DAL COSTRUIRE ALL’ABITARE: LA NECESSARIA METAMORFOSI DEGLI ARTEFATTI

48719726892_b3b0e0e6cf_bFABIO CIARAMELLI

Il numero delle persone che per le più diverse ragioni ai nostri giorni vivono nelle città è in costante aumento, tanto nei paesi a forte incremento demografico quanto nei rimanenti (a causa delle migrazioni internazionali). Oltre che per questo dato quantitativo, il modello-città è – perlomeno dai tempi della Bibbia e della filosofia greca – il simbolo privilegiato della convivenza umana. In questo senso, l’antica opposizione città/campagna risulta basata sulla distinzione tra una forma di vita “naturale” ed una forma di vita “artificiale”. Insomma, è evidente che la città costituisce senza alcun dubbio il frutto d’una “costruzione” umana. Anzi, in quanto costruzione d’uno spazio simbolico ed effettivo in cui si stabiliscono relazioni reciproche tra gli esseri umani, si potrebbe addirittura vedere in essa il modello privilegiato degli artefatti umani.

Non è detto, però, che la costruzione d’un ambiente artificiale risulti effettivamente abitabile per le persone che vi accederanno. Ed è esattamente a questa transizione dal costruire all’abitare che invita a riflettere il bel libro del sociologo nordamericano Richard Sennet su Costruire e abitare (sottotitolo: Etica per la città, Feltrinelli 2018).

Si sbaglierebbe, tuttavia, a semplificare il discorso vedendo nella vita urbana una forma di vita caratterizzata semplicemente dallo sviluppo d’un sistema di funzioni nuove, di cui la popolazione e la vita rurale non aveva bisogno e che per questa ragione risultano “artificiali”, cioè istituite dalla convivenza d’un certo numero di individui in uno spazio limitato. In realtà, le funzioni nuove che la vita urbana realizza sono operazioni che hanno la caratteristica specifica di mettere in relazione tra loro degli esseri umani. Ed è esattamente questa dimensione relazionale che dischiude lo spazio urbano come convivenza dei diversi.

Sempre più chiaramente le città odierne si stanno chiudendo alla diversità e si prefiggono di isolare e proteggere i cittadini che vedono nella relazione con l’esterno soltanto minacce e pericoli. Perciò, oggi, nell’epoca della globalizzazione neoliberale, le città tendono a concepirsi come spazi materialmente e simbolicamente riservati a determinate categorie di persone “sicure”. In questo caso, la logica dell’esclusione, basata sulla difesa di privilegi non solo economici, tende a eliminare l’interdipendenza, cioè la dimensione relazionale della realtà sociale e urbana, consistente inevitabilmente nel legare momenti diversi attraverso operazioni comuni.

Sennonché – ed ecco il punto decisivo – le città concepite come sistemi chiusi, basati su confini invalicabili, per quanto si sforzino e si impegnino, non possono eliminare né le relazioni, né l’interdipendenza tra gli individui. L’unica cosa che possono eliminare è la solidarietà. Infatti, relazioni e interdipendenza sono una caratteristica strutturale dell’umano, e quindi risultano ineliminabili, mentre la solidarietà è una (assai fragile) conquista storica, che s’è rivelata non difficile da emarginare, come ben si vede osservando la società attuale dominata dalla gig economy. Eliminando la solidarietà ma non l’interdipendenza e la dimensione relazionale della vita urbana, le città globali devono costruire un ambiente urbano basato sull’esclusione. Il che significa un ambiente che risulti inabitabile e inaccessibile agli esclusi: a coloro che per ragioni economiche, sociali o identitarie sono letteralmente espulsi dallo spazio della convivenza.

Le funzioni proprie della vita urbana, cioè le operazioni che mettono in connessione i diversi, non sono dunque univoche. Infatti, esse possono realizzare lo  spazio urbano come un  posto nel mondo capace di riconoscere la pluralità dei cittadini, il peso delle loro opinioni e l’importanza delle loro azioni, ma possono anche configurarlo all’opposto come il luogo dell’esclusione sociale, caratterizzata dal disconoscimento della diversità delle opinioni e dall’affossamento delle azioni dei cittadini. In questo caso, lo spazio urbano cessa di essere, rigorosamente, uno spazio pubblico, aperto al contributo di tutti, caratterizzato cioè dall’assenza d’una rigorosa preselezione di coloro che hanno diritto a farne parte impegnandosi in quelle attività di “esprimere, discutere, decidere” che, come diceva Hannah Arendt, sono, in senso positivo, le attività della libertà.

Possiamo concluderne che l’ambiente costruito è una cosa, la sua abitabilità – cioè il modo in cui gli esseri umani vivono in esso – è una cosa completamente diversa. Affinché possano aversi città capaci di mantenersi effettivamente aperte, cioè città capaci di diventare un luogo di democrazia vissuta, bisogna tematizzare e soprattutto praticare la metamorfosi dal costruire all’abitare. E, se è vero che la città è il modello privilegiato degli artefatti umani, quanto si dice per la città vale per tutte le istituzioni umane. Non si tratta soltanto di crearle, ma bisogna passare dall’attenzione rivolta alla loro progettazione e costruzione alla preoccupazione per la loro manutenzione, la sola che possa renderle effettivamente abitabili.

Immagine

“Sunset on a Metropolis” by Michael Whyte is licensed under CC BY-NC 2.0

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