LE DUE VERSIONI
PEE GEE DANIEL
1. Prospettiva etica
Simona non c’è più.
Un destino precoce e crudele l’ha voluta portar via all’affetto dei suoi cari, come si legge nei necrologi, al legame con la cara mamma, agli abbracci del figlio adorato, ma soprattutto all’amore incondizionato del marito.
Se n’è andata, così, nel fiore degli anni, come si dice in questi casi, ripetendo, forse per pigrizia mentale, sempre la stessa formuletta. Eppure stavolta è più vero che in altre: Simona era un fiore. Ancora rigoglioso. Di quelli che resistono alla forza degli elementi. Non al vaso che le è piovuto in testa mentre passava per quella via del centro l’altro pomeriggio, perché la signora del sesto piano l’aveva posato male sopra il davanzale, questo no, certo. Ma qui si va fuor di metafora e poi non si capisce più niente…
Un carattere forte e dominante il suo. Anche per questo il marito si vede che ci patisce così tanto. E si capisce. Decideva tutto lei, brava donna. Lo teneva sotto schiaffo. Del resto, come si dice? In una coppia uno dei due deve guidare, altrimenti prima o poi… si va a sbattere.
Era lei a prendere le decisioni, a dare le direttive. Lui: un pezzo di pane. Le dava ragione, la accontentava, non c’era volta che non ne seguisse i consigli. Chissà che brutto colpo, poverino! Rimanere così, senza più un riferimento, da un giorno all’altro, per un maledetto incidente! Come se la caverà a dover fare tutto da solo, a sentirsi addosso tutte le responsabilità d’ora in avanti?
Non avrebbe mai e poi mai potuto lasciarla. E invece? È stata la vita a portargliela via così prematuramente…
È straziante anche solo pensare che il pover’uomo abbia dovuto assistere all’intera scena. Parteciparvi, pure. Eh sì, perché era lì anche lui, quand’è successo. Si erano dati appuntamento. Lui le stava andando incontro quando c’è stato quello sfacelo.
Doveva essere a pochi passi da lei. Se l’è vista davanti mentre veniva centrata dal vaso, lì, in quel momento, sotto i suoi occhi. L’ha soccorsa. L’ha accolta tra le sue braccia, così, con la testa già sfondata. Avrà anche gridato a qualche passante di fare il 118. Ma intanto… Più niente da fare. Prima che fosse notte i medici l’avevano già bella che dichiarata “clinicamente morta”.
Che disgrazia!
Se fa causa a quella del sesto piano, la vince. Magra soddisfazione, direte voi, ma è per il principio, come si dice sempre in casi come questo, mentre si va a controllare sull’estratto conto se il bonifico è poi stato versato…
L’han visto tutti, meschino! Da quando gli è capitata la tragedia è inconsolabile. Non fa che piangere e piangere e piangere. C’è da stupirsi di quanti liquidi avesse in corpo quell’uomo…
Appena è successo, col corpo della moglie ancora caldo, è scoppiato in un pianto convulso, che lo scuoteva come fosse febbricitante. E per quanto conoscenti e amici tentassero di dargli conforto con parole buone e frasi di circostanza, lui ha proseguito così fin dopo le esequie. Non ha gridato, non si è attaccato al feretro con disperazione, né ha levato urla di dolore al momento di murare la bara dentro il loculo, come in molti fanno. No. Lui se ne stava lì, un po’ in disparte, sempre in piedi come un cavallo, a piangere, piangere, piangere, asciugandosi gli occhi ogni tanto dentro la manica della camicia.
