PENSARE PER CONTO PROPRIO

world-philosophy-day-16371745903x2EDOARDO GREBLO

In Una brevissima introduzione alla filosofia, Thomas Nagel osserva che chiunque, quando esce dall’infanzia, comincia a pensare per conto proprio ai problemi filosofici – se possiamo conoscere qualcosa, se la vita ha un qualche significato, se la morte è la fine di tutto, se qualcosa è davvero giusto o sbagliato. Si tratta di problemi che risvegliano l’interesse anche di chi non possiede gli attrezzi del mestiere perché il materiale filosofico sul quale investire il proprio impegno riflessivo viene fornito direttamente dall’esperienza personale del mondo. E infatti, non è casuale, a testimoniare la forma personalistica in cui s’incarna il pensiero filosofico, che le sue varie costellazioni espressive tendano generalmente a essere individuate con nomi di persone. Naturalmente, non tutti impegnano tempo ed energia per riflettere sui problemi filosofici in modo sistematico, e anzi molti rinunciano a farlo. In realtà, questa rinuncia non è praticabile. Tutti infatti esprimono osservazioni, valutazioni e giudizi che, per quanto possano essere formulati in modo vago e approssimativo, costituiscono la risorsa indispensabile per orientare scelte e opinioni. Rinunciare alla filosofia – intesa come riflessione sull’attrito provocato dal nostro contatto con il terreno scabro del mondo, avrebbe detto Wittgenstein – equivale perciò ad astenersi da ogni possibile osservazione, valutazione e giudizio e rinunciare ad acquisire una visione critica e personale di se stessi e della realtà. Cosa, evidentemente, impossibile, a meno di non adagiarsi a vivere una vita istintuale e irriflessa. Son considerazioni di questo genere che hanno portato diversi autori a sostenere che la filosofia è un’attività, un esercizio di pensiero che può essere condotto solo in prima persona, “con un certo margine di rischio”, come è stato autorevolmente sostenuto.

Quale rischio? Principalmente, a giudizio di chi scrive, del dilettantismo. Molto spesso, chi comincia a pensare ai problemi filosofici per conto proprio tende a ignorare un’ovvietà – e cioè che per ogni problema preso in esame esiste tutta una letteratura che non riguarda soltanto la formulazione dei problemi ma anche, in certi casi, le loro soluzioni. Occuparsi di un problema filosofico ignorando la letteratura specialistica di riferimento significa molto spesso scoprire l’acqua calda e cadere prima o poi in una qualche forma di frustrazione, inevitabile quando il dilettante convinto di aver avuto la pensata geniale scopre che l’idea luminosa brillatagli nella mente era già stata pensata, probabilmente meglio, da qualcun altro, e confutata da qualcun altro ancora. Certo, ci sono anche le eccezioni. Wittgenstein, che aveva studiato ingegneria, era riuscito a ottenere il brevetto di un motore per aereo e si vantava di leggere solo libri gialli, è l’esempio più noto di un autore capace di fornire un contributo filosofico straordinario nonostante il sostanziale isolamento – almeno fino al Tractatus. Isolamento, peraltro, fino a un certo punto: conosceva benissimo le opere di Frege e di Russell. Ma come una rondine non fa primavera – un proverbio peraltro già noto ad Aristotele, così Wittgenstein. E se qualcuno ritiene che, in un modo o nell’altro, la filosofia sia solo ed esclusivamente l’esercizio di una riflessione personale circa il proprio rapporto col mondo, quella che un tempo si chiamava Weltanschauung, sarà inutile invitarlo a citare la letteratura scientifica di riferimento.

