofili pazzi, alle cui sguaiate, stridule urla rivolte da costoro al suo venerabile indirizzo, risponde, animato da vox firmissima, con le parole di Orazio: “Odi profanum vulgus, et arceo”.
Ed arriviamo perciò, come si suol ripetere, a noi. Ci si richiede, in questa sede, la celebrazione di uno dei massimi esponenti della prassofilìa, quindi, di quella corrente dominante del non-pensiero, dello pseudo-pensiero, che, sulla base di quanto sciorinato poc’anzi, riteniamo incarni il profanum vulgus oraziano, che, imitando il poeta, non possiamo che disprezzare, odiare, e tenere quindi, per la nostra salvaguardia, a debita distanza. Ciononostante, qui ci si domanda un seppuku, l’auto-violazione dello spinoziano conatus sese conservandi, cioè dell’anatema che abbiamo scolpito sul sigillato integumentum che riveste il vulgus. Ci viene richiesto di celebrare, dunque, la fine della confidenza e dell’intimità filosofica, che, come apparirà assai perspicuo ad orecchie ben sturate e aduse al vero, vive e si alimenta dell’infinita distanza, e solo di essa. La lontananza è l’essenza della passione filosofica. In filosofia ci si dà del Vous o del Sie. Né del “Lei” né, tanto meno, l’infingardo, biforcuto e (non sembri strano ai profani!) cattedratico “tu”. Ma qui, oggi, ci si chiede l’esatto opposto. Dare del “tu” a colei che riteniamo una delle massime vette – sebbene non certo insuperata – del non-pensiero o pseudo-pensiero, cioè della prassofilìa tipica del profanum vulgus, dell’ilotismo politologico spacciato per “filosofia” dai mercati “kulturali”, amministrati con sciocca solerzia dalla giostra dei beati accademici.
A ciò, noi, pur in questa sede “oranti” e “celebranti”, non ci prostriamo.
Neanche morti.
Parliamo peraltro, per dirla con il Labriola di una furbesca epistola a Engels, dal “vivo del consentimento” con la prassofilìaca Arendt. E ciò può sembrare certo paradossale, ai cosiddetti “arendtiani”, ai pappagalleschi ripetitori maniacali del suo non-pensiero (non fu Arendt stessa che si negò recisamente all’auto-definizione di “filosofa”? Che ne pensano di ciò gli “arendtiani”? Francamente, non ci interessa). Ma il paradosso non va sciolto, risolto, come ci insegna il Kierkegaard de Il concetto dell’angoscia. Va, al più, mostrato ed esposto a nudo. Infatti, poiché lunghissime frequentazione e intimità, oltre che un’antica ammirazione, ci legano all’autrice di Vita activa, sappiamo bene – a differenza dei suoi inenarrabili e impresentabili “allievi ed eredi” – che l’unica celebrazione che sarebbe da Arendt accolta (ma di certo non gradita!), con un sorriso vivido ma appena percettibile, è la reductio ad absurdum del suo cosiddetto “pensiero politico”. In particolare, ci riferiamo al presunto e pittoresco (oltre che, radicitus, inesistente) “ritorno ai Greci” messo in atto dal prassofilismo arendtiano.
Ma come mai tanto livore, tanta spietatezza nei confronti della destinataria della nostra (prima facie, volontariamente fallita in partenza) celebrazione, del nostro grottesco peàna?
Non pensiamo affatto che tale questione possa essere anestetizzata, tramite l’esilio sine die del confino di polizia imposto dalla cosiddetta “scienza”, ovvero dai giornalacci accademici, dove nessun problema è possibile porre, dato che vien presupposto tacitamente che tutti i problemi siano stati già-sempre risolti dalla forma capitalistica della produzione (di cui, al giorno d’oggi, non si sa più nulla nel seno della giostra dei beati accademici, se non presso alcune sparute cricche catacombali ultra-esoteriche).
