HANNAH ARENDT (2012, MARGARETHE VON TROTTA).QUANDO IL CINEMA RACCONTA LA FILOSOFIA

EUSEBIO CICCOTTI

Premessa.

Il presente articolo rilegge il film Hannah Arendt (idem, 2012), di Margarethe von Trotta, proponendo una analisi di alcuni elementi del linguaggio filmico (diegesi, recitazione, montaggio, scenografia, regia, genere) al servizio di una riflessione filosofica. Più in particolare si tenterà di vedere come gli autori abbiano costruito un racconto cinematografico che non rinunciando a un suo “spessore” doveva al contempo essere “divulgativo”. Il film racconta il processo a carico del nazista Adolf Eichmann, accusato di genocidio, celebrato a Gerusalemme nel 1961, seguito dalla professoressa e filosofa Hanna Arendt (1903-1975) in qualità di inviata del settimanale «The New Yorker». Come sappiamo i corposi articoli uscirono dal febbraio al marzo 1963. Successivamente, maggio 1963, raccolti nel volume Eichmann in Jerusalem. A Report on the Banality od Evil (nelle edizioni italiane con il titolo La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme), principale fonte della sceneggiatura (Margarethe von Trotta, Palm Gaz).

 

Viaggiare per conoscere

Siamo a New York alla fine degli anni Cinquanta. Hanna Arendt (una intensa Barbara Sukowa) insegna presso l’università di New York. Insieme al marito Heinrich Blücher (Axel Milberg) è fuggita nel 1940 dal campo di detenzione di Gurs in Francia (grazie al giornalista Varian Fry). È riconosciuta come una degli intellettuali ebreo-tedeschi più stimati della New York intellettuale, e i suoi corsi di filosofia sono seguiti da un nutrito gruppo di studenti. Coltiva ottimi rapporti con i colleghi, tra i quali l’amico filosofo Hans Jonas, e il giovane rettore stravede per la nuova docente. Dai giornali, 25 maggio 1960, apprende della cattura-sequestro di Adolf Eichmann in Argentina da parte del Mossad e del suo trasporto in Israele. Ella, nel 1961, scrive una lettera al settimanale «The New Yorker» chiedendo di poter seguire per il settimanale “il processo Eichmann”. Il direttore, onorato di tale richiesta, le affida immediatamente l’incarico.

Taglio. Vediamo una corriera bianca e azzurra mentre attraversa zone semidesertiche.  La strada provinciale è una serpentina, presa in CL (Campo Lungo) in demi-plongée. La forma della strada, simbolicamente, ci dice che la storia che Arendt dovrà seguire (il processo, ma anche il rapporto con l’amico Kurt che la attende) non sarà lineare. Taglio. Hanna seduta all’interno della corriera, con altri passeggeri.  Taglio. A un tavolino esterno da bar, l’attende il suo caro vecchio amico Kurt Blumenfeld (Michel Degen), colui che in Germania era il responsabile della Organizzazione mondiale sionista (sino al 1933).  Sono felici di rivedersi. Nel primo scambio di battute, Blumenfeld confessa, entusiasticamente, di non vedere l’ora che Eichmann venga condannato e giustiziato (la pena sarebbe l’impiccagione). Eccoci per un tè, a casa di Kurt e sua moglie, circondati dal giovane figlio, la sposa e tre bambini. Hannah è colpita da quella giovane famiglia, da quei bambini cui ella in passato vi ha rinunciato, «prima eravamo troppo giovani, poi troppo vecchi», commenta senza rimpianti ma con un filo di tristezza. Ogni viaggio e sempre un viaggio nel tuo passato, storico e anche personale, ci dice von Trotta. Apprende con sorpresa, dal giovane marito, che Eichmann è tenuto, durante il processo, dentro una gabbia di vetro.

Passato e presente

Hannah, come Kurt, si aspetta anch’ella la giusta punizione, ma, in quanto filosofa abituata a riflettere sul pensare dell’uomo, come le aveva insegnato il suo maestro Martin Heidegger, intende conoscere le accuse della Corte e ascoltare le reali motivazioni difensive di un nazista autore di efferati crimini, presentate all’interno del dibattimento processuale. Non è lì solo per ascoltare e confezionare un semplice reportage per il «New Yorker». È durante il processo che, come sappiamo, Hannah riflette sul ragionamento “semplice” di Adolf Eichmann, il quale dichiara di non aver mai odiato gli ebrei, mai professato idee antisemite, ma di aver semplicemente «eseguito degli ordini». Di aver fatto in modo che i treni stipati di prigionieri, «partissero in orario per le loro destinazioni» (Auschwitz, per esempio) senza chiedersi «dove andassero». Egli, concluderà Sukowa-Arendt, «era un perfetto burocrate che eseguiva il suo lavoro». Nel suo dettagliato resoconto del processo, pubblicato sul «The New Yorker», leggiamo:

