ZOMBI: PICCOLA FENOMENOLOGIA CINEMATOGRAFICA

maxresdefaultDANIELE TERZOLI

Si, ma quale tipo di zombie? Zombie soprannaturali, derivazione della cultura e mitologia voodoo, oppure zombie infetti, scatenati dalla chimica o dai virus? Lenti e intontiti, oppure feroci e corridori? Tecnologici e post-umani, elettrificati o mistici? E ancora, zombie votati alla lotta di classe oppure zombie nazisti?

Zombiepedia, sito web enciclopedico dedicato interamente agli undead, completo di analisi scientifiche del fenomeno e procedure da seguire in caso di un’apocalisse zombie, ne classifica 62 categorie, ma è una lista dichiaratamente arbitraria e destinata a crescere, perché la moltiplicazione delle varianti non sembra destinata a esaurirsi.

Per una fenomenologia degli zombie nell’immaginario cinematografico, meglio procedere con ordine (non sempre cronologico), prendendo in esame le pietre miliari e seguendo alcune linee di tendenza. La prima apparizione sul grande schermo è databile al 1932 con il film White Zombie (L’isola degli zombies), realizzato dai fratelli Victor e Henry Halperin e ispirato agli scritti del reporter, occultista e viaggiatore americano William Seabrook contenuti nel libro The Magic Island (1929), frutto di studi ad Haiti e di osservazioni sui rituali voodoo e sui culti funerari. La pellicola, non a caso di ambientazione haitiana, ha per protagonista nel ruolo del villain Bela Lugosi, star hollywoodiana grazie alla sua leggendaria incarnazione del conte Dracula, qui oscuro negromante e proprietario di piantagioni di canna da zucchero dove i lavoratori sono zombie in stato di trance. Slavoj Žižek riconduce già a questo primo prototipo l’ipotesi di una contrapposizione tra vampiri e zombie sotto il profilo della differenza di classe: dove i primi sono ricercati, aristocratici e affini alla società, i secondi risultano goffi, inerti e sporchi, e appartengono alla categoria degli esclusi, segnando così un’equazione tra zombie e classe operaia che nel film degli Halperin si tradurrebbe in riferimento esplicito alla brutalità del capitalismo e alle lotte salariali.

Altro capitolo fondamentale nella storiografia degli undead sul grande schermo è I  Walked with a Zombie (Ho camminato con uno zombi) diretto nel 1943 da Jacques Tourneur e prodotto da Val Lewton per la RKO. La trama, costruita a tavolino partendo da un articolo della giornalista Inez Wallace per il San Francisco Examiner (I met a zombie!), ripercorre il tema del romanzo vittoriano Jane Eyre di Charlotte Brontët rapiantando l’azione in un’isola caraibica: il tessuto culturale è ancora quello del folklore haitiano, mentre il sottotesto della schiavitù come condizione esistenziale degli zombie, rappresentati