Peraltro, non spenderemo un’eccessiva copia di parole per porre (nonché, sbrigativamente risolvere) la questione. Per certe bagattelle “scientifiche” non dovrebbero essere occupati militarmente gli spazi sacrali di grevi tomi monumentali, che potrebbero ben essere riservati ad altre e ben più serie faccende (su tutte, quelle attinenti alla metafisica speculativa e all’ontologia sociale e politica). Qui, invece, ci tocca regolare, quasi burocraticamente, un equivoco, e spiegare assai succintamente le ragioni del suo inusitato, duraturo e assai increscioso successo mondiale.
Partiamo subito dal Kern propulsivo dell’equivoco prassofilìaco, così da sgombrare il più rapidamente possibile il campo dalle scempiaggini “politologiche” e sbarazzarci – in un sol colpo! – sia delle generose, benevole banalità della Arendt che del fastidioso articoletto esacerbato che mi ritrovo, oggi, a redigere. Ora più che mai, simul stabunt, simul cadent.
- Il “ritorno ai Greci” contro i greci
L’equivoco prassofilìaco arendtiano, inconditum ac paene ridiculum per dirlo con Cicerone, sta tutto condensato in una tesi storicamente e filosoficamente infondata, che – i suscettibili “allievi ed eredi” non se la prendano troppo! – sarebbe oggetto di derisione, non dico da parte di un laureato triennale in storia greca o in filosofia antica, ma anche per la considerazione distratta di un diligente studente liceale che abbia appena concluso il terzo anno delle superiori con buoni voti in storia e filosofia.
Il teorema arendtiano, su per giù, dice questo: sarebbero esistiti degli strani individui, chiamati “Greci”, i quali, indistintamente, omogeneamente e uniformemente, dall’età micenea, passando per l’età arcaica, fino all’età classica, sarebbero stati sistematicamente intenti alla cosiddetta “praxis”, cioè a quella che Arendt traduce in una guisa dall’effetto comico assicurato come “azione di concerto” o “attività politica”. Quest’ultima è intesa da Arendt come astratta e antistorica retrodatazione del public speech liberal-democratico nordamericano al mondo greco. In questa fantastica dimensione “storica” alternativa, degli arroganti aristocratici guerrieri-governanti schiavisti – chiamati, appunto, “Greci” – “pronunciano grandi discorsi e compiono grandi imprese” in un non meglio precisato “spazio pubblico”. Naturalmente, questo “ritorno ai Greci”, non può non integrare nel proprio trompe l’oeil anche la tesi mirabolante dell’esagitato baffuto Nietzsche. Giacché, anche per Arendt, come per l’autore de La nascita della tragedia, questi spietati – ma, tutto sommato, bravi cristi – Greci, egotisti egolatrici, “bestie bionde” (sic!) titolari di un’orripilante e disumana “morale dei signori” (in Nietzsche), ma anche (in Arendt) inspiegabilmente appassionati di “azioni di concerto” e “grandi discorsi” (cioè, comizi) pubblici presso l’agorà, possono condurre una vita così piena e appagante nel discettare del giusto nomos e dell’agathón, solo e soltanto perché (sia per Nietzsche che per Arendt) disporrebbero di uno stuolo di schiavi che, spaccandosi la schiena al posto loro, li emanciperebbe dall’attività economica quotidiana, cioè dal lavoro necessario alla soddisfazione dei bisogni legati alla sussistenza, garantendogli così l’ “apertura” o la “dischiusura” (Heidegger docet!) del beneamato “spazio pubblico”.
