ONNI(M)POTENZA DIVINA? RIFLESSIONI QUASI LEVINASSIANE SULLA TRASCENDENZA
FERDINANDO MENGA
- Al di qua d’onnipotenza e impotenza
Porsi il problema della (onni)potenza divina impone non pochi indugi metodologici preliminari, non solo a causa dell’assai difficile circoscrivibilità fenomenologica di tale ambito d’esperienza, ma anche per l’intricata stratificazione dei discorsi, che lungo la tradizione del pensiero, si sono intrattenuti su tale tema.
Per questo motivo, scelgo di proporre sin da subito una limitazione di campo forse drastica, ma che al contempo mi consente di elaborare un ragionamento auspicabilmente compiuto nello spazio che un breve contributo concede. Si tratta, per la precisione, di una determinata ipotesi che vorrei sviluppare, secondo la quale una certa interrogazione sull’onnipotenza, se rimanda a qualcosa come una trascendenza (divina?), lo fa mettendo proprio in discussione la tenuta stessa della semantica del potere.
Ma perché mai voler cercare, per principio, una possibile configurazione della trascendenza oltre il potere o la possibilità di una trascendenza che, per lo meno, resista al potere? A mio avviso, ci sono diverse buone ragioni per far questo. Quella che mi preme qui sottolineare maggiormente è data dalla nota circostanza per cui il (presunto) potere di Dio non si manifesta nel mondo o nella storia proprio nei frangenti in cui più dovrebbe farlo. La qual cosa costringe poi a considerevoli sforzi di spiegazione o giustificazione, come quelli di cui si è popolata l’intera nostra tradizione del pensiero filosofico, teologico o, generalmente, religioso: dal discorso di una teodicea che cerca di conciliare l’onnipotenza di Dio con l’esistenza del male a quello di un’ammissione della non completa onnipotenza di Dio al fine di salvaguardarne la bontà, fino a sottili rimodulazioni del modo di articolazione stesso dell’onnipotenza di Dio attraverso la scelta della sua impotenza.
Quali che siano le strategie argomentative, più o meno calibrate su una salvaguardia della potenza di Dio o su un suo depotenziamento, ogni impostazione che connota l’esperienza della trascendenza in rapporto al potere detiene degli elementi problematici che pongono in un imbarazzo difficilmente superabile. Questo mi consente, perciò, di avanzare una domanda o un’ipotesi: e se ci fosse per caso una possibilità di configurazione dell’esperienza della trascendenza divina oltre la semantica del potere? E se una tale configurazione ci mettesse, inoltre, in grado di far affiorare dei caratteri essenziali di tale esperienza oscurati proprio dalla predominante fissazione a ridurre tutto al potere?
Porsi fenomenologicamente un tale interrogativo implica innanzitutto la determinazione di un campo d’esperienza che indichi in tale direzione. È proprio qui che la filosofia di Emmanuel Levinas ci viene in aiuto. Questo autore, in effetti, ci indica come una tale tipologia d’esperienza non solo possa, ma debba essere rinvenuta genuinamente nell’incontro etico con l’altro, laddove il comandamento di non uccidere, che proviene dal suo volto, non è propriamente collocabile in nessun luogo del mondo, giacché esso ci interpella prima ancora di entrare nello spazio della presenza immanente e materiale; vale a dire, prima ancora che tale volto si manifesti come oggetto identificabile e di per sé dotato di una “capacità” tale da impedire un’azione nei suoi confronti. Insomma, il volto dell’altro non compare come titolare di una forza individuabile in uno schieramento di poteri e contro-poteri. Si tratta piuttosto di un incontro etico, per l’appunto, che, sempre secondo Levinas, si consuma in un’esperienza di trascendenza irriducibile all’apparenza o al «fenomeno»: «epifania» di un richiamo che «proviene da un fuori» – così la definisce, per la precisione, Levinas – che non risulta dotata né di potenza né di impotenza, ma che alla logica stessa del potere sfugge, incidendovi però come la sospensione stessa della sua applicabilità (Levinas, Enigma e fenomeno, passim). Non è un caso, allora, che Levinas si soffermi nell’evidenziare che di fronte al volto dell’altro non ci si trova nella situazione per cui questo «supererebbe le mie forze troppo deboli» (Levinas, La filosofia e l’idea di infinito, p. 198), ma davanti al fatto radicale che «non posso più potere» (ibidem). Ancor più precisamente, in un passaggio di Totalità e infinito Levinas asserisce: «L’espressione che il volto introduce nel mondo non sfida la debolezza del mio potere, ma il mio potere di potere» (p. 203).
