VOMITARE

ERNESTO C. SFERRAZZA PAPA

1.

Il concetto di banalità del male irrompe nel dibattito filosofico e pubblico nel 1963, quando Hannah Arendt rielabora le intuizioni avute assistendo al processo ad Adolf Eichmann e lo trasforma in una delle più potenti categorie concettuali a disposizione per chi voglia rapidamente spiegare il negativo. Ecco lo scandalo: là dove il male si presenta totale, assoluto, abisso di senso, punto di non ritorno dell’etica umana, indovinarne la stupida banalità, scoprirne la pochezza. Questo il segreto scoperto da Arendt: non è il male a essere banale, ma gli uomini che lo esercitano. Impossibile l’impresa nazista senza questo funzionario intellettualmente di poco conto incaricato di organizzare in maniera efficiente i treni in direzione sterminio. Banalità del male: concetto plastico, malleabile, tanto richiamato quanto non compreso, trattato alla stregua di una banalité supérieure. La banalità del male toglie il pathos, la grandeur dell’incallito cattivo, e riconsegna la capacità di fare il male nelle mani di ciascuno. Arendt vede quello che nessuno aveva visto, solo lei in quella sala si accorge della mediocre stupidità di Eichmann. La via per l’inferno è costruita da piccoli burocrati che eseguono gli ordini, rinchiudono in un angolo del cuore la loro capacità di giudizio critico, la facoltà politica per eccellenza per Arendt interprete di Kant. Molti amici non perdoneranno ad Arendt di avere abbassato il male per eccellenza a una questione di ordinaria amministrazione dell’esistente. C’è qualcosa d’indecente nel togliere allo sterminio i galloni di un dolore inspiegabile.

2.

Se il male è banale, la sua banalità non lo è affatto. Qualcosa, in effetti, non torna nella ricostruzione di Arendt. E non si tratta del tentativo di determinare l’indeterminabile, di non fare di Auschwitz l’unità di misura di tutto il male possibile. Il problema è che Arendt troppo rapidamente liquida le lungimiranze dello spirito che concedono alla critica di andare in sciopero. Tutto il contrario: la banalità del male richiede un incessante, faticoso e ascetico dominio del sé, un autodisciplinamento volto a potenziare l’unica facoltà in grado di soverchiare definitivamente il giudizio critico: la facoltà di mettere da parte, di non istituire rapporti tra le cose, come già sosteneva Simone Weil. Ho organizzato il traffico ferroviario, in migliaia sono morti nelle camere a gas: nessun rapporto tra i due eventi. Ma questo laccio che tiene insieme il soggetto e i risultati del suo agire non si taglia facilmente. La violenza che il soggetto fa a se stesso per impedirsi di vedere il male non è a buon mercato, non è banale. Nella sua fenomenologia della violenza, Wolfgang Sofsky si è concentrato sulla figura dello spettatore distaccato, quello che spettatore che si rifiuta di guardare in quanto già sa cosa vedrebbe. Non è facile chiudere occhi che non si lasciano chiudere, non prestare attenzione richiede uno sguardo attento. Chi ignora ha già selezionato minuziosamente i suoi interessi. La banalità del male ha bisogno di un lavoro etico sul sé per potersi esercitare pienamente.

3.

Non solo la psicologia, Milgram prima, Zimbardo poi, hanno sperimentato in corpore vili le tesi arendtiane. Tutta una cinematografia si è sviluppata a partire dal segreto scoperto a Gerusalemme. Pienamente arendtiano è The Zone of Interest (2023), vincitore di due premi Oscar, regia di Jonathan Glazer, liberamente tratto dall’omonimo libro di Martin Amis.

