HANNAH ARENDT E IL VALORE POLITICO DELLA NASCITA:DIFENDERE L’UNICITÀ NELL’ERA DELLA PROGRAMMAZIONE GENETICA
MAURIZIO BALISTRERI
Per Arendt, la natalità non è soltanto un fatto biologico, ma la categoria filosofica decisiva per comprendere l’umano: ognuno di noi entra nel mondo come un inizio radicale, come la possibilità di spezzare la continuità del già dato e di aprire scenari imprevedibili. La nascita è il luogo in cui l’essere umano manifesta, nella forma più elementare e pura, la sua capacità di inaugurare qualcosa che prima non c’era. È l’epifania della libertà come potenza di iniziare. Ed è proprio qui che si inserisce la critica femminista: mentre la filosofia occidentale ha celebrato l’idea di inizio come cifra dell’umano, ha sorprendentemente taciuto sull’esperienza concreta che rende possibile ogni inizio, cioè la gravidanza e il parto. L’evento che Arendt eleva a segno assoluto dell’umano è stato trattato, nei discorsi filosofici e bioetici, come un semplice sfondo naturale, un processo quasi automatico privo di spessore etico, politico e simbolico.
Questo silenzio non è casuale – riflettono molte filosofe – ma espressione di una cultura che guarda alla morte come spazio privilegiato di scelta, libertà e significato, mentre considera la nascita come un ambito naturale, privo di agency e quindi di umanità. Come osserva Virginia Held, la nostra tradizione ha costruito la morte come il luogo in cui l’essere umano può decidere, sacrificarsi, impegnarsi per valori, promettere, difendere il futuro. Morire può essere un atto di libertà e addirittura di grandezza. “Possiamo superare – scrive la Held – le nostre paure e morire coraggiosamente. Possiamo morire per cause nobili e morire coraggiosamente. Possiamo morire per lealtà, per dovere, per una promessa. Possiamo morire per un futuro migliore, per noi stessi, per i nostri figli, per il genere umano. Possiamo morire per dar vita a una nazione, oppure alla democrazia, o per porre fine alla tirannia e alla guerra. Possiamo morire per Dio, per la civiltà, per la giustizia, per la libertà. Gli animali non umani non possono morire per alcuna di queste cose; il fatto che gli esseri umani possano è una parte importante e forse essenziale di ciò che significa esseri umani” (Etica femminista, p. 126).
Al contrario, la nascita è stata quasi sempre rappresentata come un processo naturale, biologico, in cui le donne appaiono “vicine alla natura” e dunque meno libere, meno agenti, meno umane. Il parto, la gravidanza e la cura che ne deriva sono stati interpretati come funzioni naturali, non come azioni dotate di senso morale o politico. Da qui l’idea – profondamente radicata – che la riproduzione appartenga all’ordine della necessità e non a quello della libertà. “La nascita – scrive ancora Held – viene descritta come un processo naturale, biologico. Il fatto di dare alla luce un bambino renderebbe le donne, dicono, ‘essenzialmente’ vicine alla natura, simili ad altri mammiferi in questo processo cruciale della loro vita. Le cure materne prestate da una madre umana sono viste come una sorta di estensione dell’evento ‘naturale’, biologico del parto. Si pensa che le donne si impegnino nell’attività di accudire il bambino perché gli hanno dato la vita e che la cura materna dovrebbe essere inserita nell’ambito di “naturale” (pp. 126-127). Nella nascita, cioè, non si mostrerebbe la nostra capacità di sollevarci sulla natura, piuttosto la nostra dipendenza da una natura ed animalità che minaccia la nostra umanità.
Se, però, come insegna Arendt, la natalità è davvero la cifra dell’umano, allora la nascita non può essere ridotta a un fatto naturale mentre la morte viene elevata a evento umano per eccellenza. Il “mettere al mondo” è esso stesso un atto umano, carico di significati, scelte, responsabilità, vulnerabilità e relazioni.
Capire questo significa riconoscere che non esiste inizio senza chi rende possibile l’inizio, e che l’esperienza della gravidanza e del parto deve entrare a pieno titolo nello spazio della filosofia e della riflessione bioetica. Dobbiamo, cioè, restituire alla nascita – e ai corpi e alle voci di chi partorisce – lo stesso statuto di umanità, libertà e significato che abbiamo sempre attribuito alla morte.
