HANNAH ARENDT CONTRO LO SCARICABARILE DELLE RESPONSABILITÀ

FABIO CIARAMELLI

Ci sono svariate ragioni che rendono ancora attuale il pensiero di Hannah Arendt – e, più in generale, ciò che si suol definire la sua “prestazione scientifica” – a cinquant’anni dalla morte, che la colse più o meno improvvisamente a sessantanove anni, impendendole di terminare La vita della mente. Il progetto di questo libro prevedeva, dopo l’analisi del pensare e del volere, una terza sezione dedicata al giudicare. Come si sa, di questa terza parte l’autrice riuscì a scrivere solo la prima pagina, col celebre esergo in latino “victrix causa diis placuit, sed victa Catoni” (la causa vittoriosa piacque agli dei, ma quella sconfitta piacque a Catone). E tuttavia, pur non avendo potuto trattare del giudizio – cioè dell’umana capacità di giudicare – in maniera dettagliata, tanto da farne un’intera sezione della sua ultima opera (pubblicata postuma), Hannah Arendt ci ha lasciato, nei suoi scritti precedenti, un insieme coerente di riflessioni illuminanti al riguardo, la cui discussione consente di lumeggiare qualcuna delle ragioni in forza delle quali, a mio avviso, il suo insegnamento è ancora attuale.

Diciamo subito che, nell’ottica arendtiana, la problematica coinvolta dalla facoltà di giudicare riguarda le azioni umane: riguarda, a rigore, la specificità di queste ultime che la stessa Arendt ha insegnato a intendere come capacità d’essere origine, cioè di dar inizio a qualcosa di nuovo di propria iniziativa. Questo modo di concepire l’agire – e soprattutto l’irriducibilità di quest’ultimo all’esecuzione d’un compito desumibile da un insieme di regole astratte e predeterminate – fa sì che l’attività mentale del giudicare non possa riferirsi ad esso allo stesso modo in cui, come accade in ciò che Kant chiamava giudizio determinante, l’intelletto “giudica”, cioè conosce, il caso particolare, inscrivendolo nella regola generale che gli corrisponde (perché già da sempre lo prevede). Sennonché, all’originalità delle azioni umane non fanno pendant regole generali preesistenti, capaci di dare alle azioni un ordine oggettivo, che ne potrebbe scientificamente spiegare, se non fondare la prevedibilità. Questa difficoltà è enormemente accresciuta di fronte all’enormità del totalitarismo, la cui inedita mostruosità è stata resa possibile dalla perdita del senso comune connessa all’isolamento degli individui, dal momento che “solo degli individui isolati possono essere dominati totalmente” [“La natura del totalitarismo: un tentativo di comprensione” (1954), in Archivio Arendt, 2 (1950-1954), trad. P. Costa, Feltrinelli 2003, p. 127].

Più precisamente, la perdita del senso comune e la diffusione dell’isolamento (loneliless) rendono impraticabile, nei confronti del totalitarismo, il giudizio determinante, cioè la sussunzione del caso particolare sotto una regola generale. In conseguenza di ciò, la capacità di giudicare non può che prender di mira il significato e il valore dei singoli atti ed eventi umani, ai quali va riconosciuta la responsabilità d’aver dato origine a qualcosa di nuovo. Come scrive Hannah Arendt verso la fine d’un suo articolo sulla difficoltà della comprensione, “anche se abbiamo perso i parametri con cui misurare e le regole sotto cui sussumere il particolare, un essere la cui essenza è l’inizio (a being whose essence is beginning) può avere abbastanza originalità dentro di sé per comprendere senza categorie preconcette e giudicare senza l’ausilio di quell’insieme di regole consuetudinarie in cui consiste la moralità” (ivi, p. 96).

