GIMME SHELTER
PIER MARRONE

I filosofi da tempo hanno individuato paradossi legati alla sottrazione e all’addizione. Si tratta di esperimenti mentali che ci aiutano a focalizzare situazioni dove l’aggiunta o la sottrazione progressiva di elementi simili si trasforma da quantitativa a qualitativa. Se perdi un capello non sei calvo, nemmeno se ne perdi dieci, ma se cominci a perderne ogni giorno senza che vengano sostituiti allora alla fine calvo lo sarai sul serio (noi infatti perdiamo circa cento capelli al giorno che non è opportuno lasciare in posti inusuali, come fece l’amante di un mio amico sul suo talamo nuziale, poco prima che rientrasse la moglie).
Immagina un mucchio di sabbia e comincia a sottrarre un granello di sabbia alla volta. Quand’è che il mucchio di sabbia non sarà più un mucchio di sabbia, ma solo un aggregato di depressi granellini solitari? Questo ultimo paradosso viene di solito attribuito a un filosofo che si chiamava Eubulide di Mileto, esponente di un club filosofico che estremizzava contenuti impliciti nel linguaggio comune, mostrandone la problematicità, ossia la vocazione a generare problemi dove problemi forse non dovrebbero esserci. È chiaro infatti che il problema di che cosa sia un mucchio di sabbia è in larga parte stipulativo. La difficoltà del paradosso del sorite (così si chiama questo paradosso individuato da Eubilide) scompare completamente una volta che noi ci accordiamo su che cosa vuole dire ‘mucchio’. Poniamo che per essere un mucchio di sabbia ci debbano essere almeno duecento granellini di sabbia raggruppati in uno spazio ristretto e voilà il problema è risolto. (Un altro paradosso del quale si deve una formulazione a Eubulide non ha invece questo carattere stipulativo e genera difficoltà logico-linguistiche di enorme portata. Si tratta del paradosso del mentitore. Se dico “mento” sto mentendo o sto dicendo la verità?) .
La sottrazione può essere concettualizzata come un’addizione negativa. Immaginiamo di togliere da una nave alcune paratie e di sostituirle con altre identiche. Ripetiamo l’operazione con tutti gli altri elementi della nave sino a che avremo una nave identica alla prima ma con elementi nessuno dei quali era presente nella nave originaria. Si tratta ancora della stessa nave? Questo paradosso della sottrazione e della sostituzione ha a che fare con l’identità. La nave (si chiama paradosso della nave di Teseo) è ancora la medesima dopo che abbiamo sostituito tutti i pezzi con altri identici? Io sarei propenso a dire di sì. In fin dei conti anche oggi esistono dei kit di aggiornamento per i sistemi di arma complessi che fanno sì che ci siano in giro portaerei che hanno un’età prodigiosamente lunga, ma che grazie alla manutenzione e all’aggiornamento sono sempre pronte a svolgere la loro missione di seminare morte all’occorrenza. Si tratta sempre delle stesse portaerei?
Noi siamo sempre le stesse persone che eravamo venti anni fa? Le risposte sono complesse e coinvolgono la nostra capacità di guardare alla nostra vita come a un tutto dotato di una relativa unità narrativa. Questa unità narrativa è data anche dai principi che hanno guidato le nostre azioni. Magari non saranno stati sempre coerenti tra di loro, ma noi avremmo per lo meno voluto che lo fossero e forse nella nostra immaginazione li ricostruiamo in maniera molto più coerente e compatta di quanto in realtà siano stati. È a questo che servono i principi morale e le teorie etiche che ognuno di noi segue, il più delle volte implicitamente, ma che sono capaci di emergere alla coscienza e alla riflessione, soprattutto nei momenti di crisi, quando affrontiamo dei dilemmi morali e il gioco morale si fa duro, per così dire.
