IL VOLTO DEMONIACO DEL POTERE, I MORALISTI E I LETTERATI

GIUSEPPE IERACI

Ormai un’ottantina di anni fa, Gerhard Ritter pubblicava il suo celebre Die Dämonie der Macht, dove contrapponeva il “tipo del puro machiavellico” agli utopisti e moralisti conosciuti in Erasmo da Rotterdam e Tommaso Moro. L’essenza demoniaca del potere, secondo Ritter, sta nel fatto che nessun ideale o valore riesce ad affermarsi se non è sostenuto dall’azione di potenza (Macht), cioè nessun interesse o valore può essere conseguito se chi lo sostiene non è disposto a combattere in modo “egoistico” per il suo raggiungimento, facendo valere la sua personale volontà contro coloro che gli si oppongono. Val la pena di richiamare che Macht va inteso pienamente nel senso che gli attribuiva Max Weber, come “qualsiasi possibilità di far valere entro una relazione sociale, anche di fronte ad un’opposizione, la propria volontà, quale che sia la base di questa possibilità.” Insomma, da un lato vi è l’impulso alla potenza e alla realizzazione violenta, o basata sulla forza, dei propri interessi e valori (l’essenza del potere e il machiavellismo), dall’altro la ricerca della virtù ordinata e pacifica dell’Utopia di Moro o dell’ideale groziano; di qua lo Stato moderno continentale, che ha fatto della guerra lo strumento del suo successo, di là lo Stato insulare atlantico, che non ha bisogno di eserciti stanziali di terra, che non deve opprimere i suoi cittadini con processi di “nazionalizzazione delle masse” e che può ripiegarsi su se stesso dedicandosi alla “politica interna”.

Nelle pagine conclusive del suo magnifico libro, Ritter scriveva: “Abbiamo bisogno di una teoria della potenza, che ci conduca oltre l’eterno contrasto fra il pensiero machiavellico e quello erasmiano, fra il pensiero continentale e quello insulare, e che riconosca e legittimi i desideri di tutt’e due le parti”. Non sono in grado di dire se questo sforzo sia mai stato compiuto, dubito che la soluzione proposta da C. Schmitt ne Il nomos della terra, con la subordinazione dell’atto bellico alle norme del diritto internazionale, una “giuridicizzazione” della guerra, costituisca una risposta. Ma è davvero necessario “sintetizzare” queste due cose, la potenza e l’ideale? Non possiamo felicemente – talvolta –, amaramente – più spesso – tenerci tesi (Macht) e antitesi (Wert) e conviverci?

C’è da dire che la potenza machiavellica non ha dato nei secoli un grande esempio di sé, questa potenza – come ben argomentano Ritter e Schmitt – si è incarnata nello Stato moderno, che dalla Guerra dei Trent’anni ai due conflitti mondiali del XX secolo ha sconvolto il continente europeo con devastazioni, deportazioni di massa, massacri, conquiste manu militari, pulizie etniche assortite, quasi sempre legittimate dal principio della nazionalità che forzatamente o artatamente si faceva coincidere con quello della statualità (lo Stato-Nazione). Così è apparso a tutti, e in particolare ai letterati che più inclinano verso l’ideale irenico dell’ordine costituito e pacifico, che lo Stato moderno altro non fosse se non un demoniaco costrutto, un Leviatano appunto, concepito per esercitare Macht e quindi impedire la libertà dell’individuo. Infatti, se ci pensiamo un attimo, affinché lo Stato moderno imponga pienamente la sua volontà di potenza, come condizione per realizzare le sue idealità (l’affermazione della nazionalità e della sua Kultur), deve riuscire a fare due cose. Innanzitutto, deve condizionare gli esseri umani, tanto da alienarli nell’astrazione della comunità nazionale che sopravviverebbe alla nostra durata fisica, cioè convincerci che è giusto e bello morire per la nazione. Mario Rigoni Stern ne I racconti di guerra narra di come non ancora ventenne, durante una tradotta militare che lo portava sulle Alpi occidentali, viaggi in uno scompartimento dove è affascinato da una giovane donna, e contemplandola e con lei l’incanto del paesaggio che stanno attraversando pensa che “È bello morire per l’Italia!”. Alienati così gli individui, lo Stato deve compiere un altro atto, questo forse ancora più prodigioso, e cioè destinare tutte o quasi tutte le risorse materiali e le ricchezze reperibili sul suo territorio a sé stesso, al suo rafforzamento, al perseguimento dei suoi scopi di potenza. Tassazione, espropri, prelievi forzosi, coscrizioni, obblighi, nazionalizzazioni: sono molte le leve “legittime” alle quali lo Stato è ricorso per “depredare” la comunità delle sue ricchezze e metterle al proprio servigio.

