SOLARPUNK MARXISM

Immagine1PIER MARRONE

Viviamo nel regno della scarsità. I beni non sono disponibili in quantità illimitate per tutti. Nessun bene lo è. Nemmeno l’aria, che pare essere disponibile per tutti in maniera eguale, si sottrae a questa logica. Che l’aria abbia un prezzo è dimostrato dal fatto che il valore degli appartamenti vicino a una acciaieria sono inferiori a quelli di Cortina d’Ampezzo, sia per la qualità dell’aria che si respira vicino ai complessi industriali sia per l’opportunità di relazioni sociali proficue anche in senso economico che si possono intrecciare con una casa a Cortina. Anche vivessimo in una condizione di relativa eguaglianza di accesso alle risorse, rimarrebbe sempre una diseguaglianza nell’accesso a quella risorsa che è per definizione scarsa: il tempo che ci rimane da vivere. Ma questa diseguaglianza potrebbe essere anche causata dal differente accesso alle risorse sanitarie, che potrebbero prolungare la tua vita, magari perché nel luogo remoto dove vivi non esistono farmacie ben fornite.

Sembrerebbe che la scarsità sia quindi iscritta nella condizione umana. A questa scarsità il genere umano ha reagito in maniere diverse. Ha reagito principalmente con il commercio ossia con lo scambiare beni con altri beni. L’invenzione del denaro ha reso obsoleto e scomodo il baratto, sostituendolo con la maneggiabilità della moneta e poi con la maneggiabilità ancora maggiore delle banconote e poi con la smaterializzazione del denaro. Oramai, se estrai un rotolo di banconote per pagare un acquisto di una qualche importanza pensano che sei un narcotrafficante che sta lavando del denaro. Questo, però, significa, tra le altre cose, che anche la privacy è diventata un bene scarso.

La scarsità delle risorse fa sorgere numerosi problemi: come utilizzare in maniera ottimale le risorse disponibili, come rigenerare le risorse che possono essere rigenerate (ad esempio, quelle alimentari e alcune risorse minerali), quali fonti di energia utilizzare bilanciando costi e benefici, come dovremmo porci rispetto alle generazioni future che erediteranno il pianeta (dobbiamo lasciarglielo come lo abbiamo trovato, oppure in condizioni migliori?). Alla fine si torna al problema, secondo me, principale, ossia quale sia il sistema politico che rende possibile coniugare benessere collettivo, aspettative individuali, prosperità economica e progresso tecnologico. Spesso gli eredi di quelli che sono stati i partiti di sinistra hanno adottato visioni pessimistiche rispetto al futuro ambientale e a quello, dunque, della specie. Nei partiti riformisti prevalgono in realtà posizioni moderate sui cambiamenti richiesti per far fronte ai problemi dell’utilizzo ottimale delle risorse. Nelle frange estreme di quello spettro politico abbondano poi le visioni apocalittiche, che sono particolarmente interessanti per le soluzioni radicali che propongono. A pensarci maliziosamente, si potrebbe ritenere che non è affatto un caso che nelle frange più estreme prevalgano soluzioni radicali, dal momento che queste rappresentano frange esigue dell’opinione pubblica, che dai problemi della scarsità delle risorse non sono realmente toccate.

Tuttavia, che il problema esista e che richieda soluzioni all’altezza dei problemi è, ovviamente, innegabile. Queste soluzioni solo in parte possono essere soluzioni tecniche, ma necessitano sempre dell’intervento della politica, se non altro per bilanciare interessi che sono contrastanti. L’apocalittismo dovrebbe indurre al quietismo: in fin dei conti, se oramai siamo troppo avanti nel consumo delle nostre scarse risorse, perché non dovrei spassarmela e passare la palla alla generazione futura, che, poi, forse nemmeno ci sarà? Tuttavia, se le visioni apocalittiche si accomunano al millenarismo, come di fatto accade, invece, le cose cambiano di parecchio e le soluzioni si situano tutte attorno a ciò che deve essere considerato come bene comune (commons).