«Eichmann non era uno Jago né un Machbeth, e nulla sarebbe stato più lontano dalla sua mentalità che “fare il cattivo” […] egli non aveva motivi per essere crudele, e anche quella diligenza non era in sé criminosa: è certo che non avrebbe mai ucciso un superiore per ereditarne il posto. Per dirla in parole povere, egli non capì mai cosa stava facendo (corsivo nel testo)», (Hanna Arendt, La banalità del male, pp. 325-26, Milano, 2024, Feltrinelli, pref. Ezio Mauro, trad. Piero Bernardini).

Von Trotta ricostruisce la sequenza dell’interrogatorio di Eichmann utilizzando i filmati del periodo, in bianco e nero (passato) montati in alternato con l’uditorio ricostruito   – colore; attori e comparse – (presente). Gli elementi documentaristici, inseriti nella fiction, ovviamente, conferiscono un dato oggettivo alla finzione.  Adolf Eichmann, dentro la sua gabbia di vetro, in PP, risponde alle domande del presidente del tribunale: «[…] Sono stato incaricato di portare avanti la procedura, e l’ho fatto come ruolo intermedio, così come mi era stato comandato. Ho dovuto ubbidire agli ordini.” / Taglio  [camera a stringere in PP  largo, su Sukowa-Arendt]. […] Eichmann [PP]: «È stato espletato secondo la procedura amministrativa. Ne sono responsabile solo in piccola parte». / Taglio [Eichmann in piedi, in Figura Intera, di profilo, sempre dentro la gabbia di vetro]: «Le altre parti erano necessarie affinché questi treni viaggiassero […]».

Qui, i piani di ripresa, la regia e il montaggio sono chiamati a creare un crescendo drammatico, a tradurre la “rivelazione” socio-antropologica-filosofica che si sta affacciando nella testa di Arendt: ella, davanti a queste frasi di Eichmann, sospende di scrivere a macchina (è in sala stampa accanto ad altri giornalisti: tutti seguono sui monitor il processo), e concentra la sua attenzione sulle parole e sul volto di Eichmann: ecco il germe della sua riflessione circa la “banalità” del male. E la frase finale, che chiude le risposte di Eichamann, arriva sul Primo Piano stretto di Arendt, pietrificandole ogni minimo muscolo facciale: [Eichmann in Voice Off]: «Sono accuse difficili da provare».

Il giorno dopo sono inevitabili le domande di Kurt. Arendt, risponde con calma, camminando accanto all’amico: «Mi aspettavo un uomo diverso […] sta seduto nella sua gabbia di vetro e sembra un fantasma e oltretutto ha il raffreddore […] insomma, non è così terribile […] (camminando in back travelling) è un uomo normale».  Nel taglio successivo sono seduti al tavolo esterno di un bar. Arendt: «Parla con un orrendo linguaggio burocratico» […] / [PP di Hanna, concentrato, mentre con mano tiene la sua sigaretta, fissando Kurt]: «Eichmann non è Mefistofele!». Dal PP di Kurt, rigido, capiamo che egli non accetta la lettura dell’amica Hannah. In questo gioco drammatico di campi/controcampi von Trotta fa parlare i volti oltre le parole. Lo spettatore capisce che Kurt (oggi) desidera la pena capitale per Eichmann; Hannah è principalmente attratta dal capire come (ieri) ha funzionato la mente di Eichmann di fronte alla soluzione finale.

Lo scontro con gli intellettuali ebrei. Il secondo viaggio a Gerusalemme.

Gli amici e i colleghi universitari di New York, cui Hannah racconta l’esperienza di aver conosciuto «un uomo normale, mediocre, semplice esecutore, ma non un uomo che odiava gli ebrei, un burocrate», sembrano non capire cosa ella voglia dimostrare. Solo Heinrich e l’amica scrittrice Mary McCarthy seguono il suo discorso. Hans Jonas, durante la festicciola a casa di Hannah, la accusa di filosofeggiare.  Ella gli spiega come Eichmann sia «un uomo normale, ordinario, che eseguiva gli ordini del suo Führer, e che si è difeso sostenendo di aver eseguito degli ordini. E da questo punto di vista non gli si può dare torto». Jonas, sostiene che aveva la capacità di distinguere il bene dal male, ed è terribilmente colpevole per aver dato seguito alla «soluzione finale», che è responsabile delle sue scelte (la sceneggiatura sfiora il concetto di responsabilità caro a Jonas negli anni a seguire).