Perché se è vero che chiunque può cucinare, come diceva il famoso chef francese Auguste Gusteau in Ratatouille, un film d’animazione del 2007, ma è meglio andare a scuola di cucina se si vogliono evitare errori grossolani, così chiunque può filosofare, ma è meglio conoscere quanto è stato scritto sull’argomento che interessa se si vuole evitare di prestare il fianco a possibili obiezioni già rilevate in passato, a contraddizioni già individuate da altri o, semplicemente, di accendere fuochi di paglia. È vero che in filosofia alcune domande, le stesse che si pone chiunque quando comincia a diventare adulto, sembrano ricorrere nel tempo e riguardano, stando almeno all’autorevolissima sintesi kantiana, che cosa possiamo sapere, che cosa dobbiamo fare e che cosa possiamo sperare. Ma rimanere all’oscuro delle risposte che ne sono state date equivale quasi certamente a cucinare male, tanto è vero che Remy, il piccolo topo con la passione della cucina e col sogno di diventare uno chef protagonista di Ratatouille, studia, legge e si informa. Oppure, per fare un esempio più “serio”, equivale a comportarsi come un magistrato che, in un modello di ordinamento giuridico di common law, emetta sentenze senza tenere conto dei precedenti giurisprudenziali attinenti al caso in esame. Il filosofo dilettante o inesperto è come un giudice che si lasci volutamente alle spalle gli insegnamenti ricavabili dalle sentenze di chi lo ha preceduto e che rischia perciò di ritrovarsi in conflitto con se stesso o con la norma. Esiste certo la possibilità che, in virtù della propria intelligenza, sia capace di pronunciare sentenze coerenti con il sapere giudiziario oppure talmente innovative da costituire esse stesse un precedente per giudici futuri. Può capitare, e in filosofia l’esempio più noto è rappresentato dal caso, già citato, di Wittgenstein.

Ma i geni, com’è noto, non spuntano come funghi dopo la pioggia. Sono notoriamente rari. Ed è per questo, se è vero che tutti gli esseri umani fanno filosofia, anche al bar o allo stadio quando esprimono commenti, opinioni e giudizi generali, è meglio che lo facciano avendo acquisito una certa familiarità con i testi filosofici in modo da assimilare sensibilità storica, senso critico, precisione concettuale e linguistica. L’acquisizione e lo sviluppo di queste capacità è fondamentale non solo per le domeniche del pensiero o per chi fa della filosofia una professione a tempo pieno, ma anche per rendere più consapevoli le valutazioni e affrontare le mutevoli circostanze nelle quali capita a chiunque di imbattersi nella vita. Si dirà: ma praticare i testi filosofici richiede tempo, energia e preparazione che non sono, come il buon senso di cui parlava Cartesio, “la cosa nel mondo meglio ripartita”. Ma è proprio a questo che servono, infatti, le introduzioni alla filosofia. A evitare, cioè, di avventurarsi nel mondo delle grandi domande privi di quell’equipaggiamento culturale che serve a fornire una prima bussola di orientamento. Naturalmente, ci sono introduzioni e introduzioni: si può spaziare da Il primo libro di filosofia di Nigel Warburton alla Brevissima introduzione alla filosofia di Thomas Nagel sino ai libri di Luciano De Crescenzo, e gli esempi si potrebbero moltiplicare. In realtà, l’utilità di opere introduttive non nasce soltanto dalla esigenza di fare in modo che l’inesperto non finisca per ripercorrere sentieri già battuti, ripetere tesi e confutazioni già sentite o celebrare idee, concetti o astrazioni che il mondo della filosofia si è da tempo lasciati alle spalle. Forzando un po’ quello che diceva Wittgenstein, molti dei problemi filosofici ai quali il dilettante o l’inesperto pensa per conto proprio si dissolvono attraverso un’analisi rigorosa del linguaggio, che ne mostra l’insensatezza o la futilità.

Ciò, tuttavia, non significa che la filosofia debba rompere i ponti con i problemi e le questioni che chiunque, nel proprio vissuto naturale e ordinario, non può fare a meno di porsi e che alimenta il desiderio di cercare risposte. E tuttavia, chi oggi comincia a occuparsi di filosofia non può non fare i conti con un’articolazione della ricerca che scorre in gran parte su binari disciplinari precostituiti e sempre più condizionati dallo specialismo, che impone a chi vi si dedica di circoscrivere il proprio oggetto di interesse e di aderire a precise convenzioni linguistiche e argomentative. Mentre però per le scienze naturali o la matematica lo specialismo non suscita difficoltà e si dà generalmente per scontato che la ricerca scientifica possa risultare inaccessibile al profano senza che ciò ne rappresenti un limite, la stessa cosa non vale per la filosofia. L’incomprensibilità, impenetrabilità o impermeabilità al senso comune caratteristica della scienza ai più elevati livelli di specializzazione non ne rappresentano un limite ma, agli occhi dei non-specialisti, una caratteristica inevitabile. La specializzazione produce invece, nel caso della filosofia, una riduzione della sua capacità di farsi ascoltare e di incidere nella discussione pubblica. Non che i filosofi debbano smettere di affrontare problemi e questioni di tipo specialistico, ovviamente. Ma non possono ridursi soltanto a questo, perché è la vocazione generalista della filosofia, il fatto cioè di occuparsi dei problemi che riguardano tutti gli esseri umani, a giustificare le sue pretese di legittimazione culturale – e, in senso lato, anche politica. Se la filosofia risponde a una domanda di senso e di orientamento, una domanda continuamente rilanciata dagli effetti di disorientamento sempre più diffusi nella nostra società-mondo, lacerata politicamente, economicamente e socialmente, allora deve sottrarsi alla presa dello specialismo e lasciarsi contaminare dalle impurità mondane. Deve assumere una prospettiva “rasoterra”, per così dire, che richiama ogni slancio noetico verso l’alto al carattere impuro, complesso e imprevedibile dell’esperienza che alimenta la teoria e che la spinge a riformularsi. In questo senso, anche la pop-sophia rappresenta un contributo prezioso all’apertura della filosofia alle pratiche e alle esperienze del mondo, un modo per svolgere i suoi ruoli essoterici e ritrovare il suo luogo, la sua funzione e la propria legittimazione.