Le teorie morali maggiormente accreditare, ossia quelle deontologiche e quelle utilitaristiche sono dotate di notevole coerenza, ma sono ben lungi dall’essere prive di problemi. Quelle deontologiche sono centrate sull’intenzione e sulla motivazione, e sostengono che ciò che dà all’azione il suo inequivocabile sapore morale è non tanto il risultato quanto la bontà del progetto mentale che le ha prodotte. È appunto l’intenzione ad essere buona oppure no e non tanto l’azione. La bontà non esiste nel mondo degli effetti, ossia nel mondo esterno, ma nell’interiorità della nostra coscienza. Questa posizione può generare, però, numerosi paradossi. Ad esempio, noi possiamo essere convinti che la tortura sia una pratica ripugnante, perché degrada l’umanità di chi vi è sottoposto, segnala il degrado già avvenuto di chi la compie, e non ha nessun effetto certo. Ma pensate di trovarvi in una situazione nella quale abbiate un terrorista in custodia e sappiate che ha piazzato una bomba in una scuola che potrebbe uccidere molti bambini innocenti. Avete solo mezz’ora di tempo per raccogliere le informazioni necessarie a salvare quegli innocenti raccogliendo una confessione da un soggetto che non ha nessuna intenzione di collaborare. Che cosa dovreste fare per evitare un disastro morale? Sino a dove dovrebbe spingersi la vostra capacità di applicare mezzi coercitivi extralegali, se siete convinti che questi siano gli unici strumenti che potrebbero salvare molte vite innocenti? Rompere una mano con un martello? Estrarre dei denti senza anestesia? Sparare nelle ginocchia o nei genitali? Mozzare le orecchie? Le scelte non sarebbero certamente semplici per la maggior parte di noi che non nutrono sentimenti sadici antisociali. E se il terrorista avesse assunto una droga che mentre lo fa lamentare per il dolore lo induce anche a incitarvi a torturarlo, allora la sua strategia apparentemente irrazionale sarebbe in realtà del tutto razionale.
Il problema del disastro morale (individuato tra gli altri da Robert Nozick) non manca di suscitare riflessioni di una certa ripugnanza. Questa ripugnanza sorge esternamente alla dottrina deontologica, ossia da una sua inadeguatezza alle situazioni che concretamente si possono presentare. Ma esiste anche una ripugnanza che io credo si debba dire sorga internamente al deontologismo. Come è noto, Kant, che è l’eroe e il principale esponete delle etiche deontologiche, riteneva che la menzogna è sempre immorale. Mentire è una sorta di degrado dell’umanità sia in noi stessi sia rispetto all’interlocutore che ci sta di fronte. È inoltre un comportamento irrazionale. E qui va spesa una parola, perché la concezione della razionalità di Kant è specifica e non è affatto quella maggioritaria nelle scienze umane. Per Kant razionale è ciò che può essere universalizzato. Razionale è il comportamento che ognuno compirebbe in circostanze analoghe. Questa non è la concezione attualmente prevalente tra gli studiosi, per i quali razionale è semplicemente quel comportamento che sceglie mezzi maggiormente adeguati in vista del conseguimento degli scopi. Sono cioè i mezzi ad essere o meno razionali e non invece gli scopi la cui selezione è al di fuori della razionalità. Ora, non è questa la posizione di Kant, che la pensava altrimenti. Per lui alcuni comportamenti sono semplicemente irrazionali tout court. Così ad esempio la menzogna.
Se tutti mentissero sempre in ogni circostanza, mentire non avrebbe più alcun significato (forse in questo era guidato da una universalizzazione del paradosso del mentitore). Di più: mentire è uno sfregio che viene riservato all’umanità del tuo interlocutore, che come essere razionale deve essere sempre considerato degno di accogliere la verità. Anzi: vivere nella verità e nella giustizia è un imperativo che non deve mai essere disatteso. Ecco dunque il paradosso e la ripugnanza che spero sorga in ciascuno di noi. Un assassino insegue la sua vittima che bussa alla vostra porta e vi chiede di nasconderla. Voi lo fate. Poco dopo si presenta alla vostra soglia l’assassino che vi chiede se nascondete in casa la sua potenziale vittima. Badate bene: non vi sta minacciando, non accenna minimamente a una rappresaglia tremenda nei confronti vostri e dei vostri familiari. Vi fa una semplice domanda. Ecco: per Kant voi dovreste dirgli che effettivamente nascondete la sua vittima. Se non lo dite negate la razionalità che fa di ciascuno di noi un essere morale. Scusate: vi sembra normale?
