DISOBBEDIRE
GIORDANO BRUNO GUERRI
Prima dell’Impresa di Fiume, e durante, Gabriele d’Annunzio pronunciò più volte il verbo “disobbedisco”, usandolo anche come titolo di articoli e proclami. È evidente la volontà di citare il celebre “Obbedisco” di Garibaldi, rovesciandolo. Eppure lo scopo dei due uomini, a distanza di oltre mezzo secolo, era identico: unire all’Italia, terre “irredente”. Ma se l’Eroe dei due mondi si onora di obbedire al generale La Marmora, dunque al governo e al re d’Italia, il Poeta soldato si onora di disobbedire alle stesse istituzioni che nel 1866 non avevano portato il Trentino all’Italia e che nel 1919 rischiano lo stesso fallimento con Fiume. Del resto, la situazione, e i due uomini, erano radicalmente diversi.
Al termine della Prima guerra mondiale si tentava di dare un senso al grande cataclisma ricostruendo un mondo dove i confini fossero condizionati dall’autodeterminazione dei popoli. Nelle regioni adriatiche dell’impero asburgico, italiani e slavi convivevano da secoli. Nel cuore di questa regione contesa tra Italia e Jugoslavia, nel golfo tra Istria e Dalmazia, sorge la città di Fiume.
Di antica cultura italiana, ma dall’anima multietnica, era stata una delle città più floride e dell’Impero. Il 29 ottobre 1918, a Fiume si costituirono due consigli nazionali, italiano e croato, che reclamavano l’annessione alle rispettive “patrie”. In attesa che la Conferenza di Versailles decidesse il suo destino, a Fiume fu inviato un corpo d’occupazione internazionale. Nei mesi che seguirono, salì alle stelle la tensione etnica tra gli irredentisti locali, spalleggiati dai militari italiani, e i croati protetti dai francesi.
In Italia dilagò una mobilitazione per la tutela dei diritti italiani nell’Adriatico. Il suo portavoce era d’Annunzio, poeta, scrittore, seduttore e protagonista della guerra italiana. In una serie di comizi tra Venezia e Roma, il Vate affermò che la classe politica era incapace di esprimere la “nuova Italia” dei combattenti e rivendicò i diritti italiani sull’Adriatico in una vera chiamata alle armi. A metà giugno, un nuovo governo fu affidato all’economista Francesco Saverio Nitti, determinato a smobilitare l’esercito e a risolvere la questione adriatica con un compromesso, e il Vate lanciò un grido rivoluzionario: “È necessario che la nuova fede popolare prevalga, con ogni mezzo, contro la casta politica”. Quell’uso della parola “casta” è suo, e antecedente.
A Fiume gli irredentisti italiani erano ai ferri corti con le truppe francesi di stanza nella città, apertamente filo jugoslave. La tensione portò alla nascita di una Legione di volontari fiumani, poi l’Associazione patriottica Trento-Trieste avviò un reclutamento di volontari per unirsi ai legionari fiumani e occupare la città con la forza. L’appoggio finanziario fu garantito dall’industriale triestino Oscar Sinigaglia e da Giuseppe Toeplitz, consigliere delegato della Banca Commerciale. Nessuno aveva dubbi: il solo capo possibile era Gabriele d’Annunzio.
L’opportunità di agire arrivò a fine agosto. Una brigata di granatieri, coinvolta in alcuni scontri con le truppe francesi di stanza a Fiume, era stata costretta a lasciare la città. I granatieri si acquartierarono a Ronchi, dove nel 1882 era stato arrestato Guglielmo Oberdan; lì, durante la guerra, era stato ricoverato e salvato dalla morte il bersagliere ferito Benito Mussolini. I granatieri erano determinati a tornare a Fiume, presero contatto con il Vate, e fu deciso che da quella cittadina sarebbe partita la marcia per l’annessione.
