MOB AND CAPITAL: ARENDT SULLA GENESI IDEOLOGICA DELL’IMPERIALISMO

PIER GIUSEPPE PUGGIONI

1. La questione dell’imperialismo torna prepotentemente alla ribalta nello scacchiere internazionale. Apparentemente sepolta nella memoria di un lontano passato, in mezzo alla polvere degli archivi storici, nelle pagine della storia politica (e della storia della filosofia politica), questa categoria si fa avanti con urgenza nell’arsenale interpretativo per intendere lo scenario geopolitico.

Se da un lato permane la convinzione – che anima l’illustre e giustamente discussa tesi di Negri e Hardt – che l’imperialismo moderno sia tramontato al sorgere della nuova alba della globalizzazione e dell’internazionalizzazione, dall’altro non è facile sfuggire alla constatazione che la politica imperialista riprenda a manifestare le sue forme nel nostro tempo. Ciò che appare curioso, e che ora ci interessa, è il fatto che tale manifestazione si presenta con la sovrapposizione di due elementi: da una parte, una componente ideologica, intesa come forma della coscienza sociale connessa ora a un radicamento etnico o biologico, ora a una legittimazione trascendente, teologica o teologico-politica; dall’altra parte, appare del tutto evidente la preminenza dei conflitti materiali, dell’esplosione bellica come momento di appropriazione e controllo della terra, della lotta sanguinosa per le condizioni reali dell’esistenza.

È singolare come proprio l’analisi di Hannah Arendt ospiti una peculiare giustapposizione di questi due elementi che oggi appare assai rilevante per poter tornare a riflettere sull’imperialismo come categoria filosofica, o di filosofia della storia, e sulle sue implicazioni. Sappiamo bene, d’altronde, che nella seconda sezione, intitolata Imperialismo, di Le origini del totalitarismo (1951) l’autrice osserva e inquadra il fenomeno come un momento della storia del rapporto fra borghesia e potere, nonché come evento di genesi e sviluppo di alcuni elementi propri della forma totalitaria.

Nel proporre la storia dell’imperialismo come prodromo del totalitarismo, però, la lettura arendtiana è chiamata a fare i conti con altre prospettive filosofiche (o storico-politologiche) che individuano diversamente il rapporto tra imperialismo, capitale e borghesia. È a quest’altezza che emerge il confronto di Arendt tanto con il socialismo britannico di marca sindacalista e tradeunionista, quanto con il marxismo-leninismo.

2. Alla fine dell’Ottocento John A. Hobson, intellettuale di punta del cosiddetto New Liberalism, aveva riflettuto sull’imperialismo inglese e sul suo violento spirito jingoista: la critica proposta in The Psychology of Jingoism (1901) e nello studio Imperialism (1902), ripresa qualche anno più tardi da L.T. Hobhouse in Democracy and Reaction (1909), tende a ravvisare nell’imperialismo una vanificazione degli sforzi compiuti in politica interna con la legislazione sociale. La democrazia interna sarebbe, cioè, in contraddizione con la politica imperiale portata avanti all’esterno: il socialismo liberale da una parte, il capitalismo dall’altra.

Il capitale, spiega Hobson, ha bisogno di trovare una valvola di sfogo per gli investimenti tesi all’accumulazione e all’accrescimento, e per questo si spinge oltre gli angusti confini del mercato nazionale. Pertanto la borghesia capitalista si serve del potere dello Stato per «perseguire una politica che vada d’accordo con l’urgenza dei [propri] interessi». Arendt raccoglie senz’altro lo stimolo di questa rappresentazione, nel momento in cui afferma che l’imperialismo sarebbe nato «quando la classe dominante nella produzione capitalistica si scagliò contro le limitazioni nazionali alla propria espansione economica». Del resto, se «la struttura politica … non può espandersi all’infinito», ben può farlo quella «economica», poiché «si basa sulla produttività umana, che è invero infinita (unlimited)».

È dagli «investimenti all’estero» che si sarebbe, quindi, generato l’imperialismo. Così nota un’altra eminenza grigia del socialismo inglese (e del riformismo Labour), ossia Harold Laski, per il quale è d’altra parte innegabile la saldatura tra le «avventure imperialistiche» e lo «spirito nazionalista»: esiste, ci dice Laski in Nationalism and the Future of Civilization (1932), una forza motrice nell’ideologia nazionalista che potenzia e alimenta la pratica imperialista dalla quale essa stessa sarebbe sorta. Imperialismo e nazionalismo si rafforzano, dunque, reciprocamente, secondo una tesi che, a ben vedere, si presenta nello stesso ragionamento arendtiano come punto chiave.