Questo è forse anche uno dei motivi per i quali Kant, sessuofobo e cattivello, censurava la masturbazione. Nemmeno la masturbazione può essere universalizzata come comportamento sessuale. Se tutti esaurissero il proprio comportamento sessuale nella masturbazione l’umanità avrebbe ben presto fine. Questo non c’è in Kant, che pensava che la masturbazione fosse un delitto contro l’umanità che è presente in ciascuno di noi, perché ci fa trattare il nostro corpo esclusivamente come un mezzo e non anche come un fine. Quando penso a questa storia della masturbazione in Kant, mi immagino che i suoi pensieri da sessuofobo fossero popolati da orde di uomini barbuti e donne discinte che si masturbavano accanitamente lanciandosi sguardi lubrichi, che ben presto sarebbero degenerati in orge di proporzioni colossali che nemmeno nelle fantasie dei più sfrenati teorici della rivoluzione sessuale. Credo che una scena del genere, così antikantiana, compaia anche in una qualche parodia della scena iniziale di 2001 Odissea nello spazio, di Stanley Kubrick fatta da Mel Brooks. Be’, sappiamo del resto che il sesso è uno degli espedienti evolutivi di risoluzione dei conflitti, come è testimoniato da innumerevoli studi sui comportamenti dei bonobo.
Perché ho introdotto alcune delle conclusioni ripugnanti del deontologismo? Non soltanto perché io credo che in ogni deontologismo ci sia il germe del fanatismo, ma anche per mostrare che un sistema etico è incompleto. Le fattispecie che le relazioni degli umani (degli umani tra di loro, degli umani con gli altri animali, degli umani con la biosfera) producono non esauriscono affatto la totalità dei comportamenti morali conosciuti e trasmessi dalla tradizione né esibiscono una coerenza sempre convincente. Io trovo molto più aderente alle nostre modalità viventi, l’altra grande famiglia di teorie etiche che al deontologismo si contrappone, ossia l’utilitarismo. Il mantra dell’utilitarismo è che il bene coincide con il piacere. Il piacere può essere sia positivo sia negativo (come assenza di dolore). Si tratta quindi di una filosofia edonistica, proprio la classe di filosofie morali che Kant detestava. Kant anzi pensava che non avessero affatto a che fare con la moralità, poiché prendono in considerazione il nostro inevitabile rapporto con il corpo e la sensibilità, mentre per lui la moralità è una questione di razionalità. Di più: la moralità non è nient’altro che l’esercizio della ragione nel suo uso pratico a prescindere da qualsiasi contenuto sensibile. Per questo motivo dire ‘ragion pratica’ o dire ‘ragion pura pratica’ è dire la stessa cosa. Ma riuscite davvero a immaginarvi una moralità che prescinda dal nostro rapporto con il corpo, con le esperienze che abbiamo vissuto, con i nostri progetti, le nostre inclinazioni? Io penso che sia impossibile. Provate a pensare del resto a una accelerazione fuori dal tempo, a una reazione chimica che prescinda dal tempo. Vi renderete conto che è del tutto impossibile ed è questo il motivo per cui alle tre dimensioni spaziali si deve aggiungere una dimensione temporale. Ma questo è precisamente quello che ci richiede il deontologismo.
L’utilitarismo ha inoltre il vantaggio di concepire la moralità come un insieme di relazioni tra agenti e pazienti. Infatti, il bene non è solo il piacere, ma la produzione del piacere per il maggior numero. È questo quanto in termini tecnici si chiama aggregazionismo. Il bene che deve essere prodotto è un aggregato che deve avere significato per il maggior numero di soggetti morali. Per questo l’azione morale deve essere valutata dal lato delle conseguenze e non dal lato delle intenzioni. Che senso ha una morale che sia indifferente agli effetti, ai corpi, al tempo? La morale non è forse il modo che noi abbiamo elaborato per comprendere le relazioni tra di noi, per costruire delle relazioni di cooperazione o di conflitto apparentemente sensate tra noi?
Questa maggiore aderenza dell’utilitarismo all’esperienza umana immediata non lo preserva da critiche e da conclusioni controintuitive. Ad esempio, io faccio molta fatica a stare accanto a persone obese (perché l’obesità, immagino, mi ricorda la possibilità di perdere il controllo del proprio corpo e della propria ragione, precipitando verso il delirio della mancanza di forma, che l’obeso evoca), ma non ucciderei mai un uomo grasso. Ma è sempre sbagliato non uccidere l’uomo grasso? È un tema che è stato analizzato in molte delle sue varianti da David Edmonds in un volume che si intitola appunto Uccideresti l’uomo grasso?, che ci mette di fronte a delle difficoltà dell’etica utilitarista che sembrano essere in contrasto con alcune nostre intuizioni morali. Se il bene che l’azione deve promuovere è quello che per il maggior numero, immagina allora di assistere a questa scenetta inquietante. Un carrello ferroviario si è sganciato dalla motrice e acquista sempre maggiore velocità. Sta per piombare su un gruppetto di sei persone che sono del tutto ignare del suo arrivo e saranno uccise quando saranno investite, a meno che il carrello non venga deviato. Voi state osservando tutta la scena come al rallentatore da un cavalcavia. Vicino a voi c’è un uomo molto grasso che sta osservando la stessa scena. Improvvisamente vi rendete conto che se precipitasse dal cavalcavia potrebbe fermare la corsa del carrello omicida. Salvereste così sei persone sacrificandone una, ma voi, proprio voi, uccidereste l’uomo grasso?