Queste soluzioni in alcuni casi comportano un recupero del pensiero di Marx. Molti hanno ritenuto che la storia del Novecento abbia rappresentato il fallimento della filosofia di Marx di fronte alle ruvidezze della storia. Questo potrebbe essere considerato un argomento in qualche modo dirimente, dal momento che l’esperienza smentisce le previsioni che Marx fece sia in campo economico (la caduta tendenziale del saggio di profitto, la tendenza ineliminabile del capitalismo di creare crisi di sovraproduzione) sia in campo politico e geopolitico (la considerazione che la Russia non sarebbe stata matura per la rivoluzione, la durata della dittatura del proletariato, che concepiva come di breve momento, la sollevazione internazionale degli oppressi). Ora, c’è da chiedersi: perché invece questi e altri argomenti non siano considerati argomenti fatali per quell’utopia? La risposta credo sia contenuta nella domanda medesima. L’utopia marxiana è una forma di millenarismo e per questo è molto difficile sia considerata confutata da coloro che sono attratti da forme palingenetiche di intervento politico-sociale.

Questo atteggiamento è quello che Ernst Nolte indagò in un breve saggio notevole, intitolato L’eterna sinistra. La sinistra nasce, è questa la tesi di Nolte, dove l’ineguaglianza viene percepita come non giustificata, dove i poveri non accettano il predominio, politico, militare, in termini di prestigio, dei benestanti e dei ricchi. È una vecchia storia che percorre gran parte della vicenda umana, ma che potrebbe non essere parte dell’antropologia umana. In effetti, è probabile che nelle piccole comunità di cacciatori-raccoglitori le difficoltà dell’esistenza promuovessero forme di comunanza dei beni e forme articolate solidarietà.

Negli anni successivi alla pubblicazione de Il capitale, Marx si immerse nella lettura di testi scientifici di varia natura, che testimoniano di un interesse persistente che molti pensatori socialisti, comunisti, anarchici ebbero per la conoscenza scientifica e per il progresso tecnologico. Nel caso di Marx sappiamo quasi esattamente che cosa lesse, materiali con tutta probabilità da utilizzare nella stesura dei successivi volumi del Capitale, perché ha lasciato una quantità enorme di appunti che appena ora si stanno ordinando e pubblicando: testi sulla flora, sulla fauna, sui cambiamenti nei terreni prodotti dalle recinzioni e dalla fine dei regimi di commons, che è il passo iniziale per l’accumulazione originaria dalla quale si sviluppa il capitalismo. In questa fase preparatoria Marx espresse anche in una lettera a una militante russa il suo apprezzamento per il sistema russo dei mir, appezzamenti di terra coltivati in comune in comunità ristrette. Forse qualcosa del genere sarebbe dovuto accadere anche nel comunismo, almeno quando il controllo centralizzato del potere non sarebbe stato più necessario a rivoluzione vittoriosa. Si tratta della fase nella quale le istituzioni repressive si sarebbero estinte portando alla dissoluzione dello stesso stato. Una conseguenza, del resto, questa che avrebbe aperto le porte a una riconciliazione con il mondo naturale, più volte prefigurata anche nella produzione già nota di Marx.