D’Annunzio raggiunse Ronchi l’11 settembre, con la febbre alta e l’uniforme da tenente colonnello dei Lancieri. Arrivò nella sua lussuosa Fiat Tipo4 rossa in compagnia di un piccolo seguito, tra cui Guido Keller, barone, aviatore, vagabondo, visionario. Fu lui a salvare l’Impresa sul nascere sottraendo all’esercito, con un colpo di mano, gli autocarri per il trasporto degli uomini. Sugli autocarri salirono circa duecento granatieri, e durante il viaggio la colonna crebbe di ora in ora.
Anche le truppe incaricate di fermare la spedizione si unirono agli insorti. Al posto di blocco che segnava l’ingresso in città, il governatore Vittorio Emanuele Pittaluga ordinò a d’Annunzio di fermarsi. Il poeta gli presentò il petto con la medaglia d’oro e il distintivo di mutilato, ribattendo: “Lei, generale, farebbe sparare sui miei soldati, che sono fratelli dei suoi. Ebbene, prima che sugli altri, faccia far fuoco su di me”. Una risposta che impedì al generale di proseguire la conversazione. Alle 11,45 del 12 settembre il poeta entrò a Fiume alla testa della sua legione, accolto in trionfo dalla popolazione italiana: quel giorno sarà poi celebrato come la “Santa Entrata”.
Il giorno stesso d’Annunzio fu nominato “Comandante” della città. L’avvocato Giovanni Giuriati, uno dei principali organizzatori della cospirazione, sarebbe stato suo capo di gabinetto. Il Comandante si insediò nel Palazzo del Governatore. La sua grande terrazza, affacciata sul centro cittadino e sul golfo, sarebbe diventata celebre: da lì, il poeta al comando avrebbe pronunciato i suoi discorsi ai seguaci, inventando un rituale in seguito copiato dal fascismo.
Il vero scopo di d’Annunzio diventò scatenare una rivoluzione per travolgere l’ordine mondiale deciso dalle grandi potenze riunite a Versailles. La notizia della ribellione fece il giro del mondo, attirando a Fiume una massa di sognatori, libertari e idealisti. Nelle settimane successive, anche altri reparti militari decisero di unirsi ai legionari dannunziani. Lo stato maggiore si arricchì di ufficiali e di prestigiosi esponenti dell’esercito, come l’eroe di guerra Luigi Rizzo.
Scartata sin dal principio ogni azione repressiva, Nitti aveva proclamato il blocco intorno alla città occupata, pur garantendone il rifornimento essenziale per il tramite della Croce Rossa. D’Annunzio dichiarò Nitti nemico pubblico della causa e lo ribattezzò “Cagoja”, nome di un popolano triestino famoso per la sua pavidità sotto il dominio asburgico. Il Vate, però, dovette abbandonare la speranza di una resa del governo Nitti, come dovrà abbandonare quella di contare sui Fasci di combattimento, fondati da appena sei mesi, come alleati per la rivoluzione. Il fascismo allora, ben diverso da quello che sarebbe diventato, era contro la monarchia, la Chiesa, il capitale. Mussolini, però, considerava Fiume solo un passaggio di un più ampio disegno politico di cui voleva essere unico protagonista. Al momento appoggiò l’Impresa con la propaganda e con una sottoscrizione tra i lettori del suo giornale, che fruttò quasi tre milioni di lire, di cui tenne grande parte, sia pure con il consenso di d’Annunzio.
La delusione del Vate è confermata dai rimproveri rivolti il 16 settembre a Mussolini, accusato di appoggiare solo a chiacchiere l’impresa. Ecco la lettera che “Il Popolo d’Italia” pubblicò, eliminando i passaggi più compromettenti, qui evidenziati in corsivo:
Mio caro Mussolini,
[mi stupisco di voi e del popolo italiano.]
Io ho rischiato tutto, ho fatto tutto, ho avuto tutto. Sono padrone
di Fiume, del territorio, d’una parte della linea d’armistizio, delle
navi; e dei soldati che non vogliono obbedire se non a me. Non
c’è nulla da fare contro di me. Nessuno può togliermi di qui. Ho
Fiume; tengo Fiume finché vivo, inoppugnabilmente.
