HANNAH ARENDT E L’EREDITÀ DELLA SUA “FILOSOFIA” A CINQUANT’ANNI DALLA MORTE – EDITORIALE
FERDINANDO MENGA
È noto, a chi ha una certa dimestichezza con il pensiero di Hannah Arendt, quanto quest’ultima rifuggisse dall’essere definita “filosofa” in senso stretto. E questo chiaramente non in virtù di un sedicente esercizio di modestia intellettuale che l’avrebbe orientata a una forma di reticenza rispetto all’autoattribuirsi un privilegio troppo elevato: quello riservato, insomma, solo alle figure apicali del pensiero. Una ritrosia del genere si radica, invece, nel tenore specifico stesso che questa grande autrice del Novecento ascrive alla propria opera intellettuale – e della cui originalità e dirompenza, com’è altrettanto noto, non ha mai nascosto piena consapevolezza. È un tenore, questo, che, in effetti, se non può essere ricondotto al registro della produzione filosofica è perché al predominante carattere speculativo di quest’ultima ha instancabilmente inteso contrapporsi. Sotto questo profilo il proposito del discorso arendtiano è privo di ambiguità: il suo sforzo teorico, in effetti, è stato costantemente profuso proprio nel senso di una riabilitazione del primato dell’azione politica contro la tendenza preponderante nella tradizione speculativa occidentale, sempre incline ad anteporre all’organizzazione socio-politica dell’esistente una struttura metafisica della realtà dotata di maggiore consistenza fondativa e profondità ontologica.
Una vis polemica del genere spiega perfettamente l’avversione dell’autrice nei confronti di qualsivoglia accostamento della sua impresa a qualcosa come una qualificazione filosofica. Eppure, non per questo la affranca, a mio avviso, fino in fondo, dalla legittima assegnazione di una tale connotazione. E questo quantomeno per un doppio ordine di motivi. Il primo, se vogliamo, di carattere esterno; l’altro, interno.
Quello esterno potremmo ricondurlo a quanto Hans-Georg Gadamer avrebbe definito nei termini di Wirkungsgeschichtlichkeit, ovvero capacità di un nucleo discorsivo d’innescare e consolidare una vera e propria storia degli effetti. È in tale traiettoria, dunque, che quella di Arendt, nonostante ogni sua avversione al riguardo, non può sottrarsi dall’essere considerata una filosofia a tutti gli effetti. Del resto, a cos’altro potrebbe attribuirsi la qualifica di discorso filosofico se non proprio a un impianto intellettuale che, a conti fatti, si dimostra in grado di aver propiziato una traiettoria di dibattito e di aver fatto da punto di gemmazione per una pluralità di riferimenti disciplinari? E non v’è dubbio alcuno che proprio questo è il caso di Hannah Arendt: a cinquant’anni dalla sua morte, infatti, indelebile si mostra l’impronta del suo pensiero su tutta una serie di discorsi e dibattiti che hanno solcato la storia culturale, sociale e istituzionale contemporanea.
Vi è, inoltre, anche una ragione interna, dicevamo. Ora, se quella esterna si riferisce a quanto Arendt ha provocato col suo discorso, quella interna si confronta, piuttosto, con ciò che lei stessa sostiene esplicitamente della sua opera, ossia il fatto che il suo carattere non-filosofico si realizzerebbe in coerente corrispondenza con l’intento di contrapporsi al primato ontologico-speculativo della tradizione per riabilitarne, invece, la più genuina, quanto rimossa, matrice politica che intesse l’esistenza umana. Eppure, a mio avviso, questa opposizione non basta. Poiché, nonostante tutto, la caratura filosofica del progetto arendtiano si radica su un tratto ancor più fondamentale: ovvero l’intenzione di radicalità (ri-)fondativa stessa che esso esprime. Di conseguenza, al pari di tutte le altri grandi imprese teoriche del Novecento, anche quella arendtiana si rivela eminentemente filosofica in ragione del suo essere animata da un chiaro progetto di genuina risignificazione delle categorie strutturali per la comprensione del reale. Husserl, ad esempio, esibisce questo intento di rifondazione del discorso filosofico in chiave gnoseologico-epistemologica; Heidegger lo fa in termini di un investimento di stampo espressamente ontologico-esistenziale. E, in modo del tutto equiparabile, anche Arendt fa affiorare una “grandezza” filosofica: quella appunto di una profonda risemantizzazione del reale in chiave politica.
È esattamente in tale prospettiva, allora, che il progetto arendtiano, lungi dal manifestare un allontanamento dalla filosofia, ne lascia emergere semmai proprio il significato più autentico: ossia quello di reinvestimento concettuale dell’originario per rimetterne in circolo la struttura intima e le linee di scaturigine da esso prodotte.
Non è pertanto un caso che, essendo precisamente questo il tenore dell’impresa arendtiana, la sua filosofia si è mostrata in grado di provocare una lunga traiettoria di effetti nella cui scia, in modo diretto o indiretto, esplicito o implicito, si sono collocate numerose prospettive filosofiche altre e domini di dibattito generalmente culturale e pubblico-istituzionale.
Sul fronte più esplicitamente filosofico, possiamo riferirci, ad esempio, a tutta quella linea di teorie dell’intersoggettività che hanno contraddistinto un’importante stagione del pensiero contemporaneo e che molto hanno attinto all’originaria insistenza arendtiana sulla condizione strutturale della pluralità umana. Oppure, ci si può riallacciare ai vari discorsi filosofico-istituzionali attuali espressamente dedicati alla dinamica profonda del politico quale elaborazione riconducibile a vario titolo all’intuizione sempre arendtiana di una costituzione pubblica del mondo quale spazio segnatamente comunitario, interattivo e conflittuale.
Nella prospettiva dei dibattiti pubblici e istituzionali, non meno rilevante si rivela l’influsso della produzione arendtiana, sempre e di nuovo ripresa e riattualizzata al fine di affrontare le numerose prove che il mondo odierno lascia affiorare: da quelle riguardanti la tenuta e protezione di una democrazia effettivamente plurale a quelle concernenti la difesa e tutela della vulnerabilità dei soggetti assieme al loro “diritto di avere il diritto” di essere pienamente al mondo, per giungere infine all’attualissima sfida che si esplicita nel delineare la possibilità di azioni davvero creative per i singoli e la società nell’alveo di un dominio tecnologico che pare ormai in grado di predeterminare e irregimentare sempre più ogni forma espressiva e comportamentale.
A cinquant’anni dalla scomparsa di questa grande intellettuale del Novecento, riprendere e ridiscutere i grandi temi della sua “filosofia” si mostra essere, pertanto, occasione che non smette di rivelarsi assai promettente e feconda.
ENDOXA - BIMESTRALE FILOSOFIA Endoxa novembre 2025 Ferdinando Menga Hannah Arendt
