IN/ATTUALITÀ DEL PRINCIPIO SPERANZA – EDITORIALE
PIER MARRONE
Qualche giorno fa sentivo citare in una trasmissione radio i risultati di una ricerca sulla infelicità dalla quale sarebbe risultato che per la popolazione generale la fascia di età con la più intensa infelicità è mediamente quella tra i 9 e i 16 anni. Negli stessi giorni guardavo la serie Adolescence su Netflix, una serie già da record, apprezzata da milioni di spettatori in pochissimi giorni. La vicenda è drammatica. Un ragazzino di buona famiglia, lui stesso il classico bravo ragazzo, con ottimi voti nell’istituto che frequenta, è accusato di un brutale omicidio ai danni di una compagna di scuola. Con ogni probabilità il sesso non c’entra, ma c’entra piuttosto il bullismo che il ragazzino ha subito. Le speranze di una vita recisa, le speranze di intere famiglie, le speranze per il futuro del ragazzo sono spazzate via in pochi istanti.
Mi è sembrato facile collegare questi due eventi, perché l’adolescenza è l’epoca della formazione delle aspettative consapevoli e a medio e a lungo termine (è nell’adolescenza che mi resi conto che avrei voluto fare il professore di filosofia), che sono ben differenti dalle aspettative che una bambina o un bambino possono avere nell’infanzia e che sono maggiormente collegate alla soddisfazione a breve termine dei propri desideri. Non è forse un caso che uno dei desideri che gli adolescenti vogliono realizzare, ma che non possono anticipare in alcun modo, è quello di essere maggiorenni, ossia indipendenti, responsabili pienamente anche dal punto di vista legale. Queste intense speranze sono destinate, almeno molte di loro, a conoscere la disillusione. E forse per questo che l’adolescenza è anche l’età della disperazione e dei giorni grigi, se non della “grigia miseria” che molti anni fa associai, su suggerimento di Erich Auerbach, a I Fiori del male di Charles Baudelaire.
Non è sorprendente che un adolescente sia attratto dal male, sia perché quella è un’epoca di sperimentazione e trasgressione sia perché è anche l’epoca dell’irresponsabilità nella quale tutto pare possibile. La vita ci costringe a venire a patti con le nostre aspettative, a considerare che non tutto, e anzi: quasi niente, ci è dovuto, a pensare alle altre persone come centri di interessi indipendenti da noi, a ridimensionare la nostra volontà di potenza per tramite della semplice esistenza degli altri che sono il potere frenante alle nostra ambzioni e alla realizzazione dei nostri desideri, ma sono pure i mezzi attraverso i quali noi cerchiamo di realizzare e dare corso almeno a parte delle nostre speranze.
A metà degli anni Cinquanta del Novecento Ernst Bloch dava alle stampe una sua monumentale opera, Il principio speranza, sulla quale sarebbe poi ritornato in successive edizioni. La speranza è figlia dei sogni ad occhi aperti e del resto, come ci dice Shakespeare ne La tempesta, c’è una profonda affinità tra noi e i nostri sogni, poiché siamo fatti della stessa materia. Non possiamo fare a meno di sognare e per lo stesso motivo non possiamo fare a meno di sperare. Possiamo apprendere a sperare? Per Bloch questo è possibile, ed è anzi nello spirito dell’utopia poterlo apprendere. Ma che cosa significa qui apprendere? Apprendere a sognare? Certamente no. Apprendere a sperare all’interno delle realtà mediamente possibili per la popolazione generale? Per Bloch questo equivarrebbe a nutrire sogni piccolo borghesi. La speranza autentica è per Bloch, in un certo senso, famelica, perché non è mai paga di conoscere che cosa ci fa desiderare di raggiungere un qualche scopo e quali sono gli strumenti e quali sono gli alleati per raggiungere questo scopo. È una concezione strumentale della razionalità che serve i desideri della speranza? Probabilmente non è scorretto intenderla in questa maniera, ma il carattere inarrestabile per Bloch della speranza suggerisce che il suo indirizzo è un tentativo di realizzare un qualche ideale rivoluzionario.