[E voi tremate di paura! Voi vi lasciate mettere sul collo il piede porcino
del più abbietto truffatore che abbia mai illustrato la storia del canagliume
universale. Qualunque altro paese – anche la Lapponia – avrebbe
rovesciato quell’uomo, quegli uomini. E voi state lì a cianciare, mentre
noi] lottiamo d’attimo in attimo, con un’energia che fa di quest’impresa
la più bella dopo la dipartita dei Mille. [Dove sono i combattenti,
gli arditi, i volontari, i futuristi?]
Io ho tutti soldati qui, tutti soldati in uniforme, di tutte le armi.
È un’impresa di regolari. [E non ci aiutate neppure con sottoscrizioni
e collette.] Dobbiamo fare tutto da noi, con la nostra povertà. [Svegliatevi!
E vergognatevi anche.]
Se almeno mezza Italia somigliasse ai Fiumani, avremmo il
dominio del mondo. Ma Fiume non è se non una cima solitaria
dell’eroismo, dove sarà dolce morire ricevendo un ultimo sorso
della sua acqua.
[Non c’è proprio nulla da sperare? E le vostre promesse? Bucate almeno
la pancia che vi opprime, e sgonfiatela. Altrimenti verrò io quando
avrò consolidato qui il mio potere. Ma non vi guarderò in faccia.]
Su! Scotetevi, [pigri nell’eterna siesta.] Io non dormo da sei notti;
e la febbre mi divora.
Ma sto in piedi. E domandate come, a chi m’ha visto. Alalà.
Anche il saluto dannunziano eja eja alalà sarebbe stato copiato da Mussolini. Il Vate attese le elezioni politiche del 16 novembre 1919, sperando che la coalizione “nazionale”, cui parteciparono anche i Fasci di combattimento, mettesse in ginocchio Nitti. Intanto, per dimostrare che la sua impresa si sarebbe estesa, il 14 novembre guidò una piccola flotta a Zara, dove l’ammiraglio Enrico Millo, governatore della Dalmazia, gli promise che non avrebbe mai lasciato quella terra in mano agli stranieri. Ma il 16 novembre le elezioni premiarono socialisti e popolari, gli avversari della guerra, e furono un fallimentare esordio politico per il movimento fascista.
A fine novembre Nitti, confermato al governo, tentò di risolvere la ribellione con il negoziato e propose a d’Annunzio un modus vivendi: la proclamazione di Fiume a città libera, presidiata da truppe italiane, con la prospettiva di una futura possibile annessione all’Italia. La difficile trattativa proseguì fino al 15 dicembre, quando il Consiglio Nazionale di Fiume accettò l’accordo. Due giorni dopo, anche un referendum tra i cittadini approvò il modus vivendi. Ma il poeta e i suoi seguaci non erano affatto intenzionati a porre fine all’Impresa. I legionari sequestrarono le urne e cercarono di manomettere il voto, in una spirale di violenze che permise a d’Annunzio di dichiarare nullo il plebiscito. Alcuni collaboratori, tra cui Giuriati, non approvarono la sua intransigenza e lasciarono la città.
La partenza dei moderati diede l’occasione per una svolta. D’Annunzio chiamò come capo di gabinetto il sindacalista rivoluzionario Alceste De Ambris. Fiume doveva trasformarsi nel campo di prova di una rivoluzione radicale. La nuova ideologia, chiamata “Fiumanesimo”, sintetizzava le tradizionali categorie della destra e della sinistra in un nuovo contenitore ideale libertario, eroico e antiborghese. D’Annunzio annunciò l’inizio del nuovo corso con un proclama.
“Il legame di Fiume si riconosce oggi in tutte le ribellioni contro l’ingiustizia, in tutte le sollevazioni per la libertà, dall’Irlanda all’Egitto, dalle Russie al nuovo impero arabo, dal Belgio alle Indie, dai Balcani al Sudan, dalle colonie di Traiano alle tribù degli Afrivi. La nostra prossima primavera si annunzia come un vastissimo tumulto di lotta e di fervore, dove udremo battere i più lontani cuori fraterni. Ora comincia il bello.”