Si è anche attaccato alla bottiglia, proprio lui, morigerato, serio, mai un gesto fuori posto. Eh, ma lo si può anche capire, in questi momenti. Beve per dimenticare. Sembrerà anche una frase fatta, una scusa da addurre al barista quando domandi l’ennesimo cicchetto che già non ti reggi in piedi, ma mica lo si può condannare. Vale come anestetico. Lo aiuta a tirare avanti. Bere gli ottenebra un po’ la mente, lo fa pensare meno, gli fa rimpiangere di meno i bei tempi andati, la dolce metà volata in cielo così, come per una crudele burla. Spesso lascia il figlioletto alla madre, alla cara suocera, se ne va solo al bar sotto casa e lì comincia, un bicchiere dopo l’altro, finché non rincasa a tarda notte, faticando a mantenersi sulle proprie gambe. È una via di scampo anche quella, ora che è rimasto solo come un cane.
È distrutto. Lo si capisce. La lacerante mancanza di Simona gli pesa. Non c’è giorno che non si rechi sulla sua tomba, come a cercarla, come a rivederla, come a immaginarsela ancora lì, accanto a lui, compagna di una vita, supporto e aiuto quotidiano.
Tutta questa abnegazione è il più chiaro segno di quanto fosse legato alla sua cara moglie.
2. Prospettiva emica
Simona non c’è più.
Non ci riesco ancora a credere…
Per uno stupido vaso di fiori cascatole in testa, giù, a perpendicolo, dal sesto piano, mentre attendeva dall’altro ciglio della strada che la raggiungessi.
Ho visto tutto. Ho assistito all’intera scena. L’ho ancora stampata negli occhi come se continuasse a succedere, all’infinito.
È stato… è stato… bellissimo!
Uau! Non ci potevo credere: tutta la mia vita risolta in un battibaleno.
Stavo attraversando la strada, attento a non venire stirato da uno di quegli automobilisti da strapazzo che pare quasi che ci facciano le gare in quella via. A ripensarci, forse è stato un bene. Mi ha ritardato il passo di qualche secondo. Metti che arrivassi un frangente prima e che il vaso beccasse me…
Comunque sia, mi sto avvicinando alla mia signora. Allungo il passo. Noto quella sua tipica espressione farsi strada sulla sua faccetta appuntita e so già che cosa mi aspetta. Mi preparo già a sorbirmi una di quelle sue insopportabili tiritere sul fatto che sono un ritardatario cronico, un cretino, che non porto rispetto e blablablà blablablà e invece, sul più bello… scrànc!
Inaspettato, come un dono dal cielo, vola giù questo strabenedetto vaso. La piglia dritta in testa. Da come sta messa si capisce a colpo d’occhio che è a fine-corsa… Ho ancora stampata in mente l’immagine di mia moglie con quel vaso di gerani calcato in testa, che, a dire il vero, potrebbe anche passare per uno di quei suoi orrendi cappellini che ne riempiono ancora adesso il guardaroba, che sto svuotando giorno per giorno per infilare tutta la sua pulciosa mercanzia nel cassonetto dei poveri, se non fosse per quei rigagnoli di sangue che dalla cute cominciavano a scorrerle giù per le tempie, le guance, il collo, mentre lei già girava gli occhi all’insù e si afflosciava sul marciapiede.
Mi è venuto istintivo correre a tenerla per le ascelle, anche se la prima sensazione a esplodermi dentro, appena il mio cervello mette a fuoco ciò che sta accadendo, è un dolce stato di benessere.
“La rompipalle non c’è più!” continuo a ripetermi mentalmente, come su un giro di do. “La rompipalle non c’è piuuuuuù!” ululo tra me e me.
Non ci potevo credere (e stento a farlo tuttora). Mi sembrava un sogno. La realizzazione di tutte le mie inespresse preghiere. Proprio mentre mi preparavo a incassare una delle più schifose giornate di tutta la mia vita, ecco che improvvisamente un cielo nero come il catrame si rasserena di colpo. E per sempre!
Ero smarrito. Sopraffatto. La gente raccoltasi intorno a quella patetica scenetta sussurrava parole di cordoglio e sgomento, ancor prima indirizzate a me, che ai loro occhi dovevo apparire sin da subito come l’inconsolabile vedovo di fresca nomina, che alla reale vittima di quell’incidente da barzelletta.