Proprio su questo insistono alcune filosofe femministe. Dietro una gravidanza non c’è un impulso cieco, ma la decisione consapevole di una donna che fa una scelta. Per questa ragione, la nascita non è paragonabile all’evento naturale degli animali: è un gesto motivato, intenzionale, carico di senso. E le motivazioni di questa scelta – e la libertà implicita in essa – dovrebbero essere parte integrante della nostra idea di umanità almeno quanto lo sono la morte e il progetto di una vita buona.
Queste stesse filosofe, inoltre, ci invitano a riconoscere che anche il parto e la gravidanza – spesso trattati come eventi puramente naturali – contengono spazi reali di scelta e di libertà. È vero, come ricorda Caterina Botti, che molte pratiche mediche tendono a marginalizzare la donna, trasformando il parto in un processo incentrato sui medici o sul neonato. Tuttavia, proprio in risposta a questa riduzione, sempre più donne rivendicano il diritto di essere protagoniste del proprio parto, di decidere e di essere riconosciute come soggetti attivi di questo evento, oltre che “capaci di gestire la responsabilità connesse alla scelta di mettere al mondo, modificando la rappresentazione del parto” (Madri cattive, p. 142). Anche il parto, in altri termini – che si presenta tradizionalmente una situazione, per sua natura, sottratta a qualsiasi possibilità di scelta – può essere umanizzato, facendo emergere e mostrando quegli spazi di libertà che l’attraversano.
C’è però un altro aspetto su cui vorrei soffermarmi dell’analisi arendtiana sulla nascita. Se la nascita è per Arendt l’atto politico per eccellenza perché inaugura un soggetto irriducibilmente altro – un essere che, arrivando, cambia il mondo semplicemente con la sua presenza non prevista – le nuove tecnologie riproduttive rischiano di appiattire tale alterità, riducendo la portata dell’imprevisto. L’ingresso del nuovo verrebbe così mediato da un progetto già scritto, che non lascia molto spazio a ciò che Arendt considerava l’essenza dell’umano: la capacità di cominciare qualcosa che nessuno aveva immaginato. Là dove, cioè, Arendt vede nella nascita l’ingresso di qualcosa di radicalmente nuovo e non programmabile, la medicina riproduttiva contemporanea tende invece a trasformare il nascere in un evento calcolabile. Si passa dalla “natalità” come fioritura dell’inedito alla “natalità” come processo da ottimizzare, anticipare e, in prospettiva, progettare. Ed è precisamente in questa direzione che interviene Habermas. Le sue critiche al tentativo di predeterminare le caratteristiche del nascituro potrebbe alterare il rapporto simmetrico tra le generazioni: il figlio non arriverebbe più come autore della propria vita, ma come il risultato – almeno in parte – di un progetto altrui. Questo crea, afferma Habermas, una dipendenza irreversibile: chi nasce si troverebbe in una condizione simile a quello dello schiavo, in quanto non potrebbe né contestare né rivedere le scelte dei suoi genitori che hanno inciso sulla sua costituzione genetica. La relazione originaria diventa così una forma di paternalismo inscritto nel corpo stesso, sottraendo al nuovo venuto quel margine di spontaneità e auto-comprensione che permette a ciascuno di vedersi come membro eguale della comunità morale.
Le preoccupazioni di Habermas sul rischio di un’“eugenetica liberale” appaiono oggi ancora più fondate alla luce degli sviluppi più recenti. Negli ultimi anni, la medicina riproduttiva si è spostata progressivamente oltre la diagnosi delle patologie monogeniche, concentrandosi sulla possibilità di selezionare gli embrioni sulla base di predizioni relative a tratti poligenici – includendo, almeno in prospettiva, anche caratteristiche cognitive o fisiche considerate desiderabili. Il primo caso documentato di selezione embrionale basata su tratti poligenici risale al 2020 e si è avvalso dei test forniti da Genomic Prediction, una delle prime aziende a offrire questo tipo di servizi. Da allora, realtà come Orchid Biosciences hanno ampliato l’offerta di screening genetici capaci di combinare migliaia di varianti per calcolare punteggi di rischio poligenico associati a malattie cardiache, diabete, schizofrenia o livelli di capacità cognitiva (The Guardian, 18 ottobre 2024).
