UNA PARTICOLARE MESCOLANZA
MASSIMO FILIPPI
Imbecilli, almeno mettetevi d’accordo prima di continuare a dire scemenze in un linguaggio che neanche voi stessi capite. Perché dovete appiccicare etichette su tutto?
José Emilio Pacheco, Le battaglie nel deserto
Idiosincrasia, letteralmente, è una “particolare mescolanza” che, in medicina, sta a indicare una ipersensibilità individuale extra-immunologica a determinate sostanze e, per estensione, nel senso comune, un’incompatibilità altrettanto personale verso qualcuno o qualcosa. In quest’ultima accezione, tutt* noi, che ci piaccia o meno, siamo preda di una qualche forma di idiosincrasia. Pertanto la questione non è affermare, per sostenere un tanto ridicolo quanto depoliticizzante “volemossebene”, che si è immuni alle idiosincrasie quanto piuttosto, in un lavoro di cura del sé e di soggettivazione resistente, esplicitare le proprie idiosincrasie per creare anticorpi collettivi verso una serie di situazioni che vanno dall’irritante all’abominevole. Ecco, allora, un assaggio, parziale, incompleto, idiosincratico, della mia particolare mescolanza.
Apocalittici. Coloro che non riescono a vedere altro che la fine del mondo se non come la nostra fine nel mondo o la fine del nostro mondo. Per gli apocalittici, mondo-senza-noi è sinonimo di fine del mondo-per-tutt*. In tal modo, si dimenticano (o rimuovono?, o forcludono?) quell* che vivono tra-le-due-morti (tra la morte simbolica e quella materiale, la condizione de* oppress* di tutte le specie) e quell* che hanno già esperito la fine del mondo ma che, malgrado tutto, sono riuscit* a sviluppare strategie di sopravvivenza/resistenza. Guardando solo a Occidente, gli apocalittici, con la loro totale incapacità di pensare la fine del mondo sociale in cui siamo immers*, parlano di fine del mondo per perpetuare quello esistente, per spegnere sul nascere ogni politica trasformativa. Loro parenti stretti sono, pertanto, gli integrati, altrimenti noti come benpensanti.
Benpensanti. Coloro che pensano male per imporre la propria idea di bene, un’idea che esclude sempre e comunque la bontà illogica (secondo Grossman, per bontà illogica si deve intendere: «la bontà di tutti i giorni […] senza testimoni, senza grandi teorie […] che si estende a tutto quanto è vivo, al topo o al ramo»). Le forze dell’ordine, insomma, i tutori della norma, i guardiani dello status quo e della restaurazione, , infatuati dal sogno di una sorveglianza continua, capillare, totale e – perfino oltre Bentham – reciproca.
Capitale. Insieme di strutture e sovrastrutture volte alla massimizzazione dello sfruttamento (di tutt*) e del profitto (per pochi), al cui mantenimento lavorano sia apocalittici che benpensanti. Un tempo si pensava che la sovrastruttura fosse il mero risultato delle strutture economiche. Oggi, dopo tante sconfitte, dovremmo cominciare a pensare a come trasformare l’economia e l’ideologia del capitale, visto che si alimentano a vicenda in un ininterrotto circolo ri/produttivo. Andrebbe poi ricordata la lezione di Marx: sì, il capitale funziona grazie all’estrazione di plusvalore dal lavoro salariato, ma anche e soprattutto grazie all’accumulazione originaria – talmente originaria da essere sempre in funzione –, all’appropriazione del lavoro non pagato di quant* ha marchiato come “donne”, “animali”, “natura”. In breve, apocalittici e integrati sono ovunque, anche laddove meno te lo aspetti.
Dialettica. Una particolare forma di discorso molto amata da chi intende mantenere lo stato di cose esistente. La dialettica produce il negativo per partenogenesi per poi digerirlo nella sintesi. La dialettica annienta la potenza del negativo, il suo potere di resistenza: I would prefer not to.
Esperti. Gli esperti sono reclutati tra gli apocalittici e gli integrati dotati di capacità dialettiche ottimali. Costoro, infatti, devono innanzitutto mascherare il fatto che si siano autoproclamati esperti – lo vediamo bene in questo momento in cui pletore di esperti, siano essi scienziati o filosofi, non smettono un secondo di parlare di un evento assolutamente inedito e di fronte al quale faremmo bene a denunciare tutta la nostra ignoranza. Gli esperti, poi, con la loro tumescenza («la situazione è apocalittica, quindi ci pensiamo noi») o la loro detumescenza («è tutto come sempre, quindi ci pensiamo noi»), hanno la funzione di chiudere tra quattro mura la politica trasformativa e l’impegno collettivo.
Fallo. Significante-padrone, punto di capitone, gran regolatore dell’ordine simbolico, è ciò che, come barra disgiuntiva delle dicotomie che governano la nostra società, viene fatto penetrare nella carne-del-mondo per classificarla secondo la scala naturae, per produrre l’ideologia che, con le nozioni di razza, sesso/genere e specie, naturalizza e normalizza privilegi e oppressioni, in tal modo alimentando il capitale, la sua dialettica e i suoi funzionari.
