ASTROSOCIOLOGIA

5b85b2fd959f341c008b563eRICCARDO CAMPA

I sociologi hanno iniziato a studiare le attività umane nel cosmo sin dall’inizio dell’era spaziale. Nel 1957, l’anno della missione Sputnik e un anno prima della fondazione della NASA, il Journal of Jet Propulsion menziona due gruppi di discussione dedicati alla “sociologia spaziale” (space sociology) nell’ambito di una conferenza dell’American Rocket Society. Il fattore umano dell’esplorazione spaziale è discusso insieme alle soluzioni ingegneristiche della propulsione dei vettori spaziali. Seguendo l’orientamento del tempo, il termine “sociologia” è utilizzato in un senso molto ampio che include le questioni legali, fisiologiche, psicologiche e sociali del volo spaziale.

Come spesso accade quando si cerca di fondare un nuovo campo di studi, parallelamente alle ricerche sostanziali, si sviluppa un dibattito sul nome appropriato da dare alla nuova disciplina o subdisciplina. Oltre a “sociologia spaziale”, sono comparsi altri candidati. “Sociologia dello spazio” è uno di questi, ma potrebbe risultare fuorviante perché la stessa espressione è utilizzata da alcuni sociologi per studiare il rapporto che gli esseri umani hanno con lo spazio inteso come dimensione del reale e, dunque, anche in relazione alle attività terrestri e alla vita quotidiana (lo spazio delle abitazioni private, lo spazio pubblico, ecc.). Aggiungere un aggettivo è parsa la soluzione più logica. Nell’anglosfera è, quindi, comparsa l’espressione “sociology of outer space” (che in italiano può essere resa con “sociologia dello spazio cosmico”, più che dello “spazio esterno”).

Si sa, però, che il mondo contemporaneo predilige la sintesi, la velocità, la brevità. Sicché, si è andati subito alla ricerca di un’espressione più incisiva. Il termine “astrosociologia” (astrosociology) ha incontrato un consenso piuttosto ampio e forse finirà per prevalere. Il termine era già stato utilizzato nel 1964 e nel 1976 da H. E. Ross in un paio di articoli apparsi su Spaceflight. Nel 1998, A. Tough ha proposto di utilizzare proprio questo termine per denominare il campo di studi. Tuttavia, il principale merito per il consolidamento della subdisciplina sotto questa etichetta va attribuito al sociologo americano Jim Pass. Sebbene non sia l’inventore né del nome né della cosa, a partire dal 2006, Pass ha infatti pubblicato numerosi articoli su importanti riviste, rendendo popolare l’astrosociologia e argomentando a favore dell’importanza di questa specialità per rendere più sicure le missioni spaziali.

La letteratura sociologica prodotta negli ultimi sessant’anni, sotto qualsiasi denominazione, si è principalmente occupata di due attività umane nel cosmo: l’esplorazione spaziale e la colonizzazione spaziale. Tra i studiosi che hanno prodotto ricerche interessanti, oltre a Pass, possiamo menzionare W. S. Bainbridge, B. J. Bluth, C. A. Lundquist, M. Ashkenazi e A. Rudoff. Come si può facilmente indovinare, i contributi alla sociologia dell’esplorazione spaziale superano di gran lunga quelli dedicati allo studio della colonizzazione spaziale. Mentre i primi sono di natura tanto teorica quanto empirica, i secondi sono squisitamente teorici e speculativi, non esistendo ancora colonie spaziali degne di questo nome, a meno che non si vogliano includere nella categoria la stazione orbitante russa Mir e la Stazione Spaziale Internazionale.  Il tema della colonizzazione, dopo essere uscito dai radar per qualche tempo, è tornato d’attualità dopo l’annuncio della NASA, di Roscosmos e dell’agenzia spaziale cinese di voler costruire stazioni spaziali permanenti sulla Luna nei prossimi anni.

A questo punto, una domanda sorge spontanea: perché mai sarebbe necessaria una subdisciplina per studiare le attività umane nel cosmo? Non bastano gli strumenti teorici della sociologia generale?

Tali strumenti possono e devono senz’altro essere utilizzati, ma la loro insufficienza è parsa subito evidente. Già tre decenni orsono, Michael Ashkenazi lamentava che “le discussioni sulla colonizzazione spaziale affrontano questioni sociologiche, in parte se non del tutto, come se la vita nello spazio fosse semplicemente una continuazione della vita sulla Terra”, e aggiunge che “questo è altamente improbabile, date le condizioni di vita al di fuori della Terra”. Si tratta di una trappola in cui non pochi analisti continuano a cadere.

Per esempio, nei dipartimenti di sociologia la questione dell’ordine sociale pare passata di moda e si discutono mille altri problemi, partendo dal postulato che la possibilità di stabilire liberamente la propria identità individuale (di genere, orientamento sessuale, classe, nazionalità, etnia, ecc.), sia di gran lunga più importante dell’ordine sociale. Non dovremmo però dimenticare che, a differenza di quanto accade sulla Terra, in un insediamento spaziale, l’ordine sociale è una questione di vita o di morte. A causa delle conseguenze amplificate dei fattori di stress psicologici e psicosociali, la governance non è meno importante della progettazione di efficaci sistemi ingegneristici. Lo stress è strettamente correlato al conflitto interpersonale, essendo sia una causa che un risultato di quest’ultimo. In altre parole, un circolo vizioso in cui lo stress genera conflitto e quest’ultimo genera più stress è un meccanismo deleterio spesso osservato in gruppi umani chiusi come famiglie o aziende. Questo meccanismo preoccupa ancora di più nello spazio per due ragioni.