Per quanto a tutta prima disorientante, questa espressione ci dice, in ultima analisi, qualcosa di piuttosto semplice: il volto dell’altro, che comanda di non uccidere, non si sottrae al potere perché è rivestito di una forza maggiore di quella che di volta in volta può minacciarne la sopravvivenza. Nel volto dell’altro si esprime, invece, una «resistenza etica» (Levinas, La filosofia e l’idea di infinito, p. 199) – così la caratterizza Levinas – tale da mettere in cortocircuito la logica stessa del potere. Il che implica, a sua volta, che l’altro, lungi dall’essere capace di impedire fattivamente qualsivoglia atto di forza nei suoi confronti, esercita una resistenza al potere nel senso che quest’ultimo, pur nel gesto più estremo di conquista totale dell’altro attraverso la sua eliminazione, mai potrà davvero consumarlo nella sua alterità. In ultima battuta, l’alterità del volto dell’altro ha dunque questo di peculiare: sfugge, poiché interpella prima ancora di poterci fare qualcosa; e non appena il regime del potere si mette in moto, l’ingiunzione si è già ritratta per essere afferrata. Qui, in definitiva, (la dinamica del)l’epifania del volto dell’altro: rinvio a una trascendenza vissuta, ma irriducibile a ogni disposizione oggettuale.
Ecco dunque come, attraverso Levinas, si può giungere a una logica – potremmo asserire – “al di qua” del potere e che racchiude contemporaneamente il senso più intimo di un’esperienza della trascendenza di carattere etico. Ma anche di profilo religioso, se vogliamo, visto che, sempre per Levinas, dal comandamento che proviene dalla trascendenza dell’altro si apre sempre anche una dimensione dell’altezza in cui riluce costantemente una co-interpellazione divina (Totalità e infinito, pp. 75 s.). E qui – si badi – non nel senso che una tale trascendenza teologica sia da premettersi in forma quasi-metafisica. Ma, al contrario, qui, è come se Levinas ci avvertisse che una tale trascendenza divina può darsi solo nel suo radicamento genuinamente fenomenologico, visto che il divino viene all’esperienza non prima del vissuto stesso di sottrazione eccedente che unicamente la ritrosia etica dell’altro veicola (cfr. Levinas, Di Dio che viene all’idea, passim). Peraltro, secondo il nostro autore, è esattamente a questo tipo di dinamica di sottrazione ed eccedenza che andrebbe assegnata, per davvero, la connotazione di “metafisica” (e di una metafisica che innesca una radicale esperienza d’infinito).
- Dall’atopia alla diacronia
Ma facciamo un passo ulteriore. Arrestarsi, infatti, alla sola esperienza di una ritrosia etica rispetto alla logica del potere innescata dalla sottrazione di un’alterità presente, non basta. Oltre alla dislocazione a-topica che l’appello dell’altro di volta in volta provoca, vi è anche una dislocazione diacronica coinvolta. Di quest’ultima mi preme evidenziare quella che si esprime in termini escatologici, e questo a motivo delle implicazioni che tale dimensione futurica esercita sul piano della logica del potere. In particolare, il guadagno di questo slittamento consiste nel fatto che, a differenza del comparire di un’alterità presente, la cui appellatività etica può sempre mutare in possibile esercizio di potere e forza, la futurità ripulisce l’alterità da qualsivoglia carica di violenza, con la conseguenza del verificarsi di un movimento di trascendimento ancor più radicale della semantica stessa del potere. Insomma, un appello futuro, per suo stesso carattere costitutivo, quandanche volesse alcunché, davvero nulla può.