Dopo la pubblicazione del primo articolo sul processo nel «The New Yorker», molti lettori protestano con la redazione, disdicono gli abbonamenti. Emergono i contrasti con l’ambiente accademico. Lasciata una New York dall’atmosfera infuocata, Hannah, trascorre qualche giorno di solitudine presso uno chalet immerso in un bosco (un omaggio degli sceneggiatori al mondo alpino amato dal suo ex amore di gioventù, Martin Heidegger?). Mentre passeggia e fuma, lungo una strada tra i boschi, una Chevrolet nera, modello berlina, a velocità sostenuta, quasi investendola, frena a due passi da lei, stringendola sul ciglio. Scende un uomo, ella lo riconosce subito: è Siegfried, un ex-quadro del Gruppo sionista berlinese anni Trenta, anch’egli amico di Kurt. Dopo essersi assicurato che è la signora Arendt, la minaccia: «Signora Arendt, non deve pubblicare quel libro che diffonde infamie sul nostro popolo!». «Mai scritto un libro così!», la replica secca. Hanna, poi, viene a sapere da Siegfried che Kurt Blumenfeld è in fin di vita: il volto della donna subito si rabbuia. La lasciano in pace.

Di nuovo sulla corriera per Gerusalemme. È sulla porta di casa di Kurt, la moglie l’accoglie, «Lui non ha voluto avvertirti». Entra. Kurt è a letto, con un filo di voce: «Questa volta sei andata oltre». /«Questa volta non voglio litigare», cerca di sdrammatizzare Hannah. / Kurt, a fatica: «Questa crudeltà, da parte tua non me l’aspettavo» /«Vedrai che cambierai idea quando leggerai tutto il reportage», rassicura lei. Ma Kurt, poco dopo, gira la testa dall’altra parte del letto, e così decide di non salutarla prima di morire. /Taglio. Hanna, addolorata, nel cortiletto esterno, si allontana lentamente.

Luoghi chiusi luoghi aperti

Tutto il film riposa su una dialettica tra luoghi chiusi e luoghi aperti, con prevalenza dei primi sui secondi. Centrale, in circa la metà del racconto, è l’interno newyorkese della coppia Hanna e Heinrich. Ma chi dei due lo vive come luogo per riflettere, scrivere, è naturalmente la protagonista. I libri nelle librerie, nelle scansie, sui tavoli e tavolinetti sono dei co-protagonisti silenziosamente eloquenti. Ci dicono del travaglio intellettuale vissuto dalla donna in quegli anni, necessario per partorire i suoi due figli: Le origini del totalitarismo e La banalià del male. La luminosa casa si apre su una vista di New York, sovente accoglie anche amici e colleghi per una festicciola o un tè. Quel soggiorno, quegli studioli, colmi di libri, quei mobili, quei sofà, ospitano le discussioni di cultura oltre che il dibattito sul processo Eichmann. La regia di von Trotta è snella nello spezzare le diatribe “filosofiche”, in montaggio alternato, con intermezzi più leggeri (Mc Carthy: «Hemingway non era che un autista di ambulanza, un triste eiaculatore precoce del XX secolo»), guardando anche al largo pubblico.

Altri luoghi chiusi sono: la redazione del «The New Yorker» (ricostruita con una precisione scenografica maniacale: foto in b/n alle pareti, registratori a nastro, le matite anni Cinquanta, ecc.); le aule universitarie; la “gabbia” in cui è chiuso Eichmann; il bel salotto semplice nella casa di Kurt.

Luoghi chiusi proiettati al contempo verso l’esterno, l’aperto, gli spazi ampi della verità: una pulsante notturna New York di là dalla finestra; una Gerusalemme illuminata dal sole; l’accogliente bosco; gli studenti nei cortili del campus. Quasi un cinema da camera che può essere letto come un omaggio inconscio al kammerspiel tedesco della metà degli anni Venti: a quei film con il personaggio alla ricerca della propria identità (cfr. il cinema di Lupu Pick o di Friedrich W. Murnau).

Regia del fumare

Sappiamo che Hanna Arendt era un’accanita fumatrice. Diverse sue foto la ritraggono con la sigaretta tra le dita. La scelta di von Trotta di mantenere questo “tratto distintivo” della donna Hanna Arendt nel personaggio di Sukowa, visto che siamo all’interno anche di un biopic, è giustificato. Un altro regista avrebbe limitato le scene in cui Sukowa-Arendt fuma. Invece von Trotta elegge tale vizio a cifra stilistica del personaggio, e, come cultrice di cinema, omaggiando il noto gesto caro al detective del noir hollywoodiano anni Quarata e Cinquanta (uno per tutti il Marlowe di Humphry Bogart).

