“DÉJÀ NEW” O DELLA LEGGE DELLA RIPETIZIONE ALTERANTE

deja-vu-man-in-the-mirrorFERDINANDO MENGA

1. Nihil novi …?

 L’eccitazione per la/le novità è fenomeno oggigiorno osservabile in modo piuttosto diffuso e trasversale. Basti gettare lo sguardo sul mondo della produzione e delle aspettative di fruizione dei contenuti in rete per rendersi subito conto della dimensione che ha assunto.

Certamente, che un tale fenomeno sia generalmente funzionale ad alimentare una determinata organizzazione economica di mercato votata a un consumismo inarrestabile e a una produzione di dipendenza su soggetti sempre più manipolabili da parte di quello che Bernard Stiegler definirebbe un vero e proprio psicopotere, rappresenta una chiave di ermeneutica, senza dubbio, convincente. Tuttavia, a mio avviso, non tale da fornire un’interpretazione esaustiva. Siffatto assillo per il nuovo potrebbe essere letto, in effetti, anche in modi (parzialmente) alternativi: in linea con una dinamica di esorcizzazione dello scorrimento del tempo e della caducità dell’esistenza in un’epoca in cui l’eternizzazione può essere ormai ricercata soltanto nell’immanente. Oppure, quale produzione paranoica del sorprendente, sì da nutrire un narcisismo che impone oramai a tutti di essere costantemente protagonisti o di non essere nulla. O ancora, la corrente proliferazione del nuovo può essere semplicemente compresa quale inevitabile risultato sommatorio di una miriade di libertà espressive individuali che, per quanto minute, sono riuscite nondimeno a ottenere finalmente, grazie ai capillarizzati mezzi digitali a disposizione, la possibilità di colonizzare gli spazi pubblici di condivisione delle opinioni.

Come che stiano le cose e quali che siano le ragioni maggiormente plausibili al fondo di tale fenomeno, un fatto resta però fermo e degno d’osservazione: quanto più maniacale diventa la produzione del nuovo, tanto più essa contraddice il medesimo gesto che la veicola, giacché ogni ricerca di vissuti di marca evenemenziale, divenendo ossessiva, tende inevitabilmente a decadere in ripetizione. Insomma, la spasmodica aspirazione alla novità finisce per cristallizzarsi in processo iterativo – in quello che potremmo definire un paradossale eterno ritorno dell’inedito o quanto meno una peculiare esperienza di “déjà new”.

Probabilmente, un’attenta analisi riuscirebbe ben a mostrare come per nulla estemporaneo sia da ritenersi il legame che intercorre tra l’aspirazione al nuovo puro, all’evento in quanto tale, all’altrimenti tutto d’un colpo, da un lato, e l’adesione alla ripetizione, al già visto o al déjà vécu, dall’altro. A tale scopo, molteplici – e tutte plausibili – spiegazioni di stampo esistenziale e anche psicoanalitico potrebbero venirci in aiuto.

Tuttavia, se, da un tale piano di tonalità generalmente psicologica, ci spostiamo invece su quello più squisitamente strutturale-fenomenologico, la domanda interessante che giunge a configurarsi è la seguente: (come) si dà veramente il nuovo? E viceversa: (come) si dà effettivamente la ripetizione?

Già Platone, in una delle tante lezioni estesiologiche di cui è costellato il suo Parmenide, suggerisce di mettere in discussione il verificarsi di una netta polarizzazione del genere. In effetti, nel momento stesso in cui afferma che ogni cosa «che diviene più vecchia di se stessa, diviene anche più giovane di sé» (Τὸ πρεσβύτερον ἄρα ἑαυτοῦ γιγνόμενον καὶ νεώτερον ἑαυτοῦ ἅμα γίγνεται) (Parmenide, 141 B), sembra optare per una dinamica della manifestazione che, improntata all’auto-dislocazione, scongiura tanto che si attesti l’assoluta novità quanto la mera ripetizione. In tale linea, parrebbe dunque che, qui, lo stravagante riferimento a un déjà new non abbia poi molto di eccentrico, ma colga piuttosto nel segno dell’articolazione strutturalmente auto-differita di ogni manifestazione e accadimento. Potremmo, pertanto, osare asserire: riferimento sì eccentrico, ma nella misura in cui, però, altrettanto eccentrica è la dinamica stessa del presentarsi dell’evento.

Domandiamoci, dunque, in modo maggiormente approfondito, o se vogliamo, in termini fenomenologici: cosa vuol dire precisamente fare esperienza di qualcosa di nuovo? E cosa implica, altresì, assistere alla ripetizione di qualcosa?

Cogliere in senso pieno l’esperienza di qualcosa d’inedito, impone, anzitutto, prendere le mosse dall’esperienza stessa di un “qualcosa”. Al riguardo, tanto Husserl, quanto Heidegger, ci indicano una direzione di risposta essenziale: non vi è esperienza di alcunché al di fuori di un’esperienza di significato. Detto in altri termini: “qualcosa” mi si dà solo se lo esperisco “in quanto qualcosa”. In tale prospettiva, l’impianto primordiale di ogni forma di manifestazione e vissuto è tale per cui qualcosa giammai si offre nella sua immediatezza e semplicità, ma si dà solo esprimendosi attraverso un (suo) significato: in quanto questa o quella cosa.