“Libero! Libero!” mi autoproclamavo nel segreto del mio animo, cinto all’esterno dal più peloso calore umano. Avessero saputo il tripudio che covavo dentro mi avrebbero preso per un mostro. Avrebbero sospettato che fossi stato complice della signora del sesto piano e del suo pericolante vaso.
Se mai si venisse a conoscenza dei miei veri sentimenti, bene che vada mi darebbero del codardo.
“Potevi ribellarti, se non ti andava bene. Potevi mollarla.” Già me li sento. Ma non è così facile…
A ogni più piccolo screzio, ogni volta che cercavo di imporre il mio punto di vista, le mie esigenze personali, lei minacciava, con tono perentorio, che, se non avessi fatto come voleva lei, mi avrebbe portato “via i figli” (anche se, a conti fatti, di figli ne avevamo soltanto uno)
«Ti porto via figli, casa, macchina!» Sapevo che non stava scherzando. Ed ero ben conscio del peso che esercita la madre sul bilancino della giustizia in un paese di mammoni come l’Italia. (Si era sotto la festa della mamma quella volta che, a caldo, dopo una delle frequenti sfuriate intruterine di mia moglie, alla presentazione del regalino fatto a scuola da parte di nostro figlio, che recitava: “L’anagramma di madre è dream. Sei tu il mio più bel sogno, mammina!” Mi scappò detto: «Beh, pure merda è l’anagramma di madre, se è per questo…» morsicandomi poi subito la lingua, sotto lo sguardo incenerente della mia consorte).
Non avrei mai potuto lasciarla senza uscirne con ferite che non sarebbe bastata un’intera vita a leccare… E allora? Allora subivo, accettavo tutto. Per il quieto vivere, come si suol dire…
Questo finché non gli è piombato in testa il vaso!
C’è qualcuno che mi suggerisce, a bassa voce, per non urtare il mio supposto stato di prostrazione, di fare causa a quella del sesto piano, da cui il vaso è piovuto giù. Causa! Pfui! Vien da ridere… Sai che faccio invece?! Sotto Natale le mando un pacchetto regalo, anonimo, si intende: per non compromettermi… Una bella strenna, sì. Per sdebitarmi! Almeno in piccola parte, eh. Perché dovrei fargliene uno al giorno, se sto a vedere. Uno per ogni giorno in cui posso finalmente tornare a essere pienamente me stesso!
Son tre giorni che piango, sì. Non riesco a fermarmi. Si è aperto il rubinetto e ciao!
Ho attaccato subito dopo che in ospedale i medici mi han dato per certo che la mia Simona aveva finito di (farmi) soffrire.
“Lì è crollato!” commenterebbe un occhio esterno, ma non è andata proprio così.
In realtà è stato… è stato come se un annoso groppo mi si sciogliesse d’improvviso e magicamente dentro la gola. Sturato di colpo da quella rassicurazione appena fornitami dai sanitari.
A quel punto mi son salite tutte le lacrime che non avevo versato per anni, che mi ero tenuto dentro, come un fiume carsico, per non far trapelare di fronte agli occhi della gente quanto ci stavo male. Per non farmi vedere debole di fronte a mia moglie, che, carogna com’era, anziché venirmi incontro, appena le avessi mostrato il fianco, indifeso, ci avrebbe affondato dentro tutta la sua appuntita spietatezza.
Ciò che stava sicuramente per fare anche quella volta su dall’avvocato, se non l’avesse fermata per tempo quella provvidenziale, inopinata caduta di un grave dritto sopra la permanente.
Sì, perché là, in quella via, anche se nessuno l’ha poi saputo, ci dovevamo trovare per salire nello studio dell’avvocato divorzista che sta da quelle parti.
Per ironia della sorte, era lei a voler lasciare me, alla fine. Qualche tempo fa se ne era uscita che non le davo abbastanza, che meritava di più, che voleva rifarsi una vita e via cantando.