Si tratta, tuttavia, a questo punto, di capire, dal punto di vista fenomenologico, se effettivamente si dia qualcosa di futuro, tale da incidere concretamente sull’esperienza e da ricoprire un ruolo che ne giustifichi un’interrogazione specifica.
Ebbene, ritengo non soltanto che una tale dimensione di trascendenza futurica non abbia nulla di meramente speculativo, ma che essa rivesta altresì grande rilevanza per i nostri vissuti. Come ho mostrato in altre sedi, ci giunge oggigiorno, più che mai, da quel diffuso e trasversale appello a realizzare concretamente il compito di una responsabilità nei confronti delle generazioni future.
È proprio in risposta a un tale compito che, a mio avviso, la centralità del tema del rapporto fra potere, resistenza etica e trascendenza del futuro gioca un ruolo centrale. Partiamo da una premessa, che ci porta al nocciolo del problema: la difficoltà di fondo a riconoscere obblighi nei confronti del futuro consiste esattamente nell’incapacità del pensiero etico tradizionale di affrancarsi dal paradigma di una giustificabilità della responsabilità basata sostanzialmente su una semantica del presente e di soggetti presenti interagenti sulla base di soli rapporti di forza/potere. Questa preminenza di una legittimabilità a partire dal presente si manifesta sia nel caso si tratti della presenza di un altro a cui si deve qualcosa in ottemperanza a obblighi di giustizia fondati sulla simmetria e reciprocità stabilita da un potere contrattuale, sia si tratti della presenza di un altro al cui impotente appello si risponde con atteggiamento altruistico vuoi religiosamente ispirato, vuoi ancora improntato a una più sobria e secolarizzata filantropia. Quale che sia il caso, un appello alla responsabilità per esseri radicalmente futuri, per quanto diffusamente avvertito, non riesce a trovare però coerente collocazione entro gli impianti presentistici – o meglio, entro quella semantica del potere, di per sé, inscindibilmente collegata al prerequisito di una capacità esercitata da individui necessariamente presenti (gli uni agli altri). Tra tutti, basti qui limitarsi a evocare l’esempio dell’impianto contrattualista e il cortocircuito dal quale è colpito nel momento in cui è chiamato ad affrontare la questione di obblighi per soggettività future.
Di qui la questione fondamentale: se un discorso incentrato sul presente e sul potere dei presenti non si mostra in grado di rispondere coerentemente a un’esigenza etica radicalmente rivolta al futuro, come può configurarsi allora un paradigma alternativo che corrisponde a tale esigenza? Ecco che qui si inserisce la logica dell’esperienza etica di carattere genuinamente escatologico di matrice levinassiana. In estrema sintesi possiamo così caratterizzarla: l’appello a una responsabilità nei confronti dei futuri non si registra se si permane entro l’impianto teorico di un’estensione del presente verso l’avvenire, ma affiora eticamente solo se, proprio trasgredendo tale primato presentistico e la semantica del potere a esso connessa, ci si mette in grado di accogliere l’appello dell’alterità stessa del futuro, che mostra al contempo un carattere d’ingiunzione refrattario alla logica del potere. Si tratta, in altri termini, di un’esperienza etica che, al posto di fondarsi sull’hic et nunc di un luogo e tempo presente e dei presenti, si rivolge piuttosto al trascendimento di un tempo altro e di un luogo altro da cui deriva la sua stessa propulsione motivazionale.
È esattamente in tale contesto che la percezione di un tale richiamo del futuro mostra al contempo il collegamento tra gli elementi della trascendenza, della sottrazione al potere e nondimeno a una resistenza etica dal carattere estremamente concreto e vissuto. In questo richiamo si manifesta, anzitutto, una trascendenza al presente, giacché la richiesta di responsabilità proveniente da individui futuri non ancora esistenti non può che giungerci da una sorta di “altrove” in questo mondo. Tale richiamo sfugge, inoltre, alla semantica del potere, poiché le alterità future, di cui ne va, a rigore, nulla possono in termini di un “poter potere”. Di pari, rispetto al caso di un’alterità soltanto presente, questo richiamo futurico intensifica l’aspetto squisitamente etico, dacché nessuna possibilità di violenza gli può essere attribuito. Nondimeno, in questo richiamo si compone una forma di resistenza etica assolutamente concreta, giacché la sua carica ingiuntiva, per quanto nulla “possa”, non per questo cessa di farsi avvertire nella sua urgenza e inquietudine. Potremmo definirla, in effetti – ricorrendo alla terminologia di Jacques Derrida fatta propria da un autore come Matthias Fritsch –, di una concretezza dal carattere «spettrale» (M. Fritsch, Taking Turns with the Earth, p. 52).