La speranza autentica non può non essere speranza politica. Non è semplicemente sperare in un mondo migliore, nè semplicemente avere l’accortezza di lasciare alle generazioni future un mondo migliore di quello che abbiamo ricevuto. Questi obiettivi sarebbero ancora una volta rinunciatarie ambizioni piccolo-borghesi. L’ambizione della speranza, ovvero della sua concezione normativa della speranza, che non ha molto a che fare con una descrizione fenomenologica della speranza, è di molto maggiore. È la creazione dell’utopia concreta, della magia rivoluzionaria che riunisce in sé le ambizioni e le speranze di tutti gli uomini.
Ma come faceva a sapere Bloch che queste ambizioni e queste speranze siano le stesse, al fondo, per tutti gli uomini e in tutte le epoche, sebbene modulate diversamente, conformemente ai differenti contesti storici? Ovviamente non lo sapeva, ma voleva sperarlo. Non è un caso che nel 1968, anno di grandi speranze normative, Bloch abbia pubblicato un libro che si intitolava Ateismo nel cristianesimo, dove due figure mi sembrano soprattutto centrali: il Cristo che sulla croce invoca il Padre che lo ha abbandonato e Thomas Müntzer, discepolo di Lutero e agitatore nella sanguinosa guerra contadina che infiammò una parte importante dell’Europa (con propagini anche in Trentino) a partire dal 1524.
Bloch in questa rivolta sanguinosa rintraccia le stigmate (è il caso di dirlo) dell’utopia che cerca di realizzarsi lungo la strada rivoluzionaria. Ma se la speranza è vorace, la rivoluzione non può che essere permanente. E, in definitiva, noi abbiamo conosciuto una rivoluzione permanente, che non è però quella immaginata da Lev Trotskij, ma è quella espressa dalle capacità camaleontiche del capitalismo, capace di reiventarsi e di essere qualsiasi cosa, pur di produrre ricchezza e vendere le merci. La speranza politica di Bloch rifiuta però questa rivoluzione ovviamente e si rifugia nel sogno della liberazione dei vincoli materiali per promuovere il regno adolescenziale dell’abbondanza dove i sogni finalmente si realizzeranno. Non con la speranza, ma con la quasi assoluta certezza che si tratterà di incubi, senza tener conto che per distribuire le ricchezze che alle speranze danno corpo, bisogna prima essere capaci di produrle.
Qualche giorno fa sentivo citare in una trasmissione radio i risultati di una ricerca sulla infelicità dalla quale sarebbe risultato che per la popolazione generale la fascia di età con la più intensa infelicità è mediamente quella tra i 9 e i 16 anni. Negli stessi giorni guardavo la serie Adolescence su Netflix, una serie già da record, apprezzata da milioni di spettatori in pochissimi giorni. La vicenda è drammatica. Un ragazzino di buona famiglia, lui stesso il classico bravo ragazzo, con ottimi voti nell’istituto che frequenta, è accusato di un brutale omicidio ai danni di una compagna di scuola. Con ogni probabilità il sesso non c’entra, ma c’entra piuttosto il bullismo che il ragazzino ha subito. Le speranze di una vita recisa, le speranze di intere famiglie, le speranze per il futuro del ragazzo sono spazzate via in pochi istanti.
Mi è sembrato facile collegare questi due eventi, perché l’adolescenza è l’epoca della formazione delle aspettative consapevoli e a medio e a lungo termine (è nell’adolescenza che mi resi conto che avrei voluto fare il professore di filosofia), che sono ben differenti dalle aspettative che una bambina o un bambino possono avere nell’infanzia e che sono maggiormente collegate alla soddisfazione a breve termine dei propri desideri. Non è forse un caso che uno dei desideri che gli adolescenti vogliono realizzare, ma che non possono anticipare in alcun modo, è quello di essere maggiorenni, ossia indipendenti, responsabili pienamente anche dal punto di vista legale. Queste intense speranze sono destinate, almeno molte di loro, a conoscere la disillusione. E forse per questo che l’adolescenza è anche l’età della disperazione e dei giorni grigi, se non della “grigia miseria” che molti anni fa associai, su suggerimento di Erich Auerbach, a I Fiori del male di Charles Baudelaire.