Infatti, il capitale non aliena soltanto le persone e l’intera umanità, ma realizza anche l’alienazione della natura medesima. Sembrerebbe che questa posizione coinvolga una antropomorfizzazione della natura, alla quale si attribuiscono caratteristiche proprie dell’essere umano, come la possibilità di essere alienato. Ma è davvero così? In realtà, il capitale brutalizza la natura rendendola parte integrante del primato della produzione e concependola solo come occasione per generare profitto. Che sia solo occasione per il profitto è dimostrato dallo sfruttamento intensivo dei suoli, secondo Marx, mentre in una gestione comunitaria della terra, i suoli vengono fatti riposare e hanno la possibilità di rigenerarsi e di essere di fatto maggiormente produttivi nel medio e lungo periodo. Tuttavia, il primato della produzione non comporta la valutazione dello sfruttamento delle risorse sul medio e lungo periodo, ma unicamente la produzione del profitto nel breve termine. È la scomparsa dei commons a consentire questa rivoluzione che si concentra sull’immediato. Da qui si originano molte delle critiche che da sinistra vengono rivolte al modello capitalista, ritenuto incapace di guardare al futuro. Del resto, l’idea di Marx che il capitalismo si sarebbe inevitabilmente avviluppato in crisi di sovrapproduzione, che ne avrebbero potentemente contribuito al declino era precisamente una critica su una presunta mancanza di prospettiva sul futuro.

Dal momento che le previsioni di Marx non si sono avverate, verrebbe da dire che chi ha avuto uno sguardo distorto sulla prospettiva temporale sia stato invece lui. Ci sono però alcuni studiosi che ritengono che il suo momento possa essere ritornato. Questo ritorno sarebbe propiziato dalla crisi ambientale che pare richiedere interventi drastici e non gradualistici, perché siamo già in grave ritardo sul riscaldamento globale, sulla crescita della popolazione, sull’esaurimento delle risorse. È la tesi di Kohei Saito in Il capitale nell’antropocene. Proprio a Saito si deve l’enfasi su una nuova lettura dei materiali lasciati da Marx per la preparazione dei volumi successivi de Il capitale, dai quali emergerebbe un Marx ecosocialista. Però, se il marxismo è una filosofia della prassi, bisognerà pur chiedersi che cosa si può fare per rovesciare la nostra situazione negativa prossima alla catastrofe, forse già compromessa e che difficilmente sembra poter andare oltre le prossime due generazioni: di qui tutti gli elogi di Saito a Greta Thunberg, una specie di Giovanna D’Arco della sinistra globale da quello che si capisce, proprio per la sua testimonianza profetica.

Saito ricorda solo di passaggio che anche nei regimi comunisti i disastri ecologici non sono certo mancati. In Germania dell’Est le emissioni di anidride carbonica erano molto al di sopra di quelle prodotte dalla Germania Ovest; il lago di Aral è quasi scomparso per le agricolture intensive, finalizzate all’esportazione e all’acquisto di valuta forte; le carestie cinesi tra gli anni Cinquanta e Sessanta del secolo scorso che hanno provocato decine di milioni di morti. Satoi non entra minimamente nel dettaglio, mentre sarebbe stato bene che lo facesse, perché queste dimenticanze puzzano di ipocrisia. Io credo che non sia il capitalismo a essere cannibale, ma gli uomini a essere avidi e assetati di poter esercitare anche un minimo potere sugli altri uomini. Lo dico perché assegnare a un movimento storico e a una concezione del mondo e degli oggetti (cosa che il capitalismo sicuramente è) tutte le colpe dei nostri disastri mi ricorda molto quelle persone, certamente non poche, che attribuiscono qualsiasi cosa negativa loro accada sempre agli altri. Tutti i movimenti storici producono negatività sia perché si innestano su una antropologia umana non particolarmente esaltante sia perché propongono soluzioni che non sono mai soluzioni definitive, ma sempre introduzioni ad altri problemi.