Forse, è inutile specificare che si tratta di un sorite di sciocchezze, fandonie antistoriche create quasi ex nihilo, che fungono da gentili correzioni liberal-democratiche americaneggianti (oltre che del martellante esacerbato Nietzsche) dell’arduo, scarsamente digeribile ed “esoterico” (per il pubblico semi-colto di Arendt) “pensiero poetante” di Heidegger. Costui infatti, come emblematicamente si può leggere in Der Spruch des Anaximander e nel corso di lezioni Parmenides, cincischiava di “dike” e di “polis”, spacciando la prima per la “con-venienza” (die Füge) della totalità dell’essente nell’ineffabile “Essere” (das Sein), e la seconda per il “polo” intorno a cui si svolge il circolo dell’essente stesso (ovviamente, un altro nome per l’indeterminato “Essere”; quest’ultimo, com’è risaputo presso la parrocchia heideggeriana, nel pensiero di quello che Thomas Bernhard chiama la “vacca sacra” friburghese, cambia senza soluzione di continuità infiniti travestimenti e maschere, neanche fosse Arsenio Lupin).
Insomma, oltre alla lettura della Politica di Aristotele o della Repubblica platonica (opere di cui Arendt stravolge, falsandolo completamente, il senso patente: in claro non fit interpretatio), de La guerra del Peloponneso di Tucidide o delle Elleniche di Senofonte, basta rivolgersi alla spassionata consultazione della Storia greca di Musti, de La città divisa di Loraux o de L’uomo greco curato da Vernant – per citare solo alcuni degli autori antichi e dei seri storici contemporanei della grecità – per disfarsi, nel peggiore dei casi, in poche ore di questi aborti esegetici arendtiani, nietzscheani e heideggeriani, che nulla hanno a che fare con la vera storia e con la vera filosofia greche. Si tratta, in estrema sintesi, di un “ritorno ai Greci” contro i greci (cioè, quelli storicamente esistiti!).
Proprio perché tutto ciò è arci-stra-noto, in particolare a chiunque sia estraneo alle tre suindicate parrocchie filosofiche, non ci sembra il caso di sparare sulla proverbiale croce rossa e di insistere, quindi, eccessivamente sul fatto che, lungi dal trattarsi di una società fondata sullo schiavismo più brutale e incondizionato – come cercano di darla a bere Nietzsche e Arendt ai loro lettori creduloni – la società greca, sia in età arcaica che, seppur con alcune differenze interne politico-costituzionali (es. aristocrazia egualitaria spartiate, democrazia soloniano-clisteniana ateniese, etc.) in età classica, risulta contraddistinta da un modo di produzione di piccoli produttori e proprietari indipendenti, dove, certamente sono presenti anche gli “schiavi” (doûloi), ma questi ultimi non costituiscono affatto la base materiale principale dell’economia greca, almeno fino alla piena età ellenistica.
Tutto ciò era ampiamente risaputo presso alcuni degli autori moderni che hanno fornito solide interpretazioni storico-filosofiche del mondo greco classico, come Hegel e Marx. Il primo, ad esempio, nelle sue Lezioni di storia della filosofia, dimostra di sapere perfettamente che la filosofia greca non nasce certo dalla sciocca curiosità di piccoli chimici, fisici e biologi dilettanti che si meravigliano, adoranti e a bocca aperta, dei cosiddetti “fenomeni naturali”, bensì dalla rottura o scissione (Trennung) che conduce alla rovina la concreta comunità politica (koinonía, politéia, Gemeinschaft), separando l’universale (la polis) dal particolare (i polítes, i cittadini, ridotti così a idiótes, individui isolati), a causa dell’insorgere dell’illimitatezza indeterminata (ápeiron) della strapotenza smisurata (pleonexía) delle ricchezze e del potere politico oligarchico-tirannico. La filosofia, secondo Hegel, nell’età greco-classica (come nella Modernità), ha il compito (Aufgabe) di ricomporre idealmente la comunità scissa e dissolta a seguito della deflagrazione della passata “potenza di unificazione” (Macht der Vereinigung) universale, ormai inabissatasi. Certo, in quest’opera di riunificazione ideale e storico-politica, come risulta perfettamente evidente dalla Metafisica e dalla Politica di Aristotele, l’individuazione del nuovo metron, della verità filosofica (orthótes, alétheia) quale nuova misura etico-comunitaria della distribuzione (nomos, némein) delle ricchezze (chrémata) e del potere politico (kratos), deve fondarsi su di un’arché naturale, cosmica, che ne garantisca la giustizia stabile, immutabile, tendenzialmente assoluta nei suoi principi programmatici (anche se non nelle sue disposizioni contingenti, particolari e transeunti), dunque su un’arché situata nell’essente che in sé possiede il principio del proprio movimento (physis).