Non è sorprendente che un adolescente sia attratto dal male, sia perché quella è un’epoca di sperimentazione e trasgressione sia perché è anche l’epoca dell’irresponsabilità nella quale tutto pare possibile. La vita ci costringe a venire a patti con le nostre aspettative, a considerare che non tutto, e anzi: quasi niente, ci è dovuto, a pensare alle altre persone come centri di interessi indipendenti da noi, a ridimensionare la nostra volontà di potenza per tramite della semplice esistenza degli altri che sono il potere frenante alle nostra ambzioni e alla realizzazione dei nostri desideri, ma sono pure i mezzi attraverso i quali noi cerchiamo di realizzare e dare corso almeno a parte delle nostre speranze.
A metà degli anni Cinquanta del Novecento Ernst Bloch dava alle stampe una sua monumentale opera, Il principio speranza, sulla quale sarebbe poi ritornato in successive edizioni. La speranza è figlia dei sogni ad occhi aperti e del resto, come ci dice Shakespeare ne La tempesta, c’è una profonda affinità tra noi e i nostri sogni, poiché siamo fatti della stessa materia. Non possiamo fare a meno di sognare e per lo stesso motivo non possiamo fare a meno di sperare. Possiamo apprendere a sperare? Per Bloch questo è possibile, ed è anzi nello spirito dell’utopia poterlo apprendere. Ma che cosa significa qui apprendere? Apprendere a sognare? Certamente no. Apprendere a sperare all’interno delle realtà mediamente possibili per la popolazione generale? Per Bloch questo equivarrebbe a nutrire sogni piccolo borghesi. La speranza autentica è per Bloch, in un certo senso, famelica, perché non è mai paga di conoscere che cosa ci fa desiderare di raggiungere un qualche scopo e quali sono gli strumenti e quali sono gli alleati per raggiungere questo scopo. È una concezione strumentale della razionalità che serve i desideri della speranza? Probabilmente non è scorretto intenderla in questa maniera, ma il carattere inarrestabile per Bloch della speranza suggerisce che il suo indirizzo è un tentativo di realizzare un qualche ideale rivoluzionario.
La speranza autentica non può non essere speranza politica. Non è semplicemente sperare in un mondo migliore, nè semplicemente avere l’accortezza di lasciare alle generazioni future un mondo migliore di quello che abbiamo ricevuto. Questi obiettivi sarebbero ancora una volta rinunciatarie ambizioni piccolo-borghesi. L’ambizione della speranza, ovvero della sua concezione normativa della speranza, che non ha molto a che fare con una descrizione fenomenologica della speranza, è di molto maggiore. È la creazione dell’utopia concreta, della magia rivoluzionaria che riunisce in sé le ambizioni e le speranze di tutti gli uomini.
Ma come faceva a sapere Bloch che queste ambizioni e queste speranze siano le stesse, al fondo, per tutti gli uomini e in tutte le epoche, sebbene modulate diversamente, conformemente ai differenti contesti storici? Ovviamente non lo sapeva, ma voleva sperarlo. Non è un caso che nel 1968, anno di grandi speranze normative, Bloch abbia pubblicato un libro che si intitolava Ateismo nel cristianesimo, dove due figure mi sembrano soprattutto centrali: il Cristo che sulla croce invoca il Padre che lo ha abbandonato e Thomas Müntzer, discepolo di Lutero e agitatore nella sanguinosa guerra contadina che infiammò una parte importante dell’Europa (con propagini anche in Trentino) a partire dal 1524.
Bloch in questa rivolta sanguinosa rintraccia le stigmate (è il caso di dirlo) dell’utopia che cerca di realizzarsi lungo la strada rivoluzionaria. Ma se la speranza è vorace, la rivoluzione non può che essere permanente. E, in definitiva, noi abbiamo conosciuto una rivoluzione permanente, che non è però quella immaginata da Lev Trotskij, ma è quella espressa dalle capacità camaleontiche del capitalismo, capace di reiventarsi e di essere qualsiasi cosa, pur di produrre ricchezza e vendere le merci. La speranza politica di Bloch rifiuta però questa rivoluzione ovviamente e si rifugia nel sogno della liberazione dei vincoli materiali per promuovere il regno adolescenziale dell’abbondanza dove i sogni finalmente si realizzeranno. Non con la speranza, ma con la quasi assoluta certezza che si tratterà di incubi, senza tener conto che per distribuire le ricchezze che alle speranze danno corpo, bisogna prima essere capaci di produrle.
ENDOXA - BIMESTRALE FILOSOFIA Endoxa marzo 2025 Pier Marrone Speranza
