LA SCOMMESSA DELLA SPERANZA: CRISTOPHER LASCH, IL PROGRESSO E IL REALISMO CRISTIANO
CARLO MARSONET
Un pensatore contro il progresso… o no?
Per comodità, si suole etichettare filosofi e pensatori. Il motivo è presto spiegato: l’uomo ha bisogno di costruire schemi mentali attraverso i quali catalogare e, così, provare a meglio comprendere la dimensione del reale. Christopher Lasch (1932-1994), ad esempio, è tendenzialmente descritto come un pensatore critico dell’idea di progresso, e con ragione. È d’altronde lui stesso che organizza uno dei suoi lavori più noti, Il paradiso in terra (1991), proprio attorno alla critica del lemma “progresso”. Vi sono dunque pochi dubbi al riguardo. Eppure, è interessante rilevare come il suo discorso ostile a un dogma, se non il dogma della modernità, assume sfumature più complesse e meno lineari di quanto si pensi. Che cos’è infatti il progresso? Esso si determina in base a quali termini di riferimento o paragone? E poi: è costituito da caratteristiche sue proprie che lo rendono immune da interpretazioni diverse? Queste sono alcune delle domande a cui è necessario rispondere prima di giungere alla conclusione che Lasch sia un pensatore che rifiuta il progresso.
Va però posta una essenziale premessa. Lasch non era un filosofo e non disponeva di quella finezza concettuale, frutto di letture approfondite, che possiamo per esempio riscontrare in un suo contemporaneo, Robert Nisbet. Lasch era uno storico, un critico sociale e un sociologo. Consultando il copioso archivio delle sue carte conservato presso l’Università di Rochester dove egli insegnò dal 1970 in poi, si può affermare che molti argomenti ad esempio contenuti nel volume del 1991 non erano l’esito di riflessioni di lungo periodo. Intendiamoci: il tema del progresso lo ha interessato fin da giovane, ma questo non si è poi concretizzato in letture sistematiche sull’argomento. Del resto, ciò è ben visibile proprio nel volume. Vengono infatti posti in una ipotetica linea di pensiero autori anche i più diversi tra loro ma accomunati, secondo Lasch, dall’ostilità nei confronti del progresso. Fatta questa doverosa considerazione preliminare, è evidente che però Lasch, nonostante ciò o forse proprio per questo motivo, ha posto i termini della questione sotto una luce che molti autori, probabilmente troppo schierati a favore dello stesso tema di ricerca e dunque compromessi ideologicamente, non sono stati in grado di esplicitare. Si può essere al contempo favorevoli al progresso rimanendone critici? La risposta è affermativa, se viene chiarito che il progresso può assumere connotati diversi.
L’impostazione che Lasch dà al problema è la seguente: il tema non può essere ridotto al suo farsi ideologia. Detto altrimenti, il progresso non può significare semplicemente andare avanti, non si sa bene verso quale meta, mentre la tendenza interpretativa più invalsa segue proprio questa strada. Se il progresso è identificato in maniera simbiotica col cambiamento, allora Lasch si pone fuori dalla questione. È dunque l’ideologia del progresso che Lasch aborre: non l’idea in sé, ma la sua idolatria. L’ideologia per cui il progresso identifica l’ampliamento delle possibilità dell’uomo sia in termini economici o sociali, tecnologici o scientifici. Il discorso va dunque, nella sua ottica, totalmente reimpostato. Non tutto ciò che è nuovo è un progresso; non tutto ciò che è diverso rispetto a ciò che è stato è buono. Non è pertanto pensabile l’idea di progresso senza la sua controparte conservatrice, cioè la tradizione. Quello che va rilevato è il fine del ragionamento laschiano, che si riduce in buona sostanza alla tutela della persona umana e di un ordine che in qualche modo sia fatto a sua misura.
Un fine che politicamente tanto i progressisti quanto quelli che si fanno chiamare conservatori non tengono in considerazione. Nella sua critica, Lasch considera l’intero spettro politico americano del suo tempo ideologicamente schierato a favore del progresso. E proprio per questo motivo fu presto isolato sul piano intellettuale, almeno dagli anni Settanta, quando cioè le sue posizioni mutarono verso un crescente conservatorismo culturale (per alcuni dai tratti reazionari, per altri nostalgici). La sinistra lo aveva abbandonato, ma forse è più corretto dire il contrario. La destra “conservatrice” era per Lasch tutto tranne che tale: l’emblema di quest’ossimoro, per lui, era Ronald Reagan. Pur riconoscendogli il merito, almeno a parole, di schierarsi dalla parte del common people e della tradizione, Reagan rimaneva fondamentalmente un liberal, un progressista. I conservatori del suo tempo, sosteneva Lasch, erano molto preoccupati del progressivo affrancamento dal passato e dal cambiamento come motore di sviluppo e benessere, non già di conservare quel di cui aveva bisogno la persona comune. Così si può leggere ne Il paradiso in terra: «i “valori tradizionali” di Reagan (…) avevano poco a che fare con la tradizione. Riassumevano piuttosto il codice del cowboy, dell’uomo in fuga dai suoi antenati, dalla sua famiglia e da qualsiasi cosa lo legasse e limitasse la sua libertà di movimento. Reagan – proseguiva Lasch – faceva leva sul desiderio di ordine, di continuità, di responsabilità e disciplina, ma il suo programma non conteneva niente che potesse soddisfare simili desideri. Al contrario, il suo programma mirava a promuovere la crescita economica e la libera iniziativa commerciale, cioè proprio le forze che hanno minato la tradizione».
