SOPRA IL CONCETTO DI RIVOLUZIONE: CONSIDERAZIONI AI MARGINI DEL PENSIERO DI HANNAH ARENDT

GIUSEPPE IERACI

Settimane fa, passeggiando per il centro di Lubiana nei pressi del Judovski Kulturni Center, sono rimasto colpito da alcune installazioni, delle semplici panchine dalle strutture in ghisa e le assi in legno, il tutto verniciato di candido bianco, sulle quali sono riportate frasi estrapolate – si suppone – da testi di Hannah Arendt. In una si legge: “There is a strange interdipendence between thoughtlessness and evil”. In un’altra: “Violence is an expression of impotence”. Ho poi scoperto, navigando nel web, che diversi siti elencano frasi della Arendt, tra le quali queste stesse, ed è un triste esito per la straordinaria autrice di The Origins of Totalitarianism (1951) e Eichmann in Jerusalem: A Report on the Banality of Evil  (1963) vedere il proprio pensiero ridotto a banalità filosofiche. Tuttavia, non si può negare che per Arendt i temi della gratuità del male, della sua insondabilità, del nesso stretto tra violenza e potere siano fondamentali e ritornino anche in due lavori “complementari” ai precedenti, On Revolution (1963) e On Violence (1969). In particolare, nel saggio sulla rivoluzione i temi del potere e della violenza s’intrecciano in modo dinamico, proprio perché nella rivoluzione l’uso della violenza e del potere non servono alla gestione degli “affari banali della giornata” (come per Adolf Eichmann era invece il caso), ma per generare cambiamenti e “movimento” da uno stato all’altro.

Inoltre, in connessione con le questioni della stabilità politica e della democratizzazione, si potrebbe sostenere che lo scoppio di una rivoluzione e l’impiego della violenza siano la prova che la struttura di potere esistente si sta sgretolando. Il processo rivoluzionario destabilizza la struttura di potere e successivamente ne genera una nuova, per cui nel processo rivoluzionario si può tracciare il ciclo fondamentale della politica: fondazione, crisi e rifondazione della struttura di potere. In On Revolution, Hannah Arendt chiarisce che una rivoluzione è sia un perenne ritorno a un punto di partenza, sia un passo preliminare verso la fondazione della comunità su nuove basi, in quanto “revolutions are the only political events which confront us directly and inevitably with the problem of beginning … [they] change the structure of the political realm” (On Revolution, 1963, pp. 21 and 25 – ma citato dalla Pelican Books ed. del 1973). Questo nuovo inizio coincide con l’idea di libertà, non semplicemente come desiderio di emanciparsi dall’oppressione ma (seguendo Erodoto): “as a form of political organization in which the citizens [live] together under conditions of no-rule, without a division between rulers and ruled” (ibidem, p. 30). Per Arendt, il desiderio di liberarsi dall’oppressione è “liberazione”, che è qualcosa di diverso e di minore rispetto alla “libertà” (freedom) intesa invece come l’anelito a costituirsi in “repubblica”: “[Freedom] necessitated the formation of a new, or rather rediscovered form of government; it demanded the constitution of a republic” (ibidem, p. 33). Per la Arendt, il legame tra rivoluzione e libertà genera un processo costitutivo (Cfr. ibidem, pp. 141-154) e “only where this pathos of novelty is present and where novelty is connected with the idea of freedom are we entitled to speak of revolution” (ibidem, pp. 33-34). Arendt specifica anche che “novelty, beginning, and violence” sono tutte intimamente associate alla nozione moderna di rivoluzione (ibidem, p. 47). Non sorprende, per tanto, la conclusione di Hannah Arendt che sia solo l’esperienza americana (quella del 1776) a possedere l’autenticità della ricerca della libertà e il desiderio di fondare una nuova comunità politica, quindi le vere caratteristiche della rivoluzione, in quanto la rivoluzione è una lotta per la liberazione che genera un nuovo ordine politico (cfr. ibidem, pp. 141-154).

