E PLURIBUS UNUM? CIÒ CHE HANNAH ARENDT (NON) PUÒ INSEGNARCI SULLA DEMOCRAZIA
FERDINANDO MENGA
I.
La riflessione di Hannah Arendt attorno alla comunità politica rappresenta uno dei tentativi più significativi della filosofia contemporanea di ripensare il senso profondo dell’azione collettiva. Per Arendt, come è noto, la comunità politica è innanzitutto “spazio di apparizione”: un ambito nel quale gli individui si rendono visibili gli uni agli altri – divenendo con ciò quello che sono – attraverso l’azione e la parola. Tale spazio si rende possibile solo in virtù della pluralità, che si configura come condizione originaria dell’esperienza umana stessa. Alla luce di una tale condizione strutturale, la comunità non si costituisce dunque sulla base di un’identità o unità sostanziale presupposta, ma si rivela piuttosto quale risultato di un processo storico e inevitabilmente contingente, che prende forma proprio attraverso l’agire comune medesimo.
Come ci ricorda esplicitamente Claude Lefort, un impianto concettuale del genere si inserisce a pieno titolo in una più ampia interpretazione della Modernità, intesa come epoca inaugurata e dominata dall’esplicito congedo da ogni tipo di fondazione sostanzialistica di marca tanto trascendente quanto immanente. Scoperta e assunzione da cui ne risulta, altresì, sempre secondo Lefort, il pensiero e progetto democratico per eccellenza. E questo dal momento che null’altro se non la dissoluzione stessa delle garanzie prime e ultime di stampo pre-moderno costringono ogni collettività a fare i conti con la necessaria presa di coscienza di un’autofondazione storica e, dunque, autoregolamentazione nel segno dell’inevitabile alterabilità e potenziale inclusività.
Da parte sua, Arendt, sebbene mai abbia prodotto una tematizzazione dedicata alla questione democratica, assume coerentemente tale eredità nella misura in cui, profondendo ogni sforzo teorico contro i dettami ontologico-metafisici della tradizione, individua proprio nel potere insito nella pluralità al fondo dell’azione compartecipata il principio costituente in grado tanto di creare quanto di mantenere in piedi il mondo collettivo.
In linea con queste indicazioni arendtiane, la comunità democratica può essere compresa, pertanto, come un intreccio d’autonomia e contingenza. Le collettività, infatti, da un lato, devono decidere senza poter far riferimento a un principio eteronomo che le costituisca e orienti; devono cioè rivolgersi solo a se stesse, alle proprie risorse e capacità di auto-organizzazione, per potersi produrre e regolamentare. L’autonomia, in tal senso, non è un semplice ideale, ma una necessità strutturale che – come direbbe Cornelius Castoriadis – diviene esplicita e riflessa nella democrazia. Democrazia, dunque, al fondo, vuol dire raggiungimento di un’autoconsapevolezza collettiva tale per cui l’agire comune, sapendosi espressamente come tale, sa anche di dar forma e alimentare se stesso come origine e destino di un mondo politico. Nondimeno, però, dall’altro lato, tale darsi la legge da sé da parte della comunità, proprio alla luce del profondo radicamento storico in un’autofondazione, non può manifestarsi come assoluto e definitivo, ma deve esibire necessariamente il tratto della contingenza, ossia della limitatezza e alterabilità.