Nel frattempo, comunque, i sistemi predittivi per tratti poligenici stanno iniziando a includere anche caratteristiche prive di un immediato rilievo medico. Alcune startup, come Heliospect Genomics, offrono pacchetti da 50.000 dollari rivolti a chi desidera valutare la predisposizione genetica dei propri embrioni per tratti come il quoziente intellettivo (The Guardian, 18 ottobre 2024). Servizi analoghi sono proposti da Nucleus Genomics, che ha lanciato una piattaforma software in grado non solo di effettuare uno screening su oltre 900 malattie – tra cui Alzheimer, diabete di tipo 2, patologie cardiache e diverse forme tumorali – ma anche di indicare quali embrioni presenterebbero, secondo le loro stime, una maggiore “intelligenza” (New York Post, 6 giugno 2025). Oltre a ciò, i genitori possono ricevere informazioni su predisposizioni genetiche riguardanti altezza, calvizie, colore degli occhi e dei capelli, e indice di massa corporea (New York Times, 7 agosto 2025; The Washington Post, 16 luglio 2025).
È importante ricordare che questi sistemi operano su basi puramente probabilistiche: un punteggio elevato non significa che l’embrione svilupperà necessariamente la malattia o il tratto in questione. Tuttavia, se tali strumenti entrano nei processi decisionali riproduttivi, essi rischiano di trasformare la nascita in un evento sempre meno aperto all’imprevisto e sempre più modellato da criteri di previsione e selezione. È proprio questa riduzione dell’imprevedibilità del nascere – e quindi della possibilità, per il nuovo individuo, di concepirsi come autore della propria vita – che sembra stravolgere lo scenario delineato da Arendt e costituisce il cuore delle preoccupazioni habermasiane.
Inoltre, la recente notizia pubblicata dal Wall Street Journal (Genetically Engineered Babies Are Banned. Tech Titans Are Trying to Make One Anyway, 8 novembre 2025) riguardo all’intenzione di alcune start-up statunitensi (tra cui Preventive) di aggirare – o addirittura forzare – il bando sul genome editing germinale, con l’obiettivo dichiarato di far nascere i ‘primi’ bambini geneticamente modificati, sembra innalzare ulteriormente il livello di allarme attorno alla medicina riproduttiva contemporanea. Secondo quanto riportato, queste società biotech – finanziate tra l’altro da imprenditori della Silicon Valley – starebbero valutando di spostare le proprie attività in Paesi con regolamentazioni più permissive, oppure di operare in zone grigie normative, per sperimentare tecniche di editing della linea germinale che negli Stati Uniti restano formalmente proibite sia per ragioni scientifiche sia per ragioni etiche.
L’aspetto più controverso non riguarda solo la possibilità di correggere mutazioni che causano malattie gravi – un obiettivo già discusso da anni – ma soprattutto l’ipotesi di utilizzare CRISPR e tecnologie affini per introdurre modifiche orientate al potenziamento dei futuri nati. Si parla, ad esempio, di resistenza a malattie comuni, aumento della massa muscolare, maggiore longevità o miglioramento delle capacità cognitive. In altre parole, non semplicemente prevenzione, ma ottimizzazione genetica (quello che un tempo si chiamava eugenetica).
La questione decisiva, a questo punto, è capire se interventi di selezione o modifica genetica possano compromettere – o almeno mettere sotto pressione – quel valore politico della nascita che Arendt attribuisce alla natalità. Da un lato, è ragionevole riconoscere che la libertà e l’autonomia di una persona non possono essere ridotte al suo genoma: nessuno è semplicemente il prodotto dei propri geni, e la biografia umana eccede sempre la sua base biologica. Tuttavia, resta il problema più ampio del tipo di società che potremmo contribuire a modellare. Anche se singole modifiche non annullano l’autonomia del futuro individuo, la generalizzazione di pratiche di selezione dei tratti rischia di condurre verso società progressivamente più uniformi, non solo dal punto di vista genetico ma anche valoriale. Perché scegliere un certo tipo di figlio significa già immaginare – e privilegiare – un certo tipo di essere umano e, quindi, un certo tipo di mondo.
In questo scenario, ciò che Arendt considerava il nucleo politico della nascita (l’irruzione di un essere imprevedibile, irriducibile e capace di inaugurare il nuovo) potrebbe attenuarsi. La natalità rischierebbe così di trasformarsi da evento aperto all’imprevisto a processo regolato dalle aspettative dei genitori, degli algoritmi e delle norme sociali che orientano quali tratti siano desiderabili. Conservare il valore arendtiano della natalità significa allora difendere non solo i diritti dei nascituri, ma lo spazio dell’imprevisto, della diversità e della discontinuità che rende possibile una società autenticamente umana e aperta al nuovo.
BIOTECNOLOGIE ENDOXA - BIMESTRALE FILOSOFIA Endoxa novembre 2025 Hannah Arendt Maurizio Balistreri