Le implicazioni di questa struttura del significato sulla questione dell’inedito e della ripetizione – come vedremo subito – sono molteplici, rilevanti e nondimeno paradossali.

2. … del vino vecchio negli otri nuovi

 Se – come vorrebbe il fenomenologo tedesco Bernhard Waldenfels – il significato, quale elemento primordiale di ogni vissuto, si lascia cogliere attraverso la «formula minimale del qualcosa in quanto qualcosa», ciò implica, una struttura di fondo: quanto si manifesta deve apparire all’esperienza “in quanto tale”. Il che vuol dire: qualcosa appare solo essendosi ripetuto almeno una volta. Un qualcosa manifestatosi soltanto una volta, in effetti, non avendo mai raggiunto, mediante iterazione, la condizione che lo costituisce “in quanto qualcosa”, mai avrebbe potuto solcare la soglia che lo porta a esser esperito per quello che è. Come osserverebbe sempre Waldenfels al riguardo, l’identità che permette a un qualcosa di essere il medesimo qualcosa che è, non può consistere nel fatto che pre-esista il qualcosa-identico «e che questo si ripeta in situazioni che variano, restando però immodificato nel suo nucleo». Al contrario, l’identità è l’esclusivo risultato di un processo d’identificazione»; per la precisione: è il prodotto di una «costruzione d’identità mediante ripetizione». Dalla cui dinamica ne consegue che qualcosa non è semplicemente qualcosa, bensì diviene ciò che è nella misura in cui ripete se stesso.

Ecco, dunque, affiorare il primo carattere costitutivo della struttura del significato: la ripetizione (è) originaria, tanto originaria da imporre a ogni manifestazione del nuovo di rivelarsi già sempre attardata rispetto a se stessa. O per dirla nuovamente coi termini platonici: ogni cosa nuova, per quanto giovane, è già sempre più vecchia rispetto a se stessa.

3. … del vino nuovo negli otri vecchi

 

Tuttavia, a differenza di quanto una conclusione del genere parrebbe suggerire, la struttura complessiva del significato mediante iterazione non implica l’esclusione dell’inedito. Anzi, una visione d’insieme impone proprio di reintrodurre in campo tale elemento, poiché, a ben vedere, nulla di vecchio può effettivamente darsi a meno che non esibisca una forma di novità, rivelandosi così già sempre più giovane in relazione a se stesso.

Per chiarire questo passaggio, ritorniamo all’esperienza fenomenologica del “qualcosa in quanto qualcosa”. Avevamo accertato: il significato di “qualcosa” si dà solo se quest’ultimo si ripete nell’“in quanto qualcosa”. Il punto focale, però, sta qui nel comprendere che tale ripetizione non può essere intesa come mera tautologia, poiché il “qualcosa” non comincia mai da se stesso (dall’immediata apprensione identitaria di sé). Invece, se ben si osservano le cose, esso inizia solo mediante la ripetizione medesima. Il che ha quale inevitabile conseguenza quella di un’iterazione che, non disponendo mai dell’identità originaria di ciò che essa dovrebbe semplicemente ripetere, finisce essa stessa per alterarlo nel mentre lo ripete. Conclusione: ogni iterazione del “qualcosa in quanto qualcosa”, producendo già sempre una forma d’alterazione e scarto, risulta immancabilmente esposta al nuovo. Potrebbe affrancarsi da effetti d’alterazione soltanto se potesse acquisire in anticipo l’identità originaria che essa veicola; la cui cosa, però, è proprio quanto resta interdetta, giacché tale identità non si produce in nessun altro luogo se non nel ritardo medesimo della ripetizione.

Ne consegue che unicamente la ripetizione crea l’identità del “qualcosa” attraverso la donazione di significato dell’“in quanto qualcosa”; però quest’ultimo, essendo già sempre alterazione del “qualcosa”, fa sì che la ripetizione non possa mai costituire il significato una volta per tutte. La ripetizione è destinata, con ciò, a restare aperta, a iterarsi perennemente senza potersi mai placare nel compimento di un “qualcosa” di definitivamente configurato.

Lungo tale traiettoria, giungiamo così al capovolgimento dei termini della relazione sopra evocata: non più è l’iterazione a rivelarsi aspetto primordiale del nuovo, ma, viceversa, è ogni manifestazione del già edito a risultare inevitabilmente anticipata rispetto a se stessa. Insomma, volendo prendere in prestito il modo in cui Emmanuel Levinas descrive il rapporto fra “dire” e “detto”, potremmo asserire: ogni ripresa si rivela strutturalmente esposta a una forma di sorpresa. Assieme a Platone potremmo, invece, concludere: ogni cosa vecchia, per quanto consolidata voglia apparire, mai potrà rifuggire l’essere più giovane rispetto a se stessa.