Questo esempio estremo ci mette di fronte a una insufficienza dell’utilitarismo, perché dal punto di vista dell’idea che ciò che conta in un’azione sono le conseguenze, allora voi dovreste uccidere l’uomo grasso, producendo il maggior piacere per il maggior numero, ma magari ben pochi di noi sono disposti a farlo, per la propria storia personale, perché trovano ripugnante uccidere a sangue freddo, perché soprattutto la l’esperienza etica coinvolge in maniera strutturale una dimensione empatica che ci mette in comunicazione con l’altro in una maniera pre-razionale.
Uccideresti l’uomo grasso, che ha magari una famiglia, dei bambini che lo aspettano a casa, una moglie amorevole che lo vede lottare invano contro la dipendenza del cibo, e dei progetti per il futuro che si attende, come tutti noi, migliore per sé e per le persone che ama? Lo uccidereste davvero? Eppure non si potrebbe fare lo stesso ragionamento per ognuna delle cinque persone che stanno per morire. Ognuna di loro ha una vita che molto probabilmente attende di elargire soddisfazioni non minori di quelle che attendono l’uomo grasso. E poi stiamo parlando di cinque persone, mica di una soltanto! Quindi, l’idea potrebbe essere espressa semplicemente dicendo che dove c’è una maggiore quantità di vita che può provare una qualche forma articolata di piacere, questa deve essere preferita a una situazione dove la quantità di vita sia inferiore perché inferiore la quantità di piacere che produce.
Ed è qui che si inserisce un celebre paradosso individuato da Derek Parfit. Immaginiamo una popolazione A di alcuni milioni di persone che vivono in uno stato di benessere soddisfacente. Hanno cure mediche adeguate, assistenza agli anziani, scuole di qualità, magari anche il reddito di cittadinanza. Immaginiamo ora una popolazione B di gran lunga maggiore che sia appena sopra la soglia di una vita miserevole, ma nella quale la quantità totale assoluta di piacere sia superiore a quella della popolazione A. Parfit trova inaccettabile preferire B ad A, ma da questo paradosso si generano delle domande forse inquietanti. È moralmente giusto fare dei figli?; bisognerebbe farne più possibile, almeno sino a una soglia appena superiore a una vita miserabile? Come deve essere reinterpretato il principio utilitarista dell’utile per il maggior numero?
È piuttosto ovvio che deve essere introdotto un criterio di benessere medio per evitare la conclusione ripugnante, ma questo criterio non è certo iscritto nella natura, bensì è il prodotto di circostanze e usi e costumi e inoltre della nostra attitudine a considerare anche gli interessi di chi non c’è ancora, ossia delle generazioni future. Si potrà forse pure dire con una battuta che, in fondo, le generazioni future non hanno fatto nulla per me e, quindi, non è razionale che io abbia alcuna obbligazione verso di loro, ma la grande maggioranza di noi si comporta come se avesse una obbligazione implicita verso chi ancora non c’è, ad esempio quando decide di prendersi cura di una porzione del suo ambiente, magari piantando degli alberi che sa bene gli sopravvivranno. Facciamo cose che non riguardano il nostro benessere futuro, ad esempio quando ricicliamo in tardissima età, ma non ci sembra che questo sia irrazionale, tutt’altro. E non è nemmeno semplice dire che lo facciamo per il benessere del maggior numero.