Coerentemente con l’etimologia di rivoluzione, che nel suo uso astronomico significa un moto orbitale di uno o più corpi attorno a un centro di massa, molto spesso un movimento rivoluzionario esige il ritorno a una situazione originaria, quando il mondo era incorrotto e i diritti delle parti erano pienamente dispiegati e rispettati. Paradossalmente, una rivoluzione è un impulso ad una restaurazione del passato, che viene invocata dalle genti per rivendicare diritti usurpati, e nella modernità il fenomeno rivoluzionario è invariabilmente associato all’idea di palingenesi e di cambiamento radicale. Esiste un significato religioso e filosofico implicito del termine rivoluzione, come in alcuni sistemi religioso-filosofici dell’antichità, dove la palingenesi significava un rinnovamento periodico dell’individuo o del cosmo, la rinascita dell’uomo dopo la morte o il rinnovamento del mondo fino alla fine dei tempi.

Come abbiamo notato, Arendt coglie perfettamente questo aspetto della nozione di rivoluzione quando sottolinea la “novità” nella fondazione di una “repubblica”, o comunità politica, come tratto distintivo delle rivoluzioni: “revolution on the one hand, and constitution and foundation on the other, are like correlative conjunctions” (ibidem, 126). Stando così le cose, il problema posto dalla rivoluzione nelle vicende della modernità non è semplicemente sociale ed economico, come spesso sembra essere negli episodi di ribellione violenta e di crisi nell’antichità (la stasis come la chiamavano gli antichi greci), ma essenzialmente e primariamente politico.

Se mi posso permettere, c’è però un punto nell’accostamento della Arendt – e, va detto, di altri fondamentali studiosi dei processi rivoluzionari – che lascia insoddisfatti. Vi è infatti nella Arendt una pretesa e un’ambizione di comprendere tutti i possibili aspetti di una rivoluzione, che la portano a una mancanza di precisione analitica. L’approccio della Arendt è olistico o macro-sociologico e determina una sorta di discrepanza tra certi effetti e le loro cause. Sono i conflitti di classe e le tensioni sociali delle fasi storiche che precedono la rivoluzione a determinare il crollo completo di un regime? O sono piuttosto il vuoto politico e la debolezza istituzionale a scatenare le forze sociali e a far precipitare il regime nel caos? Questa seconda e più mirata interpretazione subordina i fattori sociali della rivoluzione a quelli politici, il potere o l’autorità politica sono svaniti, il campo è ora aperto a tutte le forze sociali e ogni istinto può trovare sfogo. Questo punto è per la verità colto episodicamente da Arendt, ma disgraziatamente mai sviluppato a dovere:  “Revolutions always appear to succeed with amazing ease in their initial stage, and the reason is that the men who make them first only pick up the power of a regime in plain disintegration; they are the consequences but never the causes of the downfall of political authority” (ibidem, p. 116, sottolineatura mia). Se le rivoluzioni sono solo le conseguenze e mai le cause del crollo dell’autorità politica, quali sarebbero queste cause?

Gli approcci olistici o macrosociologici alla rivoluzione riducono la lotta politica e il conflitto nel processo rivoluzionario a epifenomeni rispetto a fattori sociali ed economici considerati più fondamentali e dominanti. Ciononostante, quali che siano le dimensioni fattoriali di una rivoluzione, essa influenza necessariamente e primariamente la sfera politica, poiché un regime svanisce e ne viene fondato uno nuovo, la struttura di potere esistente viene spazzata via e nuove forze politiche cercano di colmare il vuoto lasciato. L’approccio olistico è unilaterale perché si concentra sulle conseguenze della rivoluzione, ovvero sugli sconvolgimenti sociali che si verificano a seguito del crollo del potere politico esistente o in relazione al suo indebolimento. Sembrerebbe invece più appropriato orientare l’analisi alle cause del crollo del potere politico, prima di dedicarsi alle conseguenze sociali della sua caduta. Quand’è dunque che si scatenano queste “lotte per la liberazione” e perché tendono a diventare violente? Come abbiamo sopra evidenziato, Arendt non fornisce una risposta circa le cause del declino dell’autorità politica esistente e delle spinte violente alla sua sostituzione. Per rispondere a questa domanda dobbiamo fare qualche discorso attorno al tema delle istituzioni politiche e dell’istituzionalizzazione politica.