Va ora aggiunto che l’angolo di visuale specifico, connesso all’attività mentale esercitata dal giudicare, si rivolge in prima battuta all’accertamento e alla descrizione dell’originalità delle azioni (giudizio di fatto), ma non si limita a questo livello né a questo compito. La capacità di giudicare comporta altresì una presa di posizione sul significato di quelle azioni, un significato che si rivela a sua volta altrettanto originale e irriducibile all’applicazione di regole generali. In tal modo, al giudizio di fatto s’aggiunge il giudizio di valore, consistente nell’accompagnare il resoconto dell’accaduto, da ricostruire e descrivere nella sua oggettività, con l’interrogazione filosofica sul suo significato.

Con ciò che Hannah Arendt chiama ricerca del significato (“quest for meaning”: La vita della mente, a cura di A. Dal Lago, Il Mulino 1987, pp. 95-97) non si tratta più solo di determinare il contenuto fattuale dell’agire umano, ma si tratta soprattutto di giudicarlo, cioè di prendere posizione sul suo valore. Facciamo un esempio: dopo l’invasione nazista della Francia, tra il 1940 e il 1944 la parte meridionale del Paese fu governata dal regime di Vichy, guidato dal maresciallo Pétain. Si trattò d’un regime “collaborazionista”, caratterizzato da neutralità militare, ma non politica, a causa delle sua dipendenza dai tedeschi, e perciò caratterizzato da autoritarismo, leggi razziali antiebraiche, deportazioni e via elencando. Fin qui la descrizione d’un dato di fatto, che però è ovviamente diverso da un fatto naturale, quale un terremoto o un’eclissi lunare. Infatti, solo nel caso degli eventi umani entrano in gioco comportamenti che sono la conseguenza di un mutamento deliberato del corso delle cose, e che perciò avrebbero potuto seguire un’altra direzione. Per quanto riguarda i fatti naturali, nonostante i tanti progressi dei saperi scientifici, non in tutti i casi se ne conoscono a sufficienza le premesse. Per esser chiari, le eclissi sono prevedibili, i terremoti no (o non ancora). In ogni caso, a differenza dei fatti naturali, di tutti i fatti naturali (di quelli prevedibili e degli altri), il poter-essere-altrimenti che caratterizza l’agire ha questo di specifico, che esso presuppone un’ineludibile responsabilità umana, sulla quale s’esercita la capacità di giudicare, interrogandone il senso, ossia valutandola, cioè prendendo posizione sul suo valore. Ecco perché è possibile e doveroso far seguire al giudizio di fatto (nel nostro esempio, la descrizione del regime di Vichy come regime collaborazionista) un giudizio di valore, cioè un’esplicita valutazione critica della natura criminale dei comportamenti e delle azioni umane che vi ebbero luogo.

Ricapitoliamo brevemente. Riflettere sulle implicazioni tanto filosofiche quanto politiche della capacità di giudizio – e innanzitutto sulla condizione di possibilità di un’attività mentale come quella relativa al giudicare, cioè al prendere posizione sul significato e sul valore delle azioni – significa mettere al centro del pensiero non più solo l’accesso alla verità e alla sua incontrovertibile necessità, ma innanzitutto l’interrogazione sul suo significato.

La persistente attualità della proposta globale di Hannah Arendt consiste a mio avviso in questa decisa deviazione dalla più ricorrente e al tempo stesso più riuscita e spesso tanto apprezzata occupazione dei pensatori di professione, attratti dalla necessità piuttosto che dalla libertà (cfr. La vita della mente, p. 347), sedotti cioè dall’essere-così-e-non-altrimenti della realtà (che essi presumono direttamente accessibile all’intuizione filosofica) e perciò sospettosi e diffidenti rispetto al poter-essere-altrimenti dell’umano (mai riconducibile ad un’unica determinazione concettuale).