Quando Canguilhem afferma che “la filosofia è una riflessione per la quale ogni materia estranea è buona” o quando Deleuze dichiara che “il filosofo deve diventare non filosofo” per continuare a fare filosofia, intendono probabilmente sostenere che l’oggetto della filosofia non deve essere visto come la manifestazione di problemi che si sono generati all’interno dei suoi regimi di discorsività, come avrebbe detto Foucault, all’interno di quei testi che definiscono il genere “filosofico”. Il richiamo a Foucault non è casuale: la sua proposta, di spostare lo sguardo sul rapporto tra le forme del sapere e le forme del potere, è una delle prospettive teoriche che più incisivamente mettono in crisi l’ipotetica autonomia e autosufficienza di qualunque istanza filosofica. Per questo la “pratica” filosofica non può essere interamente risolta nelle forme specialistico-accademiche di un sapere che sia soltanto scienza, che dispone di istituzioni e apparati, si serve di canoni e linguaggi istituiti e si irrigidisce in ortodossie – perché, in fondo, il gesto filosofico primario consiste nell’esteriorità rispetto a ogni risposta già predisposta nelle categorie del sapere istituzionalizzato.

Questo non significa, lo si è già detto, che la filosofia debba rinunciare allo specialismo e ai suoi luoghi istituzionali, ma la sua vocazione irrinunciabile sta soprattutto nella disponibilità a rovesciarsi fuori di sé, a prendere posizione anche nei confronti dei problemi che le derivano dalla vita delle persone o dalla società, a incrociare il mondo, i suoi linguaggi e le sue esperienze. Tutto ciò, com’è inevitabile e come avviene con sempre maggiore frequenza, la porta ad avere contatti sempre più stretti e ravvicinati non solo la politica, ma anche con gli altri saperi, dal diritto all’economia alla scienza in generale. Non certo nel senso che la filosofia possa accollarsi il compito di fornire senso e orientamento a saperi che ne sarebbero privi in nome di una sfera posta al di là e al di sopra dei singoli saperi disciplinari, si tratti della libertà esistenziale o dell’“essere” che accade. Sarebbe unicamente una forma di presunzione. Ma nel senso, piuttosto, che la filosofia può sfruttare il suo plurilinguismo e il proprio riferimento alla totalità perduta per “introdurre”, in un senso diverso da quello sopra accennato, il sapere specialistico degli esperti nel “mondo della vita”, reinterpretando le condizioni tramite le quali elementi del discorso politico, giuridico o scientifico sono risposte possibili per il mondo che accade intorno a noi. E per contribuire a mantenere vigile la coscienza critica sulle questioni poste, nella prospettiva della loro applicazione, dai saperi specializzati che la società riceve dagli esperti o dagli scienziati. È la filosofia, in buona sostanza, che può accollarsi, a suo modo, un compito “introduttivo” – quello di introdurre, in virtù del suo plurilinguismo, i linguaggi specializzati adottati nelle culture degli esperti nel linguaggio quotidiano impiegato nelle condotte ordinarie dei normali esseri umani e recuperando, in questo modo, quella spinta a pensare per conto proprio ai problemi filosofici della quale parlava Nagel.

 

 

 

ENDOXA - BIMESTRALE FILOSOFIA

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