Ad ogni modo, ammettiamo per l’amore dell’argomento che la nostra crisi climatica provocata dalla piena entrata nell’antropocene sia così avanzata da richiedere soluzioni radicali. Quali precisamente? La proposta di Satoi è un comunismo della decrescita, che non è la proposta della decrescita felice di Latouche, che si rivolgerebbe alla coscienza degli individui, poiché la salvaguardia della natura è una questione che investe gli interessi di tutti, sia poveri sia ricchi. Latouche non intende infatti proporre un superamento del capitalismo, bensì un’utopia concreta che sia proponibile alla sinistra liberale e sia capace di aggregare i popoli. Per Satoi, si tratta di un’utopia delle anime belle che non riescono a immaginare il capitalismo se non come qualcosa di prossimo a un oggetto ineluttabile, quasi fosse, appunto, un oggetto della natura alla cui salvaguardia, salvo importanti correttivi, dovremmo essere interessati, perché in fin dei conti si tratta del migliore sistema di condivisione delle merci che conosciamo. Deve essere certamente corretto in profondità, ma non abbandonato. Ossia: il suo abbandono per Latouche non è affatto all’ordine del giorno. Per Satoi, invece, non c’è alternativa, se intendiamo sopravvivere come specie, se non abbandonare il sistema economico che ha provocato la nostra situazione, con ogni evidenza sull’orlo dell’abisso.

Un comunismo della decrescita, dunque: ma che cosa significa? In generale, significa che bisognerebbe ritornare ai livelli di consumo degli anni Settanta del secolo scorso. In questa scelta, immagino che Satoi abbia scontato l’aumento della popolazione che nel frattempo si è verificato. Cosa significherebbe concretamente? Be’, ad esempio non sarebbe più possibile fare viaggi in aereo per andare in posti esotici. In Tailandia e in Kenia, solo turisti dai paesi confinanti. Niente Maldive, niente Cuba, che essendo delle isole non hanno nemmeno il problema di contingentare i turisti da paesi limitrofi. Bene, se pensiamo all’Italia degli anni Settanta forse non troveremmo molto difficile tornare al livello dei consumi di quel tempo. Sarebbe bene continuare a fare tesoro di alcune conquiste tecnologiche come internet, gli scanner per limitare l’uso della carta, gli ebook per limitare lo spreco nella carta stampata (problema non di poco conto in Italia, dove sembrano esistere più scrittori che lettori), i telefoni cellulari. Naturalmente, occorrerebbe progettare un’uscita la più rapida possibile dall’energia prodotta dai combustibili fossili. Su questo punto Saito spende parecchie pagine per spiegare come i modelli basati sui combustibili fossili e quelli basati sull’utilizzo dell’energia nucleare dovrebbero essere rifiutati, non solo perché inquinanti, costosi e nient’affatto sicuri, ma anche perché si tratta di tecnologie chiuse, che presuppongono controlli centralizzati e severe misure di sicurezza. È invece possibile, tramite piccole cooperative che utilizzano tecnologie aperte, ossia accessibili alla popolazione generale, produrre energia dal vento, dal sole, dall’acqua. Sembrerebbe che Satoi pensi che queste tecnologie siano semplicemente qui e non necessitano di investimenti, di impianti di produzione, di inquinamento (quanto cemento è necessario versare nel terreno per stabilizzare una pala eolica?).

Dal momento poi che sarebbe ingiusto impedire alle persone di spostarsi, come bisognerebbe regolare la possibilità di fare viaggi? I viaggi di piacere dovrebbero essere completamente vietati, perché inquinanti e inutili? Inutili in che senso? Come si fa a misurare l’utilità futura di un’azione compiuta nel presente, se non si è in grado di precisare la completa catena causale che ci porta da una parte anziché da un’altra (e se fosse possibile precisarla, allora noi saremmo in grado di predire il futuro, ovviamente). Forse, sarebbe bene che il turismo continui a esistere, ma chi sarebbero i turisti? In una situazione di consumi e redditi tendenzialmente eguali forse si potrebbe pensare a una lotteria che estragga i fortunati che possono viaggiare. Saremmo disposti a vivere in questo mondo dove i nostri consumi sono continuamente controllati e dove ci fosse una stigmate sociale per chi possedesse qualche apparato elettronico più di quanto è necessario e qualche vestito in più di quanto la sua impronta ecologica concessagli gli permetterebbe di indossare. Magari qualche tecnologia di produzione dell’energia potrà essere aperta in contrapposizione alle tecnologie chiuse del consumo fossile e nucleare (ne dubito), ma la società che io mi prefiguro in base all’utopia di Satoi è una società chiusa e oppressiva, dove il capitale sociale di ognuno è dato dalla sua capacità di limitare i consumi.