È qui, infatti, che entra in gioco il rapporto tra componente ideologica e dimensione materiale nell’intendimento che Arendt ci mostra del fenomeno imperialista: pur riconoscendosi la rilevanza della «struttura economica», qui è una pretesa politica a costituire il motore dell’occupazione territoriale, plasmandone le forme in ragione dell’ideologia borghese nazionalista. Certo, tale pretesa poggia sugli interessi economici dell’«espansione», poiché questo è il «fine permanente e supremo» che ispira l’«idea politica centrale dell’imperialismo». Tuttavia l’«esportazione del denaro» diviene immediatamente «esportazione del potere di governo»: la dinamica economica non è, cioè, sufficiente a formare l’imperialismo, che necessita di un fine, di uno scopo, di una direzione per costituirsi come forma politica, che sorgerebbe addirittura in modo spontaneo e diretto, senza mediazione, dalle mire espansionistiche degli «imperialisti (imperialists)» borghesi.

A segnare questo snodo, allora, non potrebbe che essere la nascita del nazionalismo e dell’ideologia della razza, che rappresentano già in questa fase lo sviluppo dell’ideologia e della sua energia propulsiva. Il nazionalismo della borghesia capitalista è, pertanto, una forma di ideologia che prepara, sì, l’istituzione totalitaria, ma che ancor prima si pone come fattore costitutivo dei rapporti materiali caratteristici dell’imperialismo, e così anche del suo discorso squisitamente giuridico: per Arendt, nel contesto dell’Impero britannico questo momento segna il tramonto dei «diritti dell’uomo», che fa tutt’uno con il trionfo dei «diritti degli inglesi (rights of the Englishmen)».

3, Tutt’altro volto è quello che mostra il fenomeno imperialista e colonialista nel materialismo storico e nel materialismo dialettico. Nel primo libro del Capitale, infatti, il «sistema coloniale» è uno dei metodi attraverso cui si sviluppa l’accumulazione originaria del capitale, ma la declinazione di questa nel colonialismo non può essere immediata, poiché serve una struttura istituzionale atta a superare e razionalizzare le contraddizioni violente che caratterizzano il processo accumulativo. Per Marx, in particolare, nel caso della pratica coloniale non soltanto si assiste al ricorso al «potere dello Stato, violenza concentrata e organizzata della società, per fomentare artificialmente il processo di trasformazione del modo di produzione», ma ciò avviene con la «violenza più brutale», che qui si fa «gravida di una società nuova»: la violenza coloniale «è essa stessa una potenza economica», ma una potenza economica mediata dalla prassi politica dello Stato moderno.

Va detto che la stessa Arendt, cogliendo lo stimolo del «sogno di Marx» come risveglio dell’umanità «dall’incubo della storia», riconosce che l’ideologia del progresso borghese, anima dell’imperialismo, è a sua volta determinata da quel «processo di accumulazione infinita del potere necessario a proteggere l’accumulazione infinita del capitale». Non sembra però che nello sviluppo di un tale processo si trovi la negazione della sua stessa base reale, sicché viene rigettata la nozione materialistica (hegelo-marxiana) di ideologia: per Arendt infatti le ideologie sono gli «ismi» che pretendono di «spiegare ogni cosa ed evento deducendoli da una singola premessa», interpretando la storia come un movimento da sussumere interamente sotto lo sviluppo logico dell’«idea». Ecco allora che da un lato il marxismo e l’hegelismo, quali prospettive che assumono la totalità come chiave di lettura del divenire storico, divengono ideologie, mentre dall’altro lato lo sviluppo dell’ideologia borghese imperialista viene intesa come risultato di un processo lineare e, seppur violento, in realtà privo di contraddizioni.