Cosa ne sappiamo del futuro? Nulla, direte voi, ma è proprio così? Forse rispondere a queste domande ci aiuta a comprendere quanto è rimasto finora solo sullo sfondo sia delle conclusioni accettabili dei sistemi morali sia delle conclusioni controintuitive o francamente ripugnanti di alcuni di questi. Leggo un libro di Fabio Mini, Che guerra sarà, un’opera che come le altre sue (Mini è stato un generale con importanti incarichi operativi) si presenta come l’ultima riflessione nel solco del realismo politico (quella corrente di pensiero che pensa che la politica abbia a che fare con la realtà effettuale della lotta per il potere e non con i nostri nobili desideri). La guerra gode del discutibile privilegio di avere dalla sua l’evidenza di tutta la storia umana. Viene combattuta da sempre e anche quando può essere evitata viene combattuta perché qualcuno desidera il conflitto a qualsiasi prezzo. Amante in genere disprezzata pubblicamente, quasi tutti si recano nel suo talamo, magari sostenendo che non esistono alternative. Ma dal punto di vista razionale un’alternativa c’è quasi sempre e se non ci fosse rimarrebbe vero che pochi si farebbero uccidere pur di non combattere per uccidere un proprio simile. Allora perché questo desiderio di morte? Le risorse, il potere, il desiderio di sopraffazione, la necessità di propagare il proprio patrimonio genetico a scapito di quello di altri? Sarà mai possibile che si verifichi davvero una situazione quale quella immaginata da Parfit? Io credo di no, perché qualcosa di altro, un conflitto o una epidemia non ci farà giungere a quel limite di vita miserabile infelicemente condiviso.
Il problema di Mini, infatti, non è se la guerra ci sarà oppure meno, ma quale guerra sarà, quali sistemi di arma saranno messi in campo, quali aree geostrategiche potrebbero essere interessate a un conflitto futuro, che a leggere la storia umana, è soltanto imminente. Qualcuno di noi rimarrà al sicuro da un conflitto che potrebbe non essere affatto localizzato in lontane aree depresse? Qualche superricco potrebbe ritagliarsi il suo superaccessoriato rifugio al sicuro da conflitti paraglobali? Mini ne dubita e ci sono molte ragioni legate alla realtà del nostro mondo globalizzato nelle tecnologie, nei trasporti, nei flussi finanziari per essere scettici. Ma la guerra, così inevitabile pur essendo evitabile, così attraente per coloro che hanno più da perderci (i giovani) cosa fa se non replicare nella nostra piccola scala umana, quelli che sono i conflitti per l’accaparramento delle risorse che la teoria darwiniana ci ha reso familiari? Certo, c’è una differenza molto importante: nella selezione naturale non c’è l’ideologia che ammanta di nobiltà il conflitto estremo che chiamiamo guerra. Il fatto che la nostra specie abbia avuto un così spettacolare successo riproduttivo sul nostro pianeta, promuovendo una guerra perpetua contro le altre specie animali non dovrebbe farci dimenticare che da quando alcuni miliardi di anni fa si è accesa la vita sul nostro pianeta, il 99% delle specie animali si sono estinte. Noi siamo solo un episodio di questa vicenda evolutiva, il suo ultimo battito di ciglia. Prima di essere animali politici, siamo semplicemente animali che hanno escogitato vari mezzi per non far degenerare sempre la propria vita nel conflitto distruttivo con i propri simili. La moralità è proprio quel muro che noi ergiamo contro la distruttività, il giardino vittoriano come lo chiamava il darwiniano Thomas Huxley, assediato dalla foresta. Come tutti i giardini non può essere mai lasciato a se stesso, perché i suoi muri prima o poi crollerebbero. La lenta e costante e enorme pressione igrometrica di radici che nemmeno vediamo sconvolgerebbe il suo ordine umano, instaurando quell’altro ordine, senza finalità, senza scopo che è la ricerca della migliore strategia di trasmissione del proprio patrimonio genetico. Ogni etica genera paradossi, ma questi paradossi non hanno nulla di grandioso, sono delle piccole siepi tagliate in maniera leggermente diversa in quel giardino, dove noi pensiamo di risiedere per sempre, ma è un’illusione che la guerra verrà a smontare come sempre, pezzo a pezzo. Quando diciamo, con Mick Jagger e Keith Richards, “Gimme shelter”, invochiamo l’etica come il nostro momentaneo rifugio, come una bugia infarcita di fiducia, ma rimane sempre vero che “Rape, murder! / it’s just a shoot away”.
ENDOXA - BIMESTRALE FILOSOFIA DEONTOLOGISMO Derek Parfit Endoxa luglio 2018 etica UTILITARISMO