Nei mesi successivi d’Annunzio trasfigurò lo scopo dell’Impresa patriottica in una missione sociale e morale. Era una visione destinata a valicare le frontiere. Con lo scrittore belga Leon Kotchnitzky, il Comandante progettò di istituire una “Lega di Fiume” per la liberazione di tutte le nazioni oppresse dagli imperi coloniali. Si presero contatti, in Europa e oltre, con movimenti separatisti, indipendentisti, ribelli. Si tentò persino un contatto con il governo russo sovietico.
Intanto, con De Ambris, d’Annunzio stese la costituzione rivoluzionaria conosciuta come “Carta del Carnaro”. Uno statuto all’avanguardia, che prevedeva laicità dello Stato, parità tra i sessi, eleggibilità di ogni cittadino a partire dai venti anni, autonomia locale, tutela delle minoranze, istruzione primaria gratuita, assistenza sociale. Alcuni principi derivavano dal culto del Vate per la bellezza e per l’arte, e davano importanza alla creatività individuale e collettiva.
L’impresa più ardua per d’Annunzio, però, era governare il suo piccolo Stato. Nonostante il sostegno ricevuto da imprenditori e industriali, dalla massoneria e dalla Croce Rossa, Fiume era allo stremo. Ma un poeta può essere un amministratore fantasioso: pensò di risolvere il problema creando un manipolo di “filibustieri”, incaricati di dirottare piroscafi per chiedere il riscatto del carico. Costituì un “Ufficio Colpi di Mano” e ribattezzò i legionari che lo componevano “uscocchi”, come gli antichi pirati adriatici in lotta contro veneziani e turchi.
Gli uscocchi organizzavano anche imprese spettacolari per beffare le autorità. Il 18 aprile riuscirono a rubare quarantasei cavalli da tiro dell’esercito italiano. Un altro colpo di mano fu la cattura del generale Arturo Nigra, trattenuto a Fiume per quindici giorni. L’impresa più clamorosa fu compiuta ai primi di settembre, quando gli uscocchi si impossessarono del piroscafo “Cogne”, stipato di beni per un valore di circa duecento milioni. “Non avete predato se non per donare”, disse il Comandante ai legionari, “Io non ho mai predato se non per donare”.
A fine maggio 1920, cadde il governo Nitti, messo in minoranza alla Camera per una questione di politica interna. La caduta del nemico rinsaldò la fiducia di d’Annunzio e dei suoi collaboratori. Tra maggio e giugno, Fiume fu teatro di feste popolari e parate, con i ritmi di “un osceno baccanale”. Ma era solo tregua apparente. Al governo salì Giovanni Giolitti, nemico storico del poeta.
In un primo tempo d’Annunzio pensò di poter pianificare con lui una grande sollevazione di popoli balcanici allo scopo di disgregare la Jugoslavia, ma Giolitti aveva altri piani. Oltre a volere un accordo diretto con la Jugoslavia per porre fine alla questione adriatica, voleva addomesticare la politica combattentistica e trovò un valido alleato in Mussolini. Il capo del fascismo coprì la sua manovra politica invitando i suoi seguaci a adottare i simboli della rivoluzione dannunziana. Il saluto romano, il “me ne frego”, l’alalà, le canzoni (tra cui Giovinezza), i riti marziali dei legionari entrarono a fare parte dell’apparato paramilitare dei fascisti, riuniti in “squadre d’azione”.
Il 30 agosto 1920 d’Annunzio promulgò la Carta del Carnaro e trasformò la città in uno stato, chiamato Reggenza Italiana del Carnaro. A fine ottobre promulgò un nuovo ordinamento militare che rivoluzionava l’esercito legionario limitando le gerarchie. Tutto ciò non poteva piacere a Mussolini. In autunno, quando De Ambris lo incontrò per progettare la sollevazione dannunziana nel regno, il duce rifiutò di mettere a disposizione i Fasci. I tempi non erano maturi, disse. In verità aveva preso accordi con il governo.