La speranza, ovvero della fiducia nella vita stessa
Alla base dell’ideologia del progresso risiede una visione ottimistica delle faccende umane. Tutta la modernità per Lasch altro non è che la concretizzazione di questo principio: l’uomo può conquistare la natura e plasmare il mondo a suo piacimento. Non esiste limite oltre il quale l’uomo non possa andare. È dunque la radice stessa di un’idea di modernità che Lasch rinnega, cioè quella classica di ampliamento delle possibilità umane, di «dissacrazione» e «illegittimità», per dirla con José Ortega y Gasset, rispetto a ciò che è stato. La modernità come arricchimento e «vita senza valori sacri» comporta per Lasch una perdita secca. E ciò significa smarrire di un’idea di vita buona e di condotta umana molto più umile e reverenziale rispetto all’ordine naturale. Un’idea costruita attorno a quello che chiama «l’argomento proibito: i limiti».
Tutto il discorso alternativo di Lasch si basa sull’idea che l’uomo sia una creatura limitata per natura e che non debba, pertanto, cercare di bypassare la propria condizione, quanto piuttosto accettarla per ciò che è. Tale argomento si appoggia su un altro elemento, intrinsecamente legato a quello di limite, cioè la speranza. Essa è l’alternativa all’ottimismo su cui è imperniata invece l’ideologia progressista. La fede cieca e incondizionata nel fatto che il domani sarà migliore dell’oggi e che il cambiamento in quanto tale sia non solo auspicabile ma anche l’unica via giusta, «the true and only heaven», come recita il titolo originale del volume del 1991, è la soluzione che l’uomo moderno ha scelto. Ma è anche la più comoda e semplice da seguire, secondo Lasch. Non si tratta, a ben vedere, dell’opzione che guarda in faccia la realtà senza infingimenti né illusioni, quanto piuttosto della scorciatoia resa possibile dalle scoperte scientifiche e dalla tecnologia. Ciò che manca all’ottimismo è quella dimensione tragica della vita che è al contrario parte costitutiva della virtù della speranza.
In una serie di conferenze sul tema del progresso tenute qualche anno prima del libro, ovvero nel 1987, Lasch aveva già posto i termini della questione. Lo spirito inquisitivo tipicamente progressista andava contrastato con uno spirito più prudenziale e reverenziale nei confronti del creato, tipico invece della religione cristiana. Il messaggio più profondo di quest’ultima si riassumeva nell’ «amare la vita anche se non è organizzata attorno al raggiungimento dei desideri umani. La religione ci esorta ad accettare la nostra dipendenza da forze che non possiamo controllare non come una fonte di disperazione, bensì come condizione del nostro essere e come la fonte di quel tanto di felicità che possiamo aspettarci di vivere». Da quest’attitudine deriva il ripudio per la tentazione di ribellarsi alla propria condizione e tale disposizione, conseguentemente, invita a riscoprire la «gratitudine e la speranza, una gioiosa affermazione della giustezza di un mondo che non è stato creato per il nostro particolare beneficio». Rispetto all’ottimismo, la speranza implica una fede radicata nella vita stessa, è davvero un investimento rischioso nel futuro: più ancora, una scommessa «ad andare fino in fondo anche quando le cose non vanno per il meglio».
La modernità, o come Lasch preferisce chiamarla, «il progetto moderno», ha posto l’uomo al centro della creazione e lo ha reso, ebbro dei propri successi materiali, incapace di fare i conti con gli imprevisti che la realtà di tanto in tanto presenta. La speranza contiene un elemento realista e, ancora più, probabilmente, di natura tragica: la vita non va sempre per il meglio e ciò che l’uomo può fare è profondere tutte le energie di cui dispone per far fronte alle asperità che la vita di volta in volta propone e, ancor meglio, impone. In questo senso, la speranza «implica una fiducia profondamente radicata nella vita, che appare assurda a chi non l’ha. Si nutre, più che della fede nel futuro, della fede nel passato»: l’ottimista, il quale crede nel progresso alla stregua di una fede secolarizzata, quasi come fosse il motore necessario della storia, non è pronto a scontrarsi con le durezze dell’esistenza umana, mentre chi nutre speranza manifesta una predisposizione caratteriale di tipo realista e prudenziale, una «disciplina spirituale contro il risentimento», per riprendere un’espressione di Reinhold Niebuhr, per la vita che lo rende più resistente ai fallimenti e alle delusioni.