Tanto lei che ci aveva da perdere? Giusto guadagnarci poteva.
Ma l’è andata male… fuiiiii-scrànc! E ciao…
Fu per quello che, appena mi sono reso pienamente conto di quanto mi era accaduto, non ce l’ho fatta più: piansi e piansi e ancora piansi. Tre giorni di seguito ho pianto. Di gioia.
L’unica difficoltà è stata dissimulare gli sghignazzi che ogni tanto mi uscivano fuori tra un pianto dirotto e l’altro…
Ho anche ricominciato a bere. Tanto nessuno ha il coraggio di dirmi niente. Intorno a me ho certe facce da lutto pronte a giustificare qualsiasi cosa mi venga in mente di fare. E io… ne approfitto.
Prima di Simona facevo le mie belle uscite. Mi piaceva alzare il gomito di tanto in tanto. Poi è arrivata lei, la guastafeste! Qualunque cosa che anche lontanamente assomigliasse a un attimo di svago me la bandiva. Dovevo fare la vita del frate cluniacense, dovevo. Anche ai pranzi pasquali, alle cene coi parenti, guai se trincavo un bicchierino di troppo. Davanti agli altri no, perché ci teneva a salvare le apparenze, a sembrare la mogliettina amorevole e gentile, ma poi, una volta giunti a casa, mi trattava come l’ultima pezza da piedi degli alcolisti anonimi. Come un vergognoso beone. «Puzzi di vino da un chilometro. Stasera dormi sul divano!»
Ci ho passato più tempo io su quel dannato divano che Andy Capp, mentre lei, di là, in camera da letto si imbottiva di Tavor e Prozac…
E perciò, già che mi sono levato di torno quella moralista a vanvera, brindo a me stesso tutte le sere, con metodo: mi rifaccio di tutte le bevute perse in questi anni. Mi ubriaco per festeggiare, ora che finalmente sono… free like a bird!
Sul lavoro ho preso un periodo di aspettativa. Me l’hanno dato senza problemi: «Capiamo. Capiamo benissimo.» mi fa la cariatide dell’ufficio-servizi. Così almeno la mattina mi riprendo con calma dalla sbornia della sera prima. Tanto mio figlio è da quella megera di mia suocera, che almeno a qualcosa torna utile…
Poi mi riscaldo un boccone col microonde, mi infilo sotto la doccia, mi vesto e nel primo pomeriggio, quando apre, vado al camposanto. Tutti i giorni. Cascasse il mondo. Ci porto pure un fiore, quando mi ricordo. A volte glielo compro al chioschetto davanti al cimitero, altre lo sgraffigno a qualche tomba che mi trovo tra i piedi lungo il tragitto.
Mi faccio ‘sta sgambata tutti i giorni che il Signore manda in terra, dalla cancellata principale sino all’ala nuova, dove è stata tumulata la Simona.
Mica ci vado per raccogliermi in preghiera, come possono credere le anime pie che mi osservano quotidianamente, tanto meno per sentirmela ancora vicina.
Il punto è che… non ci posso ancora credere… È per questo che vado tutti i giorni davanti alla sua tomba. Per assicurarmi che tutto sia vero, che non sia stato semplicemente un bel sogno. Per essere sicuro che da là dentro… non sia uscita!
ENDOXA - BIMESTRALE FILOSOFIA NARRATIVA Endoxa luglio 2018 etica FILOSOFIA NARRATIVA Pee Gee Daniel racconto
Grande PeeGe, devo ammettere che la magistrale sagacia espressa nel secondo racconto hai espresso il pensiero di una moltitudine di uomini di mia conoscenza (e non solo…).
Quindi, credo sinceramente che dovresti poterti fregiare di un premio alla salvaguardia dell”uomo medio…
Sei un vero Eroe moderno.
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Grazie Lupo, si potrebbe anche girare all’inverso, con la donna come vedeva, ma riesce inevitabilmente meno comico
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