In questo senso, l’imperialismo acquista significato come la prima «fase del potere politico (political rule) della borghesia», la qual cosa denoterebbe una continuità di fondo nello sviluppo dell’accumulazione capitalistica, vista la tradizione borghese «di considerare le istituzioni politiche esclusivamente come uno strumento per la protezione della proprietà privata»: di contro, ad Arendt appare errata l’interpretazione leniniana del fenomeno come «fase suprema (vysšaja stadija) del capitalismo», che l’autrice rende con «ultimo stadio (last stage)». Per Lenin infatti il «modernissimo capitalismo» aveva intrapreso un cammino spedito verso la propria caratterizzazione monopolistica proprio con «l’esportazione di capitale» all’estero. Con l’imperialismo si assiste all’esasperazione del parassitismo capitalistico dotato del sigillo dello Stato – di cui il leader bolscevico aveva trattato in Stato e rivoluzione (1914), prima ancora che nel saggio sull’Imperialismo (1917) –, che produce una sostituzione dei monopoli alla libera concorrenza, in una misura tale per cui «alcune qualità fondamentali del capitalismo comincia[no] a mutarsi nel loro opposto».

Arendt si mantiene lontana dall’orizzonte materialistico, osservando come in effetti non si possa trascurare la rilevanza della volontà politica della borghesia. Fino all’espansione imperialista, si nota infatti nelle Origini, le classi proprietarie non avevano mostrato il desiderio di controllare il governo, per poi esprimere con crescente veemenza pretese di potere politico. Questa scansione però non è registrata se non come evoluzione empirica, spiegabile attraverso la constatazione della preminenza del politico sui rapporti reali. È proprio in questo senso che Arendt vede in Thomas Hobbes il vero filosofo della borghesia, perché nessuno meglio di lui «realizzò che l’acquisizione di ricchezza concepita come processo infinito poteva essere garantita soltanto dal perseguimento del potere politico», in quanto un tale processo di accumulazione dovrà prima o poi «aprire con forza tutti i limiti territoriali esistenti»: non è un caso che nel Leviathan hobbesiano alla desiderata acquisizione di ricchezza e benessere materiale da parte dell’individuo, che produce la guerra nello stato di natura, corrisponda nello scenario internazionale la costruzione delle «Repubbliche per acquisizione (Commonwealth by acquisition)», con le quali l’espansione geografica si tramuta nell’istituzione dell’ordine politico per conquista.

Peraltro la politica imperialista, rileva Arendt, è diretta dalla volontà della borghesia di espandere, per un verso, il proprio potere politico in territori stranieri, senza per altro verso fondare in quei territori un corpo politico. Il dovere dell’uomo bianco di civilizzare l’estraneo porta, quindi, con sé il diritto di condurlo gradualmente verso l’ordine politico, secondo l’ideologia che prepara i sudditi dell’impero alla propria posizione nel processo sociale. L’imperialismo, quindi, non si limita ad istituire il dominio degli Stati europei sul resto del mondo, ma costituisce e informa i loro caratteri dei loro rapporti secondo l’immagine conforme agli interessi della borghesia.

È quanto sta alla base della nota riflessione di Edward W. Said sull’orientalismo come processo discorsivo che costituisce, insieme, l’Oriente e l’Occidente favorendo il dominio imperialista. Tanto nel caso di Said, quanto in quello di Arendt, la costruzione ideologica della coscienza sociale sembra governare, al fondo, i rapporti reali. Pur traendo origine da essi, l’ideologia vive come di vita propria, muovendosi indipendentemente dalle condizioni materiali che ne pongono le premesse. E tuttavia, potremmo domandarci, come può intendersi storicamente la componente ideologica dell’imperialismo se viene sganciata dalla sua connessione con il processo reale, istituzionale, finanche etico da cui essa si ritiene determinata? Come può il fatto dell’ideologia «borghese», o «imperialista», considerarsi nella sua oggettività senza riferirsi alla distinzione di classe su cui esso riposa?

È chiaro infatti che il dominio politico della borghesia presuppone l’esistenza della borghesia come classe, ossia come situazione materiale comune a più soggetti animati da interessi comuni – quello che nella Miseria della filosofia, riferendosi però alla classe lavoratrice, Marx chiama «classe nei confronti del capitale», che si sviluppa già nella sua oggettività anche se «non [è] ancora per se stessa». In luogo della classe come soggetto del divenire storico, Arendt individua nella massa l’oggetto e insieme il soggetto dell’ideologia imperialista, prima, e totalitaria, poi. È in questo senso, infatti, che si parla dell’«alleanza» che avvince la massamob», la folla, che nella traduzione più nota è la «plebe») al capitale come un sodalizio «all’origine di ogni coerente politica imperialista».