Giardino dell’Eden. Sorta di esclusivo resort all inclusive che, dall’inizio dei tempi, non cessa di produrre e distribuire Natura a buon mercato per rendere docili i corpi, per fissarli in posture fisse e in comportamenti stereotipati. Il giardino dell’Eden è una vera e propria eterotopia, se l’eterotopia, come insegna Foucault, «ha il potere di giustapporre, in un unico luogo […], numerosi spazi tra loro incompatibili» e se eterotopia é, letteralmente, il luogo dell’altro, il posto a cui le/gli altr* sono assegnat* e che, pertanto, devono occupare nella grande catena dell’essere. Ovviamente, poiché esiste da ben prima che il capitale nascesse, il villaggio vacanze Il giardino dell’Eden è la dimostrazione più lampante della capacità degli ideologi dei circoli ri/creativi M-D-M e D-M-D di appropriarsi di qualunque cosa possa (as)servire al profitto.
Habermassiani. Quelli che pensano che possano esistere relazioni comunicative (sempre buone) in assenza di relazioni di potere (sempre cattive). Ancora Foucault: «Mi sembra che l’idea che possa esistere uno stato di comunicazione tale che i giochi di verità possano circolare senza ostacoli […] appartenga all’ordine dell’utopia». E le utopie, si sa, sono spesso letali.
Imbecilli. Vedi epigrafe.
Luce. È la figura retorica più abusata dai discorsi a favore dello status quo, dal sol dell’avvenir alla luce in fondo al tunnel. Figura usata per indicare progresso, redenzione, magnifiche sorti e progressive, per rinviare a un futuro non meglio precisato quanto dovrebbe essere fatto qui e ora. È necessario un oscuro lavoro politico per riappropriarsi della luce: la luce, a volte onda e a volte particella, destabilizza materialmente ogni pretesa di identità; la luce fa vedere ma è invisibile; la luce, se guardata negli “occhi”, acceca. La luce, quindi, è piena di tenebre, è Lichtung. Ciò che va portato alla luce è il lavoro produttivo del negativo.
Massacri. La retorica dominante della luce serve a invisibilizzare l’ininterrotto susseguirsi di massacri dell’Uomo a danno de* viventi mortali, indipendentemente dalla specie di appartenenza: «Dove ci appare una catena di eventi, [c’è] una sola catastrofe, che accumula senza tregua rovine su rovine […]. Ciò che chiamiamo progresso è questa tempesta», disse Benjamin. Sotto il sottile strato patinato della democrazia, dei diritti, di una comunicazione senza vincoli, si estende, sconfinato, un inimmaginabile inferno sulla terra. Le animali ne sanno qualcosa: ascoltate le grida di sudore e sangue che si alzano dalle cantine dei grattacieli eretti contro il cielo.
Natura. La più brillante invenzione del capitale. Qualcosa di assolutamente là fuori utile, a seconda delle circostanze materiali, come riserva di risorse da prelevare e/o come immensa discarica da riempire. E, a seconda delle circostanze simboliche, paradigma indiscutibile da cui estrarre la retta forma-di-vita o esemplare marchio di arretratezza da superare/eliminare. Ricordatevi: quando gli amici del capitale vi parlano di Natura, vuol dire che la merce siete voi.
Opera. Ciò che chiude la comunità, in una stretta fusionale mortifera, dentro i confini dell’archè e del telos. Contro quest’opera necro/bio/politica, bisogna pensare a come rendere le nostre comunità inconfessabili e inoperose, oltre l’origine e il compimento. Bisogna comprendere come abitare i confini, come renderli soglie, passaggi, vie di fuga. Come sottrarre la vulnerabilità e la finitudine de* viventi, la loro esposizione carnale, alla morsa dei segni e delle macchine dell’imposizione e del dominio.
Palingenesi. È il rivolgimento totale e immediato di un individuo, di una società o dell’intero cosmo. Generalmente effettuato, come per magia, da un qualche dio o da una qualche avanguardia intellettuale. Come è il caso della retorica della luce, anche quella della palingenesi rimanda sempre a un futuro indefinito, se non addirittura all’altro mondo. La palingenesi, poi, prevede l’esistenza di una Natura immodificabile e assolutamente buona schiacciata da una Cultura altrettanto immodificabile ma assolutamente cattiva, una Natura che va riportata alla luce dall’opera di liberazione. Al grande evento che cade dal Cielo o che si svilupperà automaticamente dalle viscere della Storia – e che, in un caso come nell’altro, annienta le micro-pratiche quotidiane di piacere e disobbedienza – si oppongono le tecniche di riparazione del sé, della società e del cosmo. «Ricrescita di una struttura e […] recupero di una funzione», dentro il trouble di un mondo in disfacimento, scrive Haraway. E prosegue ricordandoci che cosa fanno le salamandre quando rispondono (rispondono, non reagiscono!) alla mutilazione di un arto con la produzione di eterotopografie corporee: «L’arto ricresciuto può essere mostruoso, doppio, potente». Meglio salamandre che Messia.