In varie occasioni, mi è capitato di avanzare una definizione minima dell’istituzionalizzazione del potere politico, quando siano soddisfatte le seguenti condizioni: a) si dà una distribuzione stabilizzata e riconosciuta di ruoli di autorità; b) sulla base di risorse procedurali ad essi assegnate, ciascuno di tali ruoli agisce entro un raggio d’azione definito e prevedibile; c) infine, i ruoli di autorità interagiscono in arene del confronto istituzionale. Questa definizione è minima, perché prende in considerazione solo quei fattori la cui sottrazione priverebbe qualsiasi esercizio di potere del suo carattere prevedibile e – adottando il linguaggio di Max Weber – trasformerebbe questo stesso da autorità (Herrshaft) a mero esercizio di forza bruta o potenza (Macht). La definizione non esclude la possibilità che una forma istituzionalizzata di potere, quindi autorità, possa essere supportata da una qualche capacità organizzativa (partiti politici, organizzazioni burocratiche, milizie e altre forme di mobilitazione politica organizzata), né che i titolari del ruolo possano controllare personalmente e direttamente quote di qualsiasi altro tipo di risorsa economica, sociale e psicologica, come entrate, prestigio e capacità morali o intellettuali, carisma e attrazione personale.

Quando si istituzionalizza, il potere si trasforma in autorità, perde i tratti originari della forza bruta perché è incastonato in ruoli riconosciuti, il cui raggio d’azione è relativamente prevedibile e che interagiscono secondo modelli prestabiliti in varie arene del confronto. In On Violence, Arendt riconosce questo, quando scrive che nel caso dell’autorità “neither coercion nor persuasion is needed” (On Violence, 1969, p. 45). La violenza ha invece solo un carattere “strumentale”, non è l’autorità stessa, ma è associata all’esercizio di potere, nel senso che si manifesta quando il potere è in pericolo, senonché manifestandosi finisce addirittura per distruggere il potere che vi ha fatto ricorso (Cfr. ibidem, pp. 46-56). Si tratta di un paradosso, ma coglie il senso. Il potere e la violenza si richiamano, ma sono due cose profondamente differenti e dove cessa il primo compare la seconda a segnarne il fallimento. Scriveva Mario Stoppino: “Il potere è la modificazione della condotta di individui o gruppi dotata di almeno un minimo di volontarietà; la violenza è l’alterazione dannosa dello stato fisico di individui o gruppi. Il potere cambia la volontà dell’altro; la violenza lo stato del corpo o delle sue possibilità ambientali e strumentali” (Violenza, in N. Bobbio, N. Matteucci, G. Pasquino, Dizionario di politica, 1983, p. 1241)

Se si riflette sugli effetti prodotti dai tre criteri di istituzionalizzazione sopra introdotti, si può ragionevolmente supporre, in primo luogo, che essi rendano l’uso del potere prevedibile e limitato, e in secondo luogo che ne rendano possibile la trasmissione fluida e continua. Questi presupposti sono facili da spiegare. L’identificazione dei ruoli di autorità, la limitazione e il carattere eminentemente procedurale delle risorse assegnate a questi ruoli, infine il contenimento delle relazioni tra i ruoli all’interno di arene del confronto chiaramente identificabili spersonalizzano l’uso del potere e ne rendono difficile e improbabile – o comunque limitato – il suo uso privato. Nei regimi fortemente istituzionalizzati, il potere non è più un “attributo” del detentore della carica ma è invece incastonato nel ruolo che lui occupa e solo finché quel ruolo occuperà. Questa oggettivizzazione o spersonalizzazione del potere rende molto facile la sua acquisizione, ma anche la sua trasmissione, nei regimi fortemente istituzionalizzati non è necessario ricorrere alle armi e uccidere il governante per togliergli il potere e sostituirlo, basta affidarsi alle procedure che sono state consolidate e ripetute nel tempo e nella tradizione di quel regime. Se accettiamo questa prospettiva minima, potremmo avanzare l’ipotesi che le rivoluzioni siano destinate a “scoppiare” dove il livello di istituzionalizzazione politica della comunità e del regime è molto basso o in rapido declino, cioè – come riconosce Arendt – è dove il potere si è disintegrato che le rivoluzioni sono possibili (Cfr. On Violence, 1969, p. 49).