II
Per comprendere in termini ancor più approfonditi il modo in cui la visione arendtiana della pluralità influenza in senso radicale il pensiero democratico, occorre soffermarsi con maggior dettaglio sul carattere specifico di essa. In particolar modo, è nel capitolo di Vita activa dedicato all’azione che Arendt si dedica alla questione. Descrive la pluralità come strutturalmente costituita dal co-agire di due tratti: quello dell’uguaglianza e della distinzione tra gli individui. Si tratta di due elementi inscindibili. Senza uguaglianza non vi sarebbe possibilità alcuna per uno spazio comune, poiché neppure potremmo intenderci se non fosse presente una tale condizione. In assenza di distinzione, invece, non vi sarebbe nessuna ragione per agire, dacché, in un regime del genere, in cui tutti fossimo identici, ruoteremmo attorno a un’identità prestabilita e ci si comprenderebbe a vicenda quasi per telepatia. Alla luce di questa strutturazione della pluralità, quindi, l’essere uguali garantisce la possibilità di un mondo condiviso, accessibile a tutti in modo paritario. L’essere distinti esprime, viceversa, l’irriducibilità delle singolarità e delle divergenze. Carattere, quest’ultimo che, sempre secondo Arendt, a sua volta, deriva precisamente dalla condizione primordiale della natalità, ovvero dal fatto che ogni individuo, proprio in virtù del suo essere unico grazie al suo esser-venuto-al-mondo in modo inedito e irripetibile, incarna in sé la possibilità di essere portatore di novità e originale contributore in seno alla collettività. In ultima analisi, è esattamente questa irriducibile differenza che ogni singolo detiene in sé a generare l’impulso all’azione e a tenere perennemente accesa la dinamicità del meccanismo politico. Detto in termini ancor più semplici, l’idea della distinzione nel segno della natalità implica né più né meno che il fatto dell’incidenza di alterità sempre differenti e imprevedibili all’intero dello spazio politico, con l’inevitabile bisogno che quest’ultimo sia contrassegnato quale arena di inesauribili confronti, dibattiti e prese di posizione.
Da questa analisi ne consegue in generale che la comunità politica, arendtianamente connotata, non può essere mai intesa come unità compatta, ma è tessitura dinamica di differenze che si incontrano, si attraversano, si contrappongono e si ricompongono continuamente. Lo spazio collettivo, con ciò, non è mai chiuso; è un luogo di apparizione e rivelazione, dove gli individui mostrano chi sono e si mettono reciprocamente in gioco, tanto chiedendo il riconoscimento altrui, quanto anche sfidandone le certezze.
In linea con questa descrizione, il modo in cui la pluralità incide in senso assai fecondo sul pensiero della democrazia appare in tutta la sua chiarezza e portata. Una democrazia intesa sotto il segno della pluralità, in effetti, non solo e non tanto si mostra tale alla luce dell’autonomia sovrana sulla quale la collettività afferma di fondarsi. Piuttosto, si rivela ancor più radicata nel suo tratto strutturale quanto più essa si fa riverbero dell’inestinguibile tratto dell’interazione collettiva che la connota. Interattività che, dunque, proprio perché gioco dell’uguaglianza e della distinzione, detiene quale vocazione politica un obiettivo di fondo: dare espressione alle conflittualità e, al contempo, ricusare ogni aspirazione o seduzione all’identità; scacciare fantasmi d’unitarietà; combattere tutte le promesse di sospetta armonia.
Insistere su questa piega del pensiero arendtiano è oltremodo opportuno per il portato più che mai attuale che essa detiene, una volta che la si fa reagire con il quadro che ci presentano le democrazie contemporanee; quadro generalmente connotato proprio per l’erosione di tale carattere dinamico e plurale. Gli spazi politici odierni, in effetti, sembrano ostinatamente impigliati in un’inerzia senza scampo. Sono dominati da inazione, da una disperata e disperante penuria d’iniziativa foriera di futuro. Si rivelano compagini dominate, altresì, da spirito di chiusura, da pulsioni immunitarie e securitarie, nonché da impeti populistici che promettono, quasi per un gioco compensativo, lo spettro di una vagheggiata unitarietà, identità e compattezza. Tutte queste sono (r)assicurazioni che, in fondo, proiettano la culminazione del progetto politico in una sola e unica forma: quella dell’esonero e dello sgravio della cittadinanza, più che della dinamicità e dell’intraprendenza comunitarie. Per di più, proprio in prospettiva arendtiana, queste forme, traducendosi esattamente nel tentativo di riduzione della pluralità politica in unit(ariet)à, lasciano affiorare, altresì, il sempre incombente e pericoloso contro-movimento di un’aspirazione a sottomettere lo spazio collettivo a progetti totalizzanti/totalitari.