Quasi. «Il “normale”», sostiene Butler, è «un ideale che nessuno/a può incarnare». Si è sempre quasi normali, quasi umani. Manca sempre un non so che, un quasi nulla che produce carne addomesticabile o smembrabile. Il quasi costituisce l’infinita riserva del plusvalore e dell’accumulazione originaria.
Robinson. Colui che gira in tondo sull’isola di cui si crede sovrano, cancellando le sue tracce, per paura di essere sepolto vivo o mangiato dall’altro, cannibale o bestia che sia – cannibali e bestie che, invece, è lui che non cessa mai di introiettare e di sfruttare impunemente. Secondo Derrida, colui che opera come una ruota («la ruota gira da sola»), come una macchina («la macchina è ciò che funziona da sola girando su se stessa»). Come una macchina antropologica, che gira in circolo arrestando la circolazione e ri/producendo il mondo attorno all’indetumescibile significante-padrone. Da Marx a Derrida, le robinsonate sono passate da un’economia ristretta a un’economia generale.
Sé. Il Sé è questo movimento continuo e circolare che esce da sé per tornare a Sé. C’è un momento di follia perfino nel cogito cartesiano, c’è un momento di esistenza perfino nel Sé hegeliano. Ma follia ed esistenza sono presto riassorbite nel Sé che include/esclude le/gli altr* da Sé. Il Sé – Hegel lo ha detto chiaramente – è gemello monozigote dello Stato. Sì, oggi più che mai, è necessario passare dalle robinsonate del Sé all’impersonale e transpersonale si. Si arrossisce, si verdeggia, si ama, si muore.
Totalitarismi. Non esiste il totalitarismo, esistono i totalitarismi, infiniti modi di fossilizzare il dinamismo dei rapporti di potere in dominio istituzionalizzato, in cancellazione della resistenza: ciò che è stato, è e sarà per sempre – i totalitarismi più cupi sono quelli che investono direttamente i corpi (delle/degli) animali. Vista l’estrema versatilità fenomenica dei totalitarismi, non bisogna mai abbassare la guardia, anche quando sono percorsi da innegabili tratti comici, anche quando le figure del comico e del politico entrano in uno stato di incandescente sovrapposizione.
Uomo. Il prodotto tagliente di infinite sezioni e cesure, introiezioni ed esclusioni, proprietà e privazioni, erezioni e smembramenti. Ciò che è legittimato dalla macchina antropologica e che si legittima con la Natura. Colui che è cantato da apocalittici e integrati, acclamato dai benpensanti, il capo di Stato, il Non-Più-Animale. Colui che è Fallo, Luce, Volto.
Volto. Insieme a quella della luce e della palingenesi, la retorica del volto contribuisce all’opera di occultamento mascherato eretto a sistema. Il volto apre – chi ha volto (la vedova, l’orfano, lo straniero) mi chiama alla responsabilità – nel momento stesso in cui chiude con inusitata violenza – chi non ha volto (l’informe, l’invertebrato, il non/vivente,) non è respons/abile? Il volto include poch* con lo stesso gesto con cui esclude moltitudini sterminate. Al volto vanno sostituiti gli orifizi, le infinite beanze che attraversano – bucano, perforano – il reale, la materia, i corpi. Che producono esistenza, che delirano i continenti, che mostrano le/gli altr* dentro e fuori, davanti e dietro il Sé. Che lo circondano, che lo fanno circolare nel comune, che lo restituiscono alla grammatologia della traccia. In fondo, non riconosciamo Gregor Samsa dal volto, ma dalla cicatrice che porta sulla schiena.
Zecca. Quella di Stato, ovviamente, quella che stampa denaro. Nessuna idiosincrasia per le zecche – anzi! – quelle animali filosofiche di superficie che attendono anche per 18 anni e, poi – la parola a Deleuze – «tre affetti […], un mondo tripolare, e questo è tutto!». «Che potenza!». «Una vita sconosciuta, forte, oscura, ostinata». Senza volto, senza altezza, senza profondità. Senza passioni tristi.
Come detto, questa lista di idiosincrasie è incompleta, piena di vuoti, di linee di faglia, di lacune. Ma questo vale per tutti i dizionari e tutte le enciclopedie: dietro la loro pretesa “pienezza” universale si nascondono, infatti, idiosincrasie non esplicitate. Con le parole di Wittig e Zeig, «l’assemblaggio delle parole, ciò che ha dettato la loro scelta […], tutto è costitutivo di queste lacune ed è pertanto operativo per quanto riguarda il reale».
L’organizzazione di questa lista secondo lemmi disposti alfabeticamente è pensata per facilitare un’elaborazione collettiva di un dizionario che, pur nella sua necessaria interminabilità, «squadri da ogni lato» «ciò che non siamo, ciò che non vogliamo». L’idiosincratico, insomma, proprio perché personale, è politico.
Endoxa FILOSOFIA LETTERATURA endoxa maggio 2020 idiosincrasie Massimo Filippi