A questo riguardo, Hannah Arendt invita a mettere al centro dell’attenzione l’innegabile e imprescrittibile responsabilità degli esseri umani, che troppo spesso si tende a considerare inesistente, ininfluente o del tutto marginale. Ciò che rende particolarmente degne di attenzione le implicazioni filosofiche dell’opera di Hannah Arendt, è esattamente la sottolineatura critica dell’attrazione per la necessità, vera e propria déformation professionnelle dei filosofi, che svolge un ruolo centrale nel disconoscimento della responsabilità umana. Disconoscimento che poi accompagna quella che Arendt individua come “diffusa paura del giudicare” e che la sua opera contribuisce a denunciare e superare, ribadendo (per esempio in un testo del 1964 sulla “responsabilità personale sotto la dittatura”) il nesso filosofico, spesso trascurato, tra “il problema del diritto e la capacità di giudizio” (Responsabilità e giudizio, a cura di J.Kohn, trad. D.Tarizzo, Einaudi 2004, p. 16)

In un testo di poco successivo su “Alcune questioni di filosofia morale”, può leggersi quanto segue: “È questa l’innegabile grandezza del diritto: esso ci costringe a focalizzare la nostra attenzione sull’individuo, sulla persona, anche nell’epoca in cui tutti si considerano più o meno come ingranaggi di una grande macchina […]. Lo scaricabarile delle responsabilità, uno scaricabarile pressoché automatico nelle società moderne, trova sempre un punto d’arresto sulla soglia del tribunale” (ivi, p. 48). Dietro la propagazione d’una generalizzata irresponsabilità, cui fa da contraltare la “tendenza, così diffusa, a non voler giudicare affatto” (p. 126), si cela il dubbio (sospetto o speranza?) che nessuno sia libero, cioè che nessuno avrebbe potuto agire diversamente. Ma proprio questa possibilità è la premessa della responsabilità e quindi della capacità di giudicare.

Se la filosofia politica tradizionale tende a far derivare la dimensione politica della vita umana dalla necessità, su cui poi s’esercita lo sforzo conoscitivo della teoresi che mira all’accesso diretto alla presunta semplicità dell’origine necessitante, Arendt intende invece ricondurre la politica alla capacità umana di agire, il che significa ricondurla alla capacità d’interrompere una serie predeterminata di eventi, di cui nessuno possa e debba in ultima analisi rispondere. Se si disconosce questo punto fondamentale, non si finisce soltanto col considerare qualunque atto o comportamento umano come intrinsecamente “innocente”, in quanto conseguenza automatica d’uno stato di cose precedente, ma si finisce col negare la stessa originalità dell’azione, la capacità umana d’agire in modo diverso da come ci si sarebbe aspettati. In tal modo viene distrutta una specificità fondamentale degli atti umani, cioè la capacità di darvi inizio di propria iniziativa che ne costituisce l’origine. Ciò che è in gioco nello scaricabarile delle responsabilità è proprio questo carattere generativo dell’origine, disconosciuto, messo in causa e in ultima analisi annullato non solo dalla società di massa, ma dalla stessa ossessione per l’origine necessitante che caratterizza tanta parte della tradizione filosofica. Da qui l’amara ironia d’una osservazione puntuale che si legge nel paragrafo sulla “vittoria dell’animal laborans” nelle ultime pagine di Vita activa: “Il problema [trouble] delle moderne teorie del comportamento [theories of behaviorism] non è che siano sbagliate, ma che potrebbero diventare vere, che sono realmente la miglior concettualizzazione possibile di certe evidenti tendenze della società moderna” (Vita activa. La condizione umana, trad. S.Finzi, Giunti/Bompiani 2017, p. 339).