La trama è fredda quanto i personaggi: Rudolf Höß vive la dolcezza di una esistenza placida, borghese, fatta di serate conviviali, chiacchiere futili, passeggiate con i figli, complicità e programmi futuri con la moglie, nell’Interessengebiet: una zona appena adiacente il muro che separa la sua vita privata da quella professionale, che si svolge nel campo di concentramento di Auschwitz. Höß è un gerarca nazista, smanioso di fare carriera nel partito, scalare i ranghi. Per farlo, progetta una sempre più efficiente realizzazione del campo. Ma il campo ci è precluso, non viene mai mostrato, solo udito: da lì provengono sferragli di macchine, urla, rumori di bastonate, a volte un colpo di pistola. L’esistenza del campo è puramente sonora, ma le orecchie non possono tapparsi per sempre. Per sopravvivere di fianco all’orrore, e prosperare grazie a esso, è necessario un lavorio che trasformi i rumori del male in un white noise, un brusio sopportabile solo dopo una lenta assuefazione. La tattica per essere nazisti come si deve è l’anestesia morale: un corpo e un’anima forgiati per non reagire.

La famiglia procede serenamente la sua esistenza, pochi intoppi di natura burocratica (un annunciato trasferimento di Höß che provoca la scomposta ira della moglie Hedwig) la scalfiscono. Tracce del campo, certo, se ne trovano anche fuori: ossa nel fiume dove Höß porta i figli a nuotare, ma è sufficiente allontanare per disinteressarsi. La zona d’interesse non è solo uno spazio fisico, è una sfera etica: la zona d’interesse è il ripiegamento del soggetto su di sé, inscalfibile a ciò che lo circonda.

Ma qualcosa resiste, non può essere mai rimosso definitivamente: la polvere. Questo residuo dei corpi gasati e poi cremati si annida dappertutto, dappertutto si posa. La si spazza, ma essa continua a ritornare. Avvolge la zona d’interesse in maniera impalpabile ma invincibile. La si respira quotidianamente, finché non penetra negli angoli più riposti dei corpi. E fa da padrona non voluta dei gesti di Höß, che è in continuazione affetto dai conati di vomito che il pulviscolo respirato porta in dono. Ma il conato rimane tale, spasmo del corpo che anela a una liberazione impossibile dal tormento: Höß vorrebbe vomitare, ma non ci riesce. Il film si chiude su questa impossibilità: Höß in compagnia dei suoi conati. Una prolessi ci mostra che lì, dove Höß si piega, sorgerà un memoriale.

4.

Una filosofia del vomito attende ancora di essere scritta. Pochi autori – Lévinas, e sulla sua scia Agamben – si sono soffermati su questo strano stato del corpo. Il vomito è ciò che appartiene in massimo grado al corpo e che esaurisce in quel singolo istante l’essere, riconsegnato ai propri bisogni fisiologici, nient’altro che carne; e contemporaneamente, il vomito è ciò di cui non ci si può appropriare – come il battito del cuore, la necessità di respirare, insomma tutto ciò che appartiene all’automatismo involontario del vivente. Nel vomito ci scopriamo oggetti e non soggetti del nostro corpo.

Nella pratica emetica il soggetto è inchiodato al corpo, da lui dominato, non può sfuggire a ciò che è. Ma il vomito è anche una promessa di salvezza, la capacità del corpo di espellere, al di là della nostra volontà, ciò che rischia di annientarci. Indurre il vomito conduce alla salvezza. Non si capisce dunque la lezione di Glazer senza comprendere la funzione del vomito impossibile di Höß. La sua vita da nazista è stata un continuo chiudere gli occhi e serrare le orecchie, egli ha messo da parte in continuazione per poter sopravvivere a quel mondo eticamente malsano. Ma la volontà non è totalizzante, molto le sfugge. Il corpo del gerarca congiura contro gli occhi che non vedono e le orecchie che non ascoltano, e finisce con il tradirli. Il corpo si squassa di un rimosso che non può espellere. Quella polvere che lo invade è il contraccolpo inevitabile di un’anestesia etica permanente. Se vomitare significa liberarsi, all’indurito gerarca questa salvezza è preclusa. Il vomito unicamente annunciato da singulti e conati, che lo scuote e lo obbliga a piegarsi, è l’indice di una redenzione per sempre interdetta. Non è possibile rigettare la Storia, la polvere ormai è padrona del suo corpo e non vuole saperne di liberarlo. Il corpo non perdona ciò da cui sin dal principio egli si è assolto. Dobbiamo immaginare Eichmann nauseato.

CINEMA ENDOXA - BIMESTRALE FILOSOFIA

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