L’esperienza del significato impone, in tal senso, in modo complessivo, un gioco paradossale di alterazione e ripetizione. Si tratta di un chiasma di nuovo e vecchio che si innerva nell’“in quanto” stesso e si articola secondo la dinamica per cui l’esperienza è sì colpita da “qualcosa” che essa non contiene fin dall’inizio – ed è qui che la spinta dell’inedito si fa sentire –, eppure ciò accade in modo tale che questo stesso “qualcosa” mai riuscirebbe a comporsi quale esperibile se non nello spazio di manifestazione del suo significato “in quanto tale” – ed è qui che si impone la ripetizione.

4. Quante volte ci bagniamo nello stesso fiume?

Tale differimento permane sempre aperto e inesauribile, innestandosi nell’instabile interstizio dell’“in quanto” che lega e separa la cosa bruta dal suo significato, la novità pura dalla sua mera ripresentazione.

Siffatta oscillazione non si rivela, però, semplicemente nella sua veste speculativa, ma, al contrario, proprio a motivo della sua caratura fenomenologica, incide sull’esperienza tutta concreta del “qualcosa”, lasciando affiorare le sue diverse gradazioni, a seconda di quale dei due poli giunga a predominare: dalla variante debole dell’abitudinarietà e quotidianità alla variante forte della straordinarietà e sorpresa. Nella variante debole, l’“in quanto” tende a congelarsi nella ricorsività della ripetizione, assopendo l’elemento alterante. Qui fra il “qualcosa” e l’“in quanto qualcosa” pare vigere una sorta d’indiscutibile coincidenza. Nella variante forte, invece, l’“in quanto” si approssima alla lacerazione di un’irripetibilità, la quale, divaricando al massimo la scissione, lambisce il limite della rottura del significato e l’impossibilità stessa dell’esperienza. Qui la situazione che si presenta è quella dell’irrompere di un evento straordinario a cui nessuna apprensione di significato sembra rendere giustizia.

Come che stiano le cose, però, sempre a condizione che si voglia parlare di qualcosa di effettivamente esperito, in nessuno dei due estremi svanisce l’“in quanto” del significato e la sua dinamica iterativa. Nella versione ripetitiva, l’“in quanto” non giunge a sclerotizzarsi, poiché l’iterazione del significato, per quanto ricorsiva, deve concretamente attuarsi “in quanto qualcosa” e, dunque, non può cancellare la traccia di differenza che contiene. Questo è il caso in cui l’esperienza normalizzata pare diventare pressoché automatica; ma tale non può mai arrivare a essere, giacché, anche nell’abitudinarietà, la ripetizione più ricorsiva impone comunque un minimo stimolo tale da sollecitare un’esperienza degna di tal nome. Insomma, per fare un esempio: per quanto io possa bere ogni giorno il medesimo bicchiere dello stesso tipo di vino, l’ogni volta dell’iterazione del calice portato alla bocca non potrà esimersi dal produrre una – per quanto minima – dose di novità ai miei sensi. Viceversa, nella versione dell’estrema sorpresa, l’“in quanto” non si dissolve in pura differenza, giacché anche l’evento straordinario trova la sua minima forma di ripetizione nel registro stesso dell’essere esperito “in quanto” irripetibile. In tal senso, come ci ricorda sempre Waldenfels, non vi è cultura che non annoveri un repertorio e vere e proprie calendarizzazioni di avvenimenti unici, i quali, proprio perché straordinari e irripetibili, spingono a che si riservi loro un posto d’onore lungo l’asse del tempo, fino a farne eventi fondatori che scandiscono un prima rispetto a un dopo. In casi del genere, l’“in quanto” del significato ha sì impressa una forte dose alterante, ma comunque non si dissolve per lasciare il posto all’evento nudo e crudo, al tutto-d’un-colpo della sorpresa assoluta. Altrimenti, avremmo a che fare non con un vissuto, ma piuttosto con la sua dissoluzione nella forma dello shock e trauma estremi – casi in cui l’esperire, più che potenziarsi, si sfalda, paralizza, implode.

Probabilmente è proprio per questo motivo che finanche l’accadimento più intimo, segreto, straordinario e irripetibile – come peraltro ben ci insegna Jacques Derrida – nasce già provvisto della traccia originaria del pronunciamento stesso che lo testimonia e, in certa misura, lo tradisce: intimo scarto che lo esteriorizza, trasgredendolo, ma, al tempo stesso, lo rende per la prima volta possibile, registrandolo nel mondo, assieme alla necessità di condivisione con altri.

L’oscillazione chiasmatica di cui abbiamo finora parlato ci impone, dunque, un paradossale, quanto necessario, equilibrismo di fondo: quello d’assecondare senz’altro il saggio filosofo rispetto all’impossibilità di bagnarsi due volte nel medesimo fiume, senza però ignorare, al contempo, lo spiritello fenomenologico che è in noi e che ci richiama a essere altrettanto consapevoli che, proprio nell’immergere il piede in suddetto fiume, si è già sempre partiti dalla seconda volta

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