Come ha scritto nell’ultima parte de Il paradiso in terra, «se le ideologie progressiste si sono ridotte alla malinconica, disperata speranza [hope against hope, nell’originale] che tutto, in qualche modo, si aggiusterà, dobbiamo recuperare una forma più vigorosa di speranza, che ci permetta di credere nella vita senza negare il suo carattere tragico e senza cercare di spiegare la sua tragicità come una forma di “ritardo culturale”». E ancora: «L’ottimismo progressista si basa, in definitiva, sulla negazione dei limiti che la natura pone al potere e alla libertà dell’uomo, e non può sopravvivere a lungo in un mondo in cui è ormai impossibile sfuggire alla consapevolezza di quei limiti». La visione etico-politica di Lasch affermava «quella disposizione di spirito propriamente definita come speranza, fiducia o meraviglia – tre nomi per lo stesso atteggiamento della mente e del cuore – [la quale] afferma la bontà della vita di fronte ai suoi limiti». Per adottare un’espressione di Edmund Burke piuttosto calzante, Lasch intendeva riaffermare «le grazie naturali della vita» (the unbought graces of life).
Un realista cristiano?
In diversi interventi Lasch critica il progressismo e l’ottimismo cieco su cui è esso costruito per i tratti gnostici che manifestano. La promessa di salvezza terrena e di miglioramento costante del mondo, di matrice tipicamente gnostica, era quanto Lasch riconduceva all’idea di perfettibilità umana fatta propria dalla modernità progressista e liberale. Un’idea, in sostanza, che alimenta una rivoluzione terrena permanente, con la distruzione di qualsiasi cosa dia stabilità e continuità all’uomo: un punto che Eric Voegelin certamente aveva intravisto nei totalitarismi millenaristici, ma anche nel progressismo di cui è insita la dottrina liberale. Una materia analizzata in maniera assai simile, del resto, anche da Augusto Del Noce, secondo il quale pure il progressismo può condurre a una forma di totalitarismo, nella misura in cui distrugge non solo l’incertezza e la precarietà dell’essere umano, elementi fondamentali della sua libertà, ma pure le virtù teologali: fede, speranza e carità.
L’ideologia del progresso ha per Lasch tratti gnostici innegabili. Il miglior antidoto a questo sentiero pericoloso era per lui costituito dal cristianesimo. Spesso sottaciuto negli studi a lui dedicati, Lasch mostrò soprattutto nel corso degli anni Ottanta un forte afflato religioso. In una delle più significative conferenze che tenne, nel 1985, egli esplicitamente indicò la religione cristiana come la vera e unica alternativa all’ideologia del progresso. È solo da essa che si può trarre l’insegnamento che l’uomo è una creatura fragile e limitata: il realismo morale di cui è impregnata consente di comprendere come il mondo non si concluda con la fine dell’esistenza individuale. La religione, per lui, consente all’uomo di venire a patti con la propria esistenza imperfetta, senza per questo disprezzarla, ma anzi traendo importanti insegnamenti per esperire al meglio la propria libertà in vista dell’autogoverno democratico: «la religione – afferma altrove – non è solo un rifugio, un mezzo di sicurezza in un mondo tormentato. È anche una sfida all’autocommiserazione e alla disperazione (…). La sottomissione a Dio rende le persone meno sottomesse nella vita quotidiana. Le rende meno timorose, ma anche meno amareggiate e risentite, meno inclini a trovare scuse per se stesse».
Il realismo morale cristiano, a cui Lasch può essere ricondotto, pone enfasi sulla caducità e la precarietà dell’essere umano al mondo. Ne risulta, per Lasch, che la metafora del progresso è errata per indicare la condizione dell’uomo: l’ideologia del progresso «si basa sull’illusione che la civiltà moderna possa sfuggire ai vecchi ritmi di crescita e declino, degenerazione e rinnovamento. Prima ci rinunciamo, prima possiamo dare ai posteri qualcosa in cui sperare». L’ideologia del progresso, secondo Lasch, altro non fa che stimolare l’uomo a sentirsi padrone assoluto al mondo. È diventata un idolo, e financo la base di una religione secolare che pone al centro l’uomo stesso. Al contrario, per lui l’uomo non è e non sarà mai una creatura dai tratti semi-divini, né potrà pensare di creare una città di Dio dai tratti umani: esso rimane un essere umile e fragile. E la religione serve proprio all’uomo a ricordargli la propria posizione relativa nella creazione: essa «ci spinge ad accettare la nostra dipendenza da forze incontrollabili non come una fonte di disperazione, ma come la condizione del nostro essere, e come tale la fonte di qualsiasi felicità che possiamo accettare di godere». «Rendiamoci dunque conto delle nostre possibilità: noi siamo qualcosa, ma non siamo tutto; quel tanto di essere che possediamo ci toglie la conoscenza dei primi principi che nascono dal nulla, e quel poco di essere che possediamo ci nasconde la vista dell’infinito», aveva affermato Blaise Pascal. Fino alla fine della propria vita, Lasch dimostrò di aver fatto propria, con disincanto e realismo, la tragicità del vivere umano: la speranza è la chiave della fede nella vita per come essa è.
ENDOXA - BIMESTRALE FILOSOFIA SOCIOLOGIA Carlo Marsonet Endoxa marzo 2025 Speranza