4. L’imperialismo dunque, per potersi fare nella storia quale presagio (foreshadowing) della stagione totalitaria, deve rompere la distinzione delle classi – con buona pace del marxismo, che per Arendt avrebbe trascurato tale fenomeno giudicandolo «innaturale» – per far spazio alla massa e consentirne il controllo attraverso gli apparati ideologici dello Stato (se vogliamo riprendere l’espressione con cui Althusser indicava gli strumenti per la riproduzione del modo di produzione). Il senso concettuale di quest’operazione è chiaro: poiché la massa è sganciata dal riferimento all’appartenenza di classe, è possibile applicare tanto al nazionalsocialismo, quanto al comunismo storico novecentesco e all’Unione sovietica, la categoria del totalitarismo in quanto fondata sullo sfruttamento e sull’organizzazione della «mentalità della massa (mob mentality. La dimensione della classe cederebbe così il passo alla loneliness, cioè all’estraniazione dell’individuo e all’atomizzazione della società (qualcosa di diverso dall’alienazione come espropriazione o Entfremdung nel senso hegelo-marxista), che è quanto serve a far spazio alla politica totalitaria, la quale in questo senso è a livello prototipico una bio-politica, secondo le fortunate e ben note concettualizzazioni di Foucault e della cosiddetta Italian Theory (soprattutto il già citato Negri, Esposito, Agamben).

Ancora una volta Arendt sembra condividere alcune posizioni emerse nel socialismo britannico di inizio Novecento, come quella di Laski, per il quale infatti l’ideologia imperialista non si dà senza il supporto delle masse, posto che ogni ordinamento politico si reggerebbe sulla cattura – legittima o illegittima che sia – del consenso degli individui. È tramite l’appoggio delle masse, garantito dalle forme della democrazia politica, che avverrebbe il tramonto della democrazia sociale, o economica. La filosofia del business-man trionferebbe, così, in una società atomizzata in cui l’imperativo individuale è di accrescere la propria ricchezza nell’isolamento dai rapporti sociali e nella conservazione della sola relazione con l’autorità.

La verità è che la società costruita sulla figura dell’«uomo d’affari», cioè a dire del capitalista, finisce per dismettere le stesse promesse delle grandi rivoluzioni del Settecento in Francia e soprattutto in Nordamerica, o più in generale del liberalismo occidentale, ossia la libertà politica e i diritti umani. D’altronde, osserva mestamente Arendt in Sulla rivoluzione (1963), il vero «sogno americano» non era quello della «fondazione della libertà» o della «liberazione dell’uomo», bensì quello «di una ‘terra promessa’ dove scorrono latte e miele». Ma a questa esasperazione del desiderio ecco che si oppone la garanzia dei diritti dell’uomo – quelli che vedono la fine con l’imperialismo – nella duplice forma del «diritto di avere diritti» (right to have rights) e del diritto di «appartenere a qualche tipo di comunità organizzata» (right to community). Da un lato, cioè, lo Stato di diritto, il rule of law, che dà a ciascuno titolo per essere «giudicato sulle proprie azioni e opinioni»; dall’altro, la democrazia liberale, nella quale la «forza (power)» non rappresenta il «fulcro dell’azione politica» perché è messa al servizio di una «comunità politica».

Proposte simili (e ugualmente problematiche) si presentano nel dibattito contemporaneo e postcoloniale sull’imperialismo. Un riferimento classico a questo riguardo è ancora Said, il quale non a caso in Culture and Imperialism (1993) richiama le tesi di Arendt, oltre a quelle di Gramsci, sulla necessaria produzione di una cultura antagonista a quella generata dal processo imperialistico: tale cultura antagonista altro non sarebbe che quella di un ordinamento laico (secular) dei diritti umani. Ma la forza retorica di un simile discorso, a ben vedere, non va che a vantaggio di ciò che pretende di contrastare, producendo una sostanziale apologia dell’esistente: infatti, pur tentando di emanciparsi – come spiega Arendt – dal richiamo illuminista alla natura razionale dell’uomo, la categoria dei diritti umani non può che aspirare ad una validità e cogenza universale, la qual cosa stride con la constatazione della sua matrice particolare e situata nell’orizzonte liberale, borghese, capitalistica in ultima istanza. Non si vede quindi perché – ma è in realtà una vecchia questione – questa stessa categoria non possa e, anzi, debba venire intesa insieme alle sue contraddizioni, alla luce di quel medesimo processo, caratterizzato dall’egemonia di classe, da cui emergerebbero la loneliness, l’atomismo, l’aggressione internazionale, l’imperialismo.

ENDOXA - BIMESTRALE FILOSOFIA

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