Ogni volta che il personaggio si accinge a pensare o riflettere, accende una sigaretta oppure sta fumando: spesso la camera la inquadra in PP mentre aspira con voluttà, quasi che il fumo produca  il pensiero.

Conclusioni. Insegnare per capire

Attaccata sui giornali per aver “difeso” Eichmann, per aver accusato i capi ebrei di collaborazionismo, il Consiglio del Rettorato (il rettore – solo pochi mesi prima entusiasta di averla tra i suoi professori- e due docenti) la convocano chiedendole le dimissioni, adducendo che non ha studenti ai suoi corsi. Ella replica che non è vero, anzi che ha convocato gli allievi per spiegare loro cosa ha scritto. Giunge il giorno della conferenza. L’aula è stracolma. Tra gli studenti, i tre colleghi che l’hanno invitata a lasciare l’università. «Scusatemi, oggi dovete permettermi di fumare sin dall’inizio» (normalmente durante la lezione di due ore, del suo corso di “Filosofia politica”, fumava una sigaretta al termine della prima ora), tira fuori una sigaretta e poggia il pacchetto sulla cattedra.

La professoressa spiega quello che ha più volte tentato di dire ai suoi colleghi, incluso Hans Jonas.

«Contrariamente alle accuse del Pubblico ministero egli rispondeva che non aveva mai fatto qualche cosa di sua volontà» [Primo Piano largo di Arendt. Sigaretta nella mano destra in alto]. Di non aver mai avuto nessuna intenzione, né buona o cattiva, [PP stretto] poiché aveva solo obbedito agli ordini sulla parola «ordini» PP del rettore e dei due professori tra il pubblico].  Questa tipica scusa nazista spiega che il peggior male commesso al mondo [Arendt in Piano d’Insieme dall’altro lato dell’aula mentre parlando cammina davanti alla cattedra a testa reclinata, e il braccio della sigaretta che “segue” il ragionamento muovendosi nell’aria: sono due tagli (P. d’I.) da diversa angolazione in demi-plongée: nelle due inquadrature sono inserite le teste e le spalle delle prime file degli studenti che la seguono attentamente] è quello commesso dai cosiddetti signor nessuno.  È un male commesso da uomini senza moventi [PPP di profilo con la mano della sigaretta che entra in campo gesticolando], senza convinzioni [controcampo su tre studenti, con al centro la ragazza bionda che poi porrà la domanda], senza crudeltà, senza menti diaboliche, cioè di esseri umani che si rifiutano di essere persone. È esattamene questo il fenomeno di cui ho scritto e ho deciso di chiamare “La banalità del male”».

La scena termina con un intenso applauso dell’uditorio con alcuni ragazzi che le vanno a fare i complimenti. I tre docenti lasciano l’aula indispettiti. La camera scopre, seduto, Hans Jonas, dall’espressione delusa. Hannah, appena scortolo, sale le scale e lo va a salutare calorosamente, ma Hans è freddo. «[…] Con la tua arroganza trasformi una udienza di tribunale in un vero trattato di filosofia […] Tu ti comporti come un intellettuale che guarda noi ebrei dall’alto in basso. […] Non hai mai accettato che i tedeschi ti abbiano cacciata, e se avessero potuto ti avrebbero ucciso. […] Il tuo amico [sarcasmo] Eichmann era il responsabile delle partenze da Gurs [verso i campi di sterminio] e se tu non avessi avuto la fortuna di scappare avresti fatto la fine di tutte quelle donne […]» [PPP di Hans]. / Hannah [PPP]: «Finiscila!» Hans [PP]: «Quelle donne tutte sono state deportate!» / «No, non è vero Hans [tra l’esclamativo e l’interrogativo]», [PPP del volto sconvolto di Sukowa-Arendt].

Margarethe von Trotta chiude il suo racconto-film sulla filosofia politica secondo Arendt con un omaggio all’insegnamento, alla indefessa ricerca, al libero dibattito delle idee. Legando Hanna Arendt a quel cinema didattico inaugurato da Roberto Rossellini nei primi anni Settanta con i film-tv quali, Socrate, Cartesius, Pascal, Agostino di Ippona. Opere, in cui si raccontava al largo pubblico la riflessione filosofica, Ancora una volta il cinema, come la filosofia, invita a parlarci.

CINEMA ENDOXA - BIMESTRALE FILOSOFIA

Lascia un commento