La prima è che un conflitto sociale in una colonia spaziale potrebbe non solo essere dannoso per la vita di alcuni individui, come talvolta accade sulla Terra, ma potrebbe essere mortale per l’intero insediamento. Nel 1977, un team di scienziati, tra i quali il sociologo Gordon Sutton, ha mostrato che le piccole dimensioni dell’insediamento, combinate con un ambiente artificiale piuttosto precario, possono costituire una preoccupazione per la sicurezza interna. In particolare, R. Johnson e C. Holbrow hanno sottolineato che, in un insediamento spaziale, come una base orbitale o lunare, “qualsiasi individuo o piccolo gruppo potrebbe, in prospettiva, impegnarsi a distruggere l’intera colonia aprendo l’habitat allo spazio circostante, interrompendo l’alimentazione elettrica, o con altre azioni che hanno poche forme corrispondenti in ambienti basati sulla Terra”. Come ha affermato ancora Ashkenazi, “le colonie spaziali non possono permettersi di avere rivoluzionari violenti, siano essi bakunisti o meno”. Se un gruppo terroristico può costituire un serio pericolo per l’ordine pubblico e la sicurezza già sulla Terra, va considerato che in una colonia spaziale metterebbe potenzialmente in pericolo “ogni essere vivente e l’esistenza del bioma nel suo insieme”.

Il secondo motivo per cui la questione dell’ordine sociale richiede particolare attenzione è che l’ambiente spaziale può fornire non solo fattori di stress fisici e biologici sconosciuti sulla Terra, ma anche ulteriori fonti di stress psicologico e sociologico. Inoltre, i due tipi di stress sono strettamente correlati. All’inizio dell’era spaziale, R. D. Dunlap aveva notato che “la presenza di fattori di stress ambientali, come assenza di gravità, radiazioni ionizzanti e contaminanti atmosferici, può abbassare la soglia di tolleranza ai fattori di stress psicologici e sociologici”. Perciò, negli anni sessanta, grande fu l’attenzione prestata a fattori come la deprivazione sensoriale, l’isolamento, il confinamento, nonché alle dinamiche sociali caratteristiche dei piccoli gruppi. Traendo conoscenze dalla ricerca su crociere sottomarine, spedizioni polari, resoconti di prigionieri di guerra e sopravvissuti a disastri, studi di laboratorio sulla deprivazione sensoriale e sull’isolamento sociale, esperienze di pilotaggio e studi di simulatori di cabine spaziali, Dunlap aveva concluso che il confinamento può generare ansia, affaticamento, irritabilità e ostilità in un individuo.

Da allora, molte ricerche sono state compiute su vere missioni spaziali per rilevare i problemi psicologici e sociologici affrontati da astronauti e cosmonauti che vivono a lungo nello spazio. Già nel 1971, N. A. Kanas e W. E. Fedderson avevano osservato che “nell’isolamento, il conflitto interpersonale diventa esagerato e ci sono meno possibilità di uscire per sfogarsi o sfuggire alle difficoltà di adattamento”. Più recentemente, un team russo guidato da V. I. Gushin ha analizzato il processo di comunicazione tra gli equipaggi spaziali e il personale di monitoraggio esterno in mission control. Due equipaggi isolati sono stati studiati per un periodo di 135 e 90 giorni. Si è osservata nel tempo la presenza di fenomeni come la chiusura psicologica e il filtraggio delle informazioni negli equipaggi. Un mese dopo l’inizio della missione, l’intensità totale della comunicazione è diminuita. In altre parole, siamo in presenza di una tendenza dei membri dell’equipaggio a diventare più “egocentrici”, che è stata chiamata “autonomizzazione”. L’onere della comunicazione veniva sempre più lasciato sulle spalle del comandante. Questi risultati hanno implicazioni non solo in relazione alla salute psicologica degli astronauti, ma anche a questioni sociologiche come la governance e l’ordine sociale. In altre parole, il comportamento egoistico – che sulla Terra produce risultati ambivalenti – nelle condizioni ambientali dello Spazio è semplicemente controproducente.

Come sottolinea un rapporto dell’Ufficio dell’ispettore generale della NASA del 2015, durante una missione, la coesione dell’equipaggio può essere compromessa. La perdita di sonno a lungo termine può portare a ipertensione, diabete, obesità, infarto, ictus. Inoltre, i membri dell’equipaggio potrebbero incorrere in disturbi psichiatrici come la depressione o l’ansia. Questi problemi psicologici possono avere implicazioni sull’ordine sociale.

Anche se questi studi si concentrano principalmente su missioni spaziali a lungo termine, piuttosto che su insediamenti spaziali permanenti, la loro utilità per la sociologia della colonizzazione spaziale è evidente. Si può prevedere che problemi di questo tipo possano emergere anche sulla Luna, almeno fino a quando non avverrà la terraformazione del satellite. Una pianificazione efficace del luogo di vita, capace di ridurre al minimo il disagio fisiologico, la noia, la claustrofobia, la frustrazione, i problemi psicologici, i conflitti disfunzionali e il disordine sociale richiede l’inclusione di una varietà di professionisti nella progettazione della Base Lunare e nell’indagine dei fattori umani, in un cornice ampia. Lo psicologo spaziale Jesper Jorgensen lo afferma chiaramente: “Abbiamo bisogno di storici, sociologi, psicologi, artisti, medici, ingegneri, specialisti di tecnologia dell’informazione e altri ancora che possono esprimere opinioni sulla procedura di progettazione della missione”.

In particolare, la sociologia può essere utile per studiare e valutare questioni come l’anomia e la devianza dal punto di vista delle dinamiche di gruppo e delle teorie del comportamento collettivo.

ENDOXA - BIMESTRALE SOCIOLOGIA

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