A partire da questa cornice, allora, l’antidoto arendtiano – semmai così lo possiamo definire – sta esattamente nel promuovere e difendere l’articolazione genuina stessa del potere(-in-)comune che si realizza nella pluralità: ossia, un agire-insieme teso proprio a mantenere salda la “comunitarietà” della sua connotazione costitutiva. È solo un potere del genere a mostrarsi forza collettiva in grado di creare e sostenere – nonché trasfigurare all’occorrenza – la comunità e il mondo nel quale soggiorna. Come asserirebbe la stessa Arendt al riguardo: un tale potere esiste solo nella cooperazione e scompare non appena la pluralità si disgrega.
III
Ma la domanda che, a questo punto, si pone è la seguente: come attuare strategie effettive di protezione collettiva del potere e di resistenza alla disgregazione? Ecco, forse, proprio su questo punto, una forma di divergenza rispetto alla proposta arendtiana vorrei individuarla. Arendt, infatti, precisamente in linea con il suo intento di affermazione e difesa dell’agire comune in quanto comune, investe su una prospettiva, a mio avviso, piuttosto controversa: quella di dare realizzazione a un potere davvero compartecipato mediante un regime che molto si approssima all’espressione della democrazia diretta. Una forma, questa, che, proprio per difendere la massima coesione e partecipazione collettiva, si rivela, in ogni caso, strutturalmente allergica a ogni contaminazione di elementi di mediazione del potere. È chiara – e anche condivisibile – qui l’intenzione sottesa all’opzione arendtiana: tanto più si riesce a difendere l’agire collettivo, quanto più se ne contrasta lo scivolamento in forme d’intermediazione rappresentativa, tali da sottrarre l’esercizio del potere stesso all’effettiva partecipazione della comunità.
Sennonché, a mio modo di vedere, proprio a questo livello, ci sarebbe più di qualche dubbio da esprimere, giacché la questione potrebbe ben essere ribaltata. Permanendo, infatti, sempre entro il dettato teorico arendtiano e ottemperando alla sua stessa esigenza di un’azione autenticamente politica solo se inseritrice di novità nel mondo, il modello politico che ne consegue pare poter assumere tratti diametralmente opposti a quello di un agire democratico immediato e diffuso. Detto altrimenti, se la novità, a cui tanto ci richiama Arendt, può provenire unicamente dalla capacità dei singoli di proporre qualcosa d’inedito nello spazio collettivo, allora, forse, il modello di agency qui in gioco, più che essere la forma di un immediato – e, a tratti, pericoloso, perché unitario – “agire-in-concerto” (indicazione a cui Arendt si rifà più e più volte nei suoi scritti), è piuttosto quello che radica la spinta all’innovazione nel necessario passaggio per una prestazione rappresentativa. Rappresentare politicamente, in effetti, altro non implica, in ultima analisi, che l’esercizio di una concreta presa-di-parola da parte di individui o gruppi capaci d’incidere e dare slancio alla vita comune.
Da una considerazione del genere, ne consegue altresì che la valutazione sulla crisi democratica attuale non solo e non tanto deve essere piegata nel senso di una crisi della partecipazione, ma anche e, forse, ancor di più nel senso di una crisi della rappresentanza, ovvero irreperibilità di imprese di mediazione autenticamente all’altezza di offrire progetti e narrazioni in grado di affrontare le sfide del nostro tempo e traghettare la collettività verso nuove prospettive di abitabilità comune.
Certamente, non si vuole negare, con questo, tutta la problematicità e i rischi che la rappresentanza detiene: insomma, come Arendt correttamente evoca in Sulla rivoluzione, la pressoché endemica tendenza di quest’ultima a degenerare in un “governo, privilegio dei pochi”. Tuttavia, se questo è vero, altrettanto vero è che la rappresentanza si rivela comunque indispensabile alla costituzione stessa dei discorsi politici per la comunità. Su di essa resta necessario, pertanto, investire e non la si può semplicemente disattivare, obbedendo alla seduzione di alternative tanto impraticabili, quanto indesiderabili. Sì, perché, come asseriva lucidamente e schiettamente il grande sociologo francese Pierre Bourdieu, alle cui parole affidiamo la conclusione di questa riflessione, la rappresentanza è investita da un assai peculiare e produttivo paradosso; paradosso secondo cui “si deve sempre rischiare l’alienazione politica per poter sfuggire all’alienazione politica”.
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