A questa utopia di Satoi si può invece contrapporre un’altra utopia comunista, che a me pare più interessante e forse più aderente alle intenzioni emancipative del marxismo, ossia quella di Aaron Batani che qualche anno fa pubblicò un provocatorio saggio titolato Fully Automated Luxury Communism. L’idea di Bastani è che una società post-lavoro opulenta sia alla portata del nostro futuro tecnologico prossimo. L’automazione non rappresenta affatto un rischio, ma, al contrario, rappresenta la più efficace opportunità di realizzare l’utopia comunista della fine dell’alienazione con la fine del lavoro salariato. In una società dove tutti i processi di produzione siano completamente automatizzati, dove le macchine siano i nostri schiavi (che però non soffrono, non sono senzienti, non provano dolore, né, pertanto, desiderano emanciparsi) il problema della scarsità sarà largamente superato, perché tutti, in un regime di riciclo perfetto, potranno procurarsi tutto o quasi. Magari non sarà possibile per tutti avere una Maserati in garage da usare in settimana assieme a una Ferrari da utilizzare per scorazzare il weekend, ma non essendoci più il lavoro salariato e essendoci l’accessibilità totale a tutto ciò che soddisfa i nostri principali desideri, non ci saranno più le competizioni emotive per esibire la propria superiore capacità di consumo. Quindi, il capitale ci lancia una sfida che occorre raccogliere cavalcando la tigre ossia, fuor di metafora, è necessario accelerare l’ingresso delle tecnologie nelle nostre vite per avviarci verso il paradiso della piena automazione.

Entrambe queste versioni dell’utopia comunista sono ottimistiche, perché si basano sulla possibilità di realizzare un’ingegneria sociale a livello mondiale, anche se quella di Satoi è decisamente ansiogena, ma entrambe lasciano inesplorate alcune questioni che a me paiono poderose. Ne citerò alcune alla rinfusa. Come si dovrebbe produrre il consenso per passare a un regime di consumi in stile anni Settanta o al regno della piena automazione? Attraverso delle elezioni? Non sembrerebbe essere questo il caso di Satoi, che infatti rimprovera Bastani di prevederle, bollandolo come “populista di sinistra”. Ma se il consenso non si produce attraverso elezioni, allora dovrà essere la conseguenza di una rivoluzione. Le rivoluzioni, che notoriamente non si giocano con le regole del bridge, sarebbero violente nel caso di Satoi, perché dovrebbero concludersi con la presa del potere. Questo potere dovrebbe essere irreversibile, dal momento che si tratta di uno strumento per fuoriuscire dal capitalismo e non tornarci mai più. Nel caso di Bastani la presa del potere dovrebbe avvenire attraverso elezioni, ma a meno che queste elezioni non siano le ultime che si svolgono, si dovrà contemplare che elezioni successive non sostengano il programma del comunismo completamente automatizzato. Entrambe queste utopie presuppongono, inoltre, un vastissimo programma di controllo sociale a evitare che gli individui adottino comportamenti divergenti da modelli di consumo stile anni Settanta o non si adattino all’automazione completa. Nel caso di Bastani forse questo non sarebbe un problema, perché magari ci sarebbero delle macchine a rimediare ai comportamenti antisociali senza necessità di repressione, anche se è difficile immaginare come questo possa avvenire. Ma questo è un registro al quale le utopie non si mostrano mai sufficientemente sensibili. Proprio per questo la strada che disegnano conduce spesso alla realizzazione non dell’utopia salvifica, nel caso di Satoi, o paradisiaca, nel caso di Bastani, bensì degli incubi più concreti.

ENDOXA - BIMESTRALE FILOSOFIA

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