Gli approcci prevalenti allo studio della rivoluzione si concentrano invece su cause “accessorie” alla crisi istituzionale e al crollo interno del potere politico, quali il malcontento sociale tra nuovi gruppi, l’opportunità di mobilitazione collettiva o di massa, e infine la ribellione aperta contro le autorità o la classe sociale dominante (per esempio, nelle influenti letture di B. Moore o di T. Skocpol). Questi approcci trasmettono l’idea che le rivoluzioni si sviluppino come atti intenzionali delle classi svantaggiate, che vedono i loro bisogni trascurati dalla minoranza al potere. Raramente dunque si osserva la funzione che le istituzioni e l’istituzionalizzazione svolgono nel processo politico, soprattutto nel modificare le modalità del conflitto politico, prevenendo o contenendo il suo scoppio violento. In condizioni di elevata istituzionalizzazione, il processo politico è caratterizzato primariamente dall’assenza di violenza nelle dinamiche del trasferimento del potere o dal suo confinamento a fenomeno marginale. In altre parole, ciò che spiegherebbe sia teoricamente che empiricamente lo scoppio di una rivoluzione è il livello variabile di istituzionalizzazione del processo politico e della comunità politica, che incide sulla probabilità del trasferimento del potere secondo pratiche “normali” e non violente.

In conclusione, le teorie della rivoluzione dominati non forniscono una chiara distinzione tra le forme di esercizio del potere. La potenza (Macht) – collegata al controllo di risorse socio-economiche o altre forme di dominio sociale – viene confusa con il potere come autorità istituzionalizzata (Herrschaft). Così, non si dedica sufficiente attenzione ai livelli variabili di istituzionalizzazione del potere, e analogamente alle cause che ne determinano l’abbassamento facendolo rovinare tumultuosamente. Una rivoluzione è molto meno probabile laddove prevalgano le condizioni dell’istituzionalizzazione politica, perché il raggio d’azione del potere politico è chiaramente definito e la sua azione è prevedibile; perché la trasmissione del potere – l’obiettivo primario degli “sfidanti” – è relativamente agevole e segue modelli consolidati e prevedibili; infine, perché la conquista del potere garantisce sì il controllo dei ruoli istituzionali che rendono possibili le decisioni, ma solo in modo temporaneo.

Mancando di scorgere questo elemento di fondo del processo rivoluzionario, che Hannah Arendt aveva correttamente intuito ma per la verità nei suoi scritti mai sviluppato coerentemente, la rivoluzione appare all’osservatore come un evento con conseguenze estese sulla struttura sociale di una comunità e l’effetto viene scambiato per causa. Si suppone che le rivoluzioni scoppino perché qualcuno ha un impulso irrefrenabile a “ritornare alle origini” (compiere, appunto, una “rivoluzione”), per voler fondare finalmente una nuova comunità politica. Tuttavia l’impulso e il tentativo di costruire una nuova comunità non sono le cause primarie dell’esplosione rivoluzionaria, sono piuttosto l’effetto di un esercizio illimitato del potere, dell’improbabilità della sua trasmissione regolare e prevedibile, cioè l’effetto della mancanza di istituzionalizzazione del potere politico e della rabbia degli esclusi che chiedono finalmente l’accesso fin qua negato al potere politico.

ENDOXA - BIMESTRALE FILOSOFIA

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