La letteratura distopica del XX secolo ha fornito svariate descrizioni degli effetti di questi due processi di affermazione della potenza dello Stato (alienazione dell’individuo, “accaparramento” delle risorse della comunità). In Noi Yevgeny Zamyatin, che ispirò profondamente George Orwell di 1984, descrive un mondo nel quale gli individui non hanno più nome, ma sono identificati da un numero, tutta la loro esistenza si svolge in pubblico, gli edifici non sono schermati ma realizzati in vetro e materiali trasparenti. A D-503, il protagonista, così come agli altri abitanti di questo universo concentrazionario, viene solo concessa un’ora serale d’intimità, quando è possibile schermare le vetrate della propria abitazione per compiere l’atto sessuale, ovviamente programmato con un sistema spersonalizzato di appuntamenti. Il controllo totalizzante del potere statale sull’individuo descritto in 1984 è a tutti molto noto, ma singolarmente anche per Julia e Winston l’unico atto libero è il sesso. Aldous Huxley in Brave New World addirittura elimina anche questa ultimo “fastidio” dell’essere umano (copulare), giacché la riproduzione è centralizzata e controllata dallo Stato, gli esseri umani sono programmati per morire relativamente giovani, così da realizzare pienamente i suoi scopi “Comunità, Identità, Stabilità”. Si potrebbe citare anche la divertente parodia di Woody Allen che ne Il dormiglione (The Sleeper) trasforma il sesso in una sorta di meccanico, rapido e insensato “onanismo di coppia”, facilitato dall’Orgasmatron. Il potere che controlla tutto e manipola tutto uccide la fantasia, elimina il bisogno dell’ “uscita dal sé” del quale parla Huxley ne The Doors of Perceptions o The Devils of Loudun. Anthony Burgess in 1985 (la risposta critica a Orwell) immagina un mondo contemporaneo dove tutto il superfluo è eliminato (arte, poesia, storia, letteratura, filosofia) e valgono solo le cose pratiche della scienza e della tecnologia. Ray Bradbury in Fahrenheit 451 immagina che il potere condizioni le menti degli individui con proiezioni subliminali e distrugga con il fuoco i libri, visti come una minaccia o una resistenza. Infine, Philip Dick ne The Man in the High Castle è più diretto ed esplicito, immaginando che le potenze dell’Asse abbiamo vinto la II GM e ridotto a servaggio tutta l’umanità, così realizzando pienamente i loro scopi di potenza.

Tutte queste distopie hanno un punto di contatto significativo, e cioè la trasformazione delle comunità politiche in garrison states, come li chiamava opportunamente Harold D. Lasswell, cioè mondi – nelle parole stesse di Lasswell – nei quali “gli specialisti della violenza sono il gruppo più potente nella società” e aggiungeva: “Gli uomini degli apparati militari che dominano una società tecnica moderna saranno diversi dagli ufficiali che abbiamo conosciuto attraverso la storia e la tradizione. È probabile che gli specialisti della violenza includano nella loro formazione una misura estesa di competenza in molte delle attività che tradizionalmente abbiamo accettato come parte delle capacità del funzionariato civile moderno”. Insomma, gli specialisti della violenza si sostituiscono ai burocrati o funzionari pubblici e ai politici (in Italia, la gestione della campagna vaccinale anti-COVID fu per esempio demandata a un generale), anche se Lasswell non ritiene questo sviluppo ineludibile.