Certamente, una tale esperienza di resistenza etica, proprio perché spettrale, può restare anche impercepita. Ma questo, secondo Levinas, non la destituisce di significatività, quanto piuttosto ne sottolinea la modalità «enigmatica» (Levinas, Enigma e fenomeno, passim) stessa di manifestazione: ovvero, essendo un’incidenza al di qua del potere – ovvero, nulla potendo contro gli schieramenti di forza del presente –, è tale da propiziare un’esperienza di accoglimento, ma anche da restare, al limite, inascoltata. La si potrebbe caratterizzare, in tal senso, come una sorta di epoché o sospensione etica del potere dei presenti e del presente al mondo. Epoché che tanto, da un lato, inquieta il potere attraverso il comandamento etico, quanto, dall’altro, neppure lo scalfisce, tant’è che quest’ultimo, se vuole, può benissimo perpetuarsi nella pratica di una tirannia dei presenti, come se nulla fosse avvenuto.
- Resistenza etica e trascendenza divina
A questo punto, non ci resta che affrontare un’ultima questione che ci riporta dritti alla tematica di partenza. Chiediamoci dunque: la dinamica enigmatica di sottrazione etica al potere or ora descritta rimanda necessariamente all’intervento di una trascendenza divina? Oppure un tale appello che inquieta, eppure mai una volta si mescola al potere, può limitarsi a una dinamica riducibile al solo rapporto interumano e orizzontale? Ebbene, non pochi lettori di Levinas propendono per una visione del genere. La cosa interessante è che, però, per Levinas stesso, una tale prospettiva di esclusiva orizzontalità della trascendenza etica non basta. Quanto mette in gioco Levinas è invece il necessario intervento di un’altra dimensione, che può essere delineata proprio nei termini di un piano verticale-religioso e che risulta compenetrare quello orizzontale in modo assolutamente pervasivo. In effetti, l’introduzione di questa dimensione altra si mostra per lui ineludibile, nella misura in cui essa soltanto si rivela in grado di offrire genuina articolazione ed effettiva consistenza genealogica all’irriducibile impulso dell’appello etico. Insomma, è come se Levinas, a partire da questa prospettiva – che, si badi, mette in gioco un livello religioso e teologico del discorso non sulla base di un’estrinseca sovrapposizione o sovradeterminazione, ma dalla concrezione fenomenologica stessa –, ci dicesse che il carattere incondizionato della responsabilità per l’altro riceve la sua incondizionatezza dal fatto fondamentale che in tale essere-interpellati dall’altro si esprime già sempre una forma di co-interpellazione dell’altro divino, che unicamente ne innerva forza propulsiva e tratto di ritrosia. Per dirla con le assai efficaci e sintetiche parole di un’intervista all’autore: «È come se Dio parlasse attraverso il volto [dell’altro]» (Levinas, The Paradox of Morality, p. 169).
In tal modo, l’altezza e l’esteriorità orizzontale della trascendenza dell’altro umano risultano già sempre compenetrate e accentuate da un’altezza ed esteriorità verticale dell’altro divino, con la conseguenza che l’incidere della responsabilità, che intesse la dimensione di passività radicale del soggetto, possa essere intesa anche attraverso i tratti di una santità della relazione con l’altro. Si tratta, per la precisione, di una santità e altezza che confluiscono inscindibilmente nel volto altrui e che conducono il soggetto a comprendersi già sempre come eticamente decentrato, ecceduto, esposto, e, quindi, ineludibilmente situato nell’a-topia di una «sostituzione» per l’altro (Levinas, Altrimenti che essere, pp. 142 ss.).