Naturalmente, per Aristotele, nel seno della physis, sul cui sfondo si staglia la vita della polis, è implicito il movimento (kinesis), regolato dalla logica potenza-atto (dynamis-enérgheia), della stasis (lotta delle classi, guerra civile) che provoca le trasformazioni costituzionali dei regimi politici (metabolái) che rimodulano continuamente, in modo anaciclico, le storicamente instabili strutture comunitarie, principalmente a causa dell’illimitatezza delle ricchezze acquisite dalle cricche oligarchiche (che spesso danno vita a tirannidi, che, però, per Aristotele, scaturiscono spesso e volentieri anche dalla “democrazia”, ossia dal governo della massa dei poveri). Perciò, sbaglia Preve quando, nella sua Una nuova storia alternativa della filosofia, riduce l’ontologia naturale greca a mera metafora dell’ordinamento politico storicamente dato, poiché la ricomposizione ideale della comunità politica attuata dalla filosofia (nonché, con altri mezzi, dalla mitologia e, come mostra Ieranò in Atene in scena, dal teatro tragico) consiste proprio nel tentativo di saldare, in modo incontrovertibile, la struttura dell’ordine cosmico-eterno della physis e dell’aión a quella dell’ordine politico-comunitario del nomos e del chronos (che “separa l’essere dall’essere”, come scrive Parmenide), in un solo armonico sistema, ove l’uno riecheggia e completa l’altro in un unico, grandioso contrappunto cosmico-comunitario.
Anche Marx ha perfettamente presente la cifra caratteristica della struttura sociale del mondo greco dell’età arcaica, consolidatasi come tale in età classica, quale modo di produzione di piccoli produttori e proprietari indipendenti (cioè soprattutto contadini e artigiani), tant’è che alla fine del Capitolo XI (dedicato alla Cooperazione) del Libro I di Das Kapital, così scrive:«La piccola economia contadina e l’esercizio artigiano indipendente (…) costituiscono allo stesso tempo il fondamento economico della comunità classica nella sua epoca migliore, dopo che si fu disciolta la originaria proprietà comune orientale, e prima che la schiavitù si fosse impadronita seriamente della produzione».
- “Studiate il greco e il latino!”
Pertanto, una volta acclarato che i fantomatici “Greci” di Hannah Arendt (nonché quelli di Nietzsche e di Heidegger) non sono mai esistiti, ed essendoci ormai emancipati dalla folkloristica retrodatazione alla classicità greca del mitologema astratto e criminaloide del public speech amministrato e manipolato dalle oligarchie dominanti, i cui ranghi sono formati da “bestie bionde” come gli imprenditori capitalisti assassini e dai loro sodali ed esecutori politici corrotti e analfabeti (nonché altrettanto assassini e genocidari), garantiti in questa sacrale “azione di concerto” dalla schiavitù salariata e precaria generalizzata e universale – ebbene, una volta accertato tutto ciò, sembra perfino lapalissiano spiegare le cause del successo sociale duraturo della tesi arendtiana sui cosiddetti “Greci”.
La retrodatazione del meraviglioso mondo del capitalismo assoluto e idolatrico, in cui ci tocca vivere, all’epoca della classicità greca, è uno degli strumenti ideologici adottati dalla fazione ampiamente maggioritaria della servile intellettualità universitaria, prona al Capitale, per eternizzare l’ordine sociale, economico e politico presente, in modo da provocare l’interiorizzazione generalizzata di questa menzogna, che annienta il processo storico reale e, quindi, la specificità delle epoche e dei modi di produzione sociali, nel turbine indifferenziato del capitalismo eterno (non mancano infatti sedicenti “antropologi” che hanno naturalizzato il capitalismo a tal punto da reputare già capitalistico il Neanderthal e, talvolta, l’Australopiteco…).