Una “teoria della potenza” che concili la presenza opprimente degli “specialisti della violenza” e il bisogno di libertà dell’individuo non c’è, ma viene da chiedersi se l’accentuazione dei tratti leviatanici del potere statale nella letteratura distopica, e non solo, risulti da un errore di prospettiva, o forse sarebbe meglio dire dall’assenza di una prospettiva. In un’immagine prospettica, l’occhio umano è guidato da più punti di vista o “di fuga”, che danno volume a ciò che è raffigurato. La letteratura distopica ha invece una visione piatta, priva di “profondità prospettica”, come le tavole pittoriche del medioevo. La libertà può essere intesa in prima battuta – giusta la lezione di Isaiah Berlin e di Felix Oppenheim – come “negativa”, ossia come “assenza d’impedimento”. Tuttavia, l’assenza d’impedimento all’azione individuale presuppone un’area estesa di “pacificazione”, ossia l’estensione del controllo sui comportamenti individuali. Se gli individui fossero totalmente privi d’impedimenti (controlli), la libera totale azione dovrebbe prevedere – o rendere possibile – anche la sopraffazione dell’altro, ma la civilizzazione, come la chiamava Norbert Elias, impone invece vincoli forti all’individuo che sono sia auto che etero-costrizioni. Le auto-costrizioni sono il frutto di processi di condizionamento dei comportamenti e delle attitudini, come si vede negli atti pratici della “civiltà delle buone maniere” (nessuno – normalmente – copula in pubblico, urina o defeca per strada, si porta il piatto alla bocca e cose similari, ma si consideri che questi atti erano invece normalmente pubblici prima che i nostri comportamenti venissero condizionati). Le etero-costrizioni sono invece l’esito del controllo del potere, della sua azione repressiva ex-post e della minaccia ex-ante di un intervento sanzionatorio (normalmente – non uccidiamo, non stupriamo, non rubiamo, non perché siamo intimamente buoni – stupri, assassini e furti erano comportamenti molto diffusi nel mondo pre-civilizzato – ma perché il terrore delle conseguenze e delle punizioni che ci possono essere inflitte ci inibisce e ci frena). Lo Stato moderno – piaccia o non piaccia – è stato e tuttora è il principale agente nello sviluppo delle auto ed etero-costrizioni. Qui abbiamo un secondo punto prospettico, accanto al primo della libertà incontrastata, che come Wert non può essere realizzata se non si dà una qualche misura di Macht che delimiti lo spazio entro il quale sono possibili i comportamenti “liberi”. Per rendere possibile la sua libertà, l’uomo si è dovuto inventare la sua negazione (Macht), o meglio organizzare questa negazione nel costrutto socio-politico più complesso che abbiamo mai conosciuto: lo Stato moderno. Non c’è sintesi dunque, ma tesi (potenza) e antitesi (libertà) che si contrappongono in una tensione senza fine.

ENDOXA - BIMESTRALE FILOSOFIA LETTERATURA

1 Comment Lascia un commento

  1. Carissimo,

    Bellissima (e amara) riflessione…il problema e’ che non soltanto manca una sintesi teorica fra le due forze antitetiche che citi, ma nella realta’ pragmatica Il potere degli uomini che detengono ed esercitano il monopolio legittimo della Forza (e violenza) risulta sempre piu’ pervasivo, ma sempre meno legittimato da un punto di vista di un’investitura popolare. Negli ormai pochi paesi occidentali ancora democratici, il livello di astensione elettorale supera costantemente Il 50%, mentre nel resto del mondo, a partire dall’Africa, la legittimita’ popolare sta diventando una variabile insignificante..Insomma, le varie distopie di cui parli stanno concretizzandosi secondo modalita’ differenziate a seconda dei vari paesi e contesti, ma avanzando rapidamente dappertutto…

    Un caro saluto.

    Luca

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