Ma, anche qui, a ben vedere, non si tratta di un’esperienza di trascendenza soltanto atopica, ma anche diacronia e di una diacronia che spinge tanto verso un passato immemoriale, quanto verso un futuro inappropriabile: «puro futuro» lo definisce anche Levinas (Diacronia e rappresentazione, p. 208).
Soprassedendo sui tanti elementi che in questo contesto necessiterebbero di un commento circostanziato, mi limito qui a richiamare l’attenzione sull’intima interrelazione che l’autore segnala fra aspetto etico e teologico, e che si inserisce immediatamente lungo la traiettoria di una riflessione necessariamente temporale.
Quanto qui Levinas ci indica, in estrema sintesi, è, innanzitutto, quanto abbiamo già sottolineato in precedenza: cioè che l’ingiunzione alla responsabilità, che sopraggiunge al soggetto a partire dall’alterità futura, lo espone e disappropria già sempre in una forma eccedente, ossia una forma tale per cui a esso non è neppure mai data la possibilità di decidere se essere o meno responsabile per il futuro. Piuttosto, il soggetto, proprio attraverso l’ingiunzione alla responsabilità che lo decentra, si scopre già sempre in una (dis-)posizione di sostituzione per il futuro dell’alterità e per l’alterità del futuro, e ciò prima ancora che egli possa raccogliere la sua decisione in un atteggiamento tetico di accettazione o rifiuto. Ma Levinas ci dice qui anche qualcosa di più radicale, e cioè che un’ingiunzione eccessiva ed ex-statica del genere – in cui il soggetto, contrassegnato dalla forma di una passività radicale, è infranto da (ed esposto a) una carica temporale già sempre eticamente connotata – coincide esattamente con il precipitato stesso della manifestazione del divino. Epifania del divino come intima scaturigine dell’esperienza etica del tempo ed esperienza temporale dell’etica (all’interno della – e come – vita del soggetto). Epifania del divino, cioè, come vissuta concrezione che innesca, attraverso l’appello dell’altro, un autotrascendimento del soggetto, in cui il soggetto medesimo esperisce in modo indisgiungibile la centrifugalità iperbolica di un’esposizione all’Altro e l’esposizione iperbolica alla futurizione, senza poterne ancora distinguere le traiettorie. Queste traiettorie, in effetti, potrebbero essere distinte, solo se una tale esperienza dell’appello potesse essere preceduta da un soggetto sovrano già costituito e teticamente operativo.
Il futuro si presenta così come immediata relazione etica con l’altro. Certamente. Solo che ora possiamo aggiungere: innanzitutto, immediata relazione etica con l’altro divino – incidere stesso dell’«A-Dieu!» che penetra nel soggetto, spossessandolo ed esponendolo all’alterità del tempo e alla temporalità dell’altro. O ancora: il futuro come il divino che, sottraendosi, lascia l’«orma» (Levinas, Enigma e fenomeno, p. 251) della sua stessa assenza come implorazione etica. In definitiva, non un’assenza astratta e vuota, ma piuttosto un’assenza articolata dalla responsabilità e che, come tale, fa sentire il suo riverbero lungo l’intera vita del soggetto come ingiunzione alla sostituzione per l’altro.
Probabilmente è esattamente in questa forma di sottile riverbero, in questa enigmatica resistenza etica che chiama, ma forse non ha mai chiamato – visto che questo richiamo da nessuna forza è scaturito –, che è possibile localizzare l’articolazione vera e propria di un’esperienza della trascendenza divina in tutta la sua concretezza al di là della semantica dell’onnipotenza e dell’impotenza. Di fronte a una tale oscillante esperienza, si può solo concludere, riprendendo la fenomenologia dell’indugio di Levinas: «hanno suonato e alla porta non è nessuno. Ma hanno davvero suonato? […] Un Dio si è rivelato su una montagna o in un roveto che non si consuma o ha dato testimonianza di sé nei Libri. E se si trattasse di un temporale? E se i libri fossero l’opera di alcuni sognatori?» (Levinas, Enigma e fenomeno, pp. 242-43).
ENDOXA - BIMESTRALE FILOSOFIA Endoxa settembre 2025 Ferdinando Menga Onnipotenza