Niente di più utile perciò, al fine di promuovere quella che Lukács, nei Prolegomeni all’ontologia dell’essere sociale, definisce la società della manipolazione universale, di una rappresentazione antistorica e astorica dei “Greci” raffigurati come piccoli capitalisti in erba, compromettendo così alla radice l’intelligibilità delle fondamenta greche della civiltà europea (che, al netto della vulgata propagandata dall’islamofobia imperante, oltre ad essere greco-latine e giudaico-cristiane, sono anche arabo-islamiche).
Che qualunque visione politico-sociale e filosofica alternativa al capitalismo eterno propugnato da Arendt, venga, pertanto, tacciata per direttissima di “totalitarismo” (il più celebre degli pseudo-concetti per nullafacenti), come frutto ideologico della strategia – verbalistico-fraseologica e del tutto de-storicizzata – dell’equiparazione di comunismo e nazionalsocialismo, non deve sorprendere. La reductio ad Hitlerum (o ad Stalin) legittimata da Le origini del totalitarismo, è diventata dagli anni ‘50 del Novecento fino agli ultimi fatti in Palestina, lo strumento ideologico più efficiente per condannare aprioristicamente tutti i movimenti popolari e comunitari di resistenza all’imperialismo capitalistico barbarico, bollati iuris et de iure come “totalitari” dal sistema unificato dei sicofanti mediatici e degli apparati sacerdotali universitari, ossia dalle protesi ortopediche della Tribù Occidentale (ma anche di quelli della non meno spregevole, capitalistica e imperialistica, Tribù Russo-Cinese). Che l’ideale sequel de Le origini del totalitarismo, sia senz’altro il suo libro su Karl Marx, dove Arendt oltre a ribadire le sue storielle sui “Greci”, lancia un sacro anatema all’indirizzo di Marx poiché, a suo parere, già conterrebbe in nuce la “violenza totalitaria” poi messa in atto dal demoniaco criminale baffuto Stalin, credo dica abbastanza sull’orientamento ideologico complessivo di uno pseudo-pensiero che, in effetti, con la filosofia non ha granché da spartire.
In definitiva, la morale de l’histoire che fa da epilogo alla nostra ben poco edificante e convenzionale “celebrazione” di Hannah Arendt, potrebbe essere – detta davvero in soldoni – la seguente: parlare dei Greci, oggi, non è un’operazione “culturale” neutrale. Un’interpretazione storico-filosofica della grecità classica, volta a ristabilire, nella sfera concettuale e (quindi) in quella della concreta attività paidetica, sia universitaria che scolastica, la fisionomia storica effettiva dell’etica comunitaria e della filosofia naturale e politica (soprattutto) dell’età greco-classica, diventa oggi, non una delle tante strade, ma la via maestra per pensare la ricomposizione razionale della comunità politica, a partire dall’oltrepassamento, per via rivoluzionaria, ossia, pratico-critica, come scrive Marx nelle Tesi su Feuerbach, della pseudo-comunità alienata e barbarica del capitalismo idolatrico assoluto ove, disgraziatamente, tocca vivere a tutti noi poveracci.
In chiusura, un aneddoto. Forse, per una volta, Kojève ebbe ragione quando, agli studenti sessantottini di estrema sinistra che gli domandavano che cosa potessero fare concretamente per contribuire alla rivoluzione anti-capitalistica, il vecchio russo così rispose: “Studiate il greco e il latino!”.
ENDOXA - BIMESTRALE FILOSOFIA Andrea Raciti Endoxa novembre 2025 Hannah Arendt