Il rifiuto della generatività dell’origine era già al centro d’un bel un saggio su Franz Kafka, pubblicato nel 1944 in occasione del ventennale della morte del grande scrittore ceco. Dopo aver ricordato che l’avvocato che assiste K. nel Processo “gli dice subito che la sola cosa sensata da fare è di adattarsi alle condizioni esistenti e non criticarle”, Arendt aggiunge che il cappellano del carcere cui egli si rivolge per un consiglio gli fa dapprima un pistolotto sulla segreta grandezza del sistema dominato dalla burocrazia moderna, per poi ingiungergli di non cercare la verità, “perché non è necessario accettare tutto come vero”, basta invece “accettarlo come necessario”. (Archivio Arendt 1, p. 106). “Cercare la verità” per il cappellano del carcere ovviamente non significa dedicarsi astrattamente alla filosofia speculativa, ma interrogarsi sul significato degli atti umani. Ed è proprio questo tipo di atteggiamento critico che – nell’universo retto dall’implacabile funzionalità della burocrazia – bisogna assolutamente evitare, perché quell’interrogazione potrebbe far emergere la genesi sociale degli atti umani, finendo col metterne pericolosamente in discussione l’intrinseca necessità. Tanto l’avvocato quanto il cappellano invitano K. ad attenersi a un tipo di comportamento funzionale, assuefatto al sistema: il solo comportamento sensato perché prevedibile. Nel seguito del saggio Arendt mostra come la strutturazione misteriosa ma intoccabile e insindacabile dell’universo kafkiano non costituisca affatto una “previsione triviale, ancorché psicologicamente interessante, di un mondo a venire”, ma sia invece “una sobria analisi di strutture nascoste che oggi sono venute alla luce” (pp. 109-110). Negli interstizi della società moderna, prima dell’avvento del totalitarismo, Kafka era riuscito a vederne le premesse nell’annullamento sistematico del poter-essere-altrimenti dell’agire umano, cioè nella riduzione di quest’ultimo alle necessità inderogabili dei comportamenti funzionali. Precisa Arendt: “Le parole del cappellano del carcere nel Processo chiariscono che la fede dei burocrati è fede nella necessità, di cui essi stessi sono i funzionari” (p. 110). Ne risulta uno spietato meccanismo di cui cade vittima K., e la forza di questo meccanismo – aggiunge Arendt – “sta precisamente, da un lato, in questa apparente necessità e, dall’altro, nell’ammirazione delle persone per la necessità” (p. 106). Chi si attiene assuefatto alle cosiddette leggi del processo storico, come conclude Arendt una recensione del 1946, “fa solo ciò che sarebbe accaduto comunque”, con la conseguenza che lo stesso terrore finisce con l’apparire unicamente “come una conclusione logica” (ivi, p. 237).

Se si resta ancorati all’ossessione dell’origine e della necessità di quest’ultima che rappresenterebbe la premessa logica d’una inevitabile concatenazione di eventi, viene meno l’eventualità stessa dell’agire umano. Quest’ultimo si riduce al comportamento prevedibile, cioè alla messa in opera già predeterminata d’una verità necessaria. Da qui, secondo Hannah Arendt, la grandezza e l’estrema originalità di Kafka: “Ciò che fa apparire Kafka così moderno e allo stesso tempo così diverso dai suoi contemporanei è proprio il suo rifiuto di sottomettersi agli eventi” (p. 115).

Rifiutare di sottomettersi agli eventi significa rivendicare il carattere generativo ma non necessitante dell’origine, che dà inizio a una serie di eventi, i quali però non sono riducibili all’esecuzione o realizzazione d’un insieme di regole predeterminate. La capacità di giudizio è l’altra faccia dell’azione così intesa, poiché consiste nel prendere posizione sul significato e sul valore degli atti umani, cioè di quegli atti alla cui base è da presupporre l’assunzione d’una responsabilità soggettiva connessa al mutamento deliberato del (presunto) ordine naturale delle cose. L’ossessione dell’origine, la considerazione di quest’ultima come d’una premessa necessitante e paralizzante, d’una premessa che conterrebbe in sé la serie successiva degli eventi, di cui nessuno dovrebbe poter rispondere, può essere superata e sconfessata solo se si riesce a mostrare nel cuore stesso dell’origine il lavorio di complicazioni, tensioni, spaccature. Ciò che Hannah Arendt chiamava “smantellamento della metafisica” e nel cui solco inscriveva la sua opera (cfr. La vita della mente, p. 306) comporta lo smantellamento del carattere necessitante dell’origine, dalla cui presunta immediatezza dovrebbe derivare automaticamente e insindacabilmente il flusso immodificabile del reale. Ed è un simile smantellamento che fa emergere il nesso indissolubile tra inizio e giudizio, al centro del suo pensiero dalle riflessioni fondamentali e fondatrici sulle premesse del totalitarismo fino allo scritto incompiuto sulle attività mentali

ENDOXA - BIMESTRALE FILOSOFIA

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