Il 12 novembre 1920, Italia e Jugoslavia firmarono il Trattato di Rapallo, che risolveva la questione di Fiume dichiarandola uno “Stato Libero”. L’opinione pubblica salutò il trattato come un risultato positivo e così molti alleati di d’Annunzio. Tutti dovettero scontrarsi con la determinazione del poeta, che rispose con l’occupazione delle isole di Arbe e di Veglia e con una beffa affidata a Guido Keller, che sorvolò Roma e scagliò un pitale su Montecitorio.
D’Annunzio cercò inutilmente di ostacolare il trattato con atti e proclami, ma dopo la ratifica del parlamento il governo gli inviò diversi ultimatum. Il Comandante rifiutò ogni trattativa, sperava che i militari e i fascisti in Italia si mobilitassero, ma erano illusioni: Mussolini non aveva alcuna intenzione di compromettersi. Giolitti ordinò alle forze armate di porre fine alla ribellione.
Il 24 dicembre le truppe governative attaccarono. Di fronte all’accanita resistenza dei legionari, i comandi governativi decisero di bombardare i ribelli con la marina. Quando il palazzo del Comando fu colpito da due granate, un proiettile arrivò a sfiorare d’Annunzio, che rimase leggermente contuso.
Il 28 la Reggenza decise di cedere e il poeta si rivolse Agli Italiani in un messaggio sprezzante:
“Mentre m’ero preparato ieri al sacrificio e avevo già confortato la mia anima, oggi mi dispongo a difendere con tutte la armi la mia vita. L’ho offerta cento volte nella mia guerra, sorridendo. Ma non vale la pena di gettarla oggi in servigio di un popolo che non si cura di distogliere neppure per un attimo dalle gozzoviglie natalizie la sua ingordigia, mentre il suo Governo fa assassinare con fredda determinazione una gente di sublime virtù come quella che da sedici mesi patisce e lotta al nostro fianco e non è mai stanca di patire e lottare.”
Il 31 dicembre i rappresentanti della città e delle forze armate firmarono il patto che stabiliva la smobilitazione dei legionari, garantendo un’amnistia.
Nel “Natale di sangue” erano morte circa cinquanta persone tra legionari, regolari e civili, i feriti furono oltre duecento. Il 2 gennaio, d’Annunzio condusse i suoi uomini al cimitero di Fiume, davanti alle bare dei caduti degli opposti schieramenti. Dopo la messa, il Comandante esortò i legionari a custodire i valori della loro rivoluzione: “Giuriamoci per una lotta più vasta e per una pace di uomini liberi”.
Nei primi giorni del 1921 cominciò lo sfollamento. Il Comandante si trattenne fino al 18 gennaio. “Fiume resterà sempre nel mio cuore” disse ai cittadini prima di partire, concludendo quell’ultimo discorso al grido: “Viva l’amore”. Decise di ritirarsi sul lago di Garda, nella villa che avrebbe trasformato nel Vittoriale, ultima dimora e ultima opera, “libro di pietre vive” che ancora oggi racconta la sua vita inimitabile.
Nei cinquecento giorni di Fiume aveva trasfuso tutti i suoi ideali di bellezza e libertà senza freni, estendendo alla società il proprio progetto esistenziale: fare della vita un’opera d’arte. Mezzo secolo prima del ’68, aveva messo in atto “l’immaginazione al potere”. Mussolini – invece, durante il regime – riuscì a imporre l’idea che la rivoluzione fiumana fosse fascista, e questa convinzione errata è rimasta a lungo (e ancora oggi) nell’Italia democratica e antifascista. Fiume, annessa all’Italia nel 1924, verrà persa dallo stesso Mussolini con la sconfitta nella Seconda guerra mondiale. Oggi si chiama Rijeka e nel 2020 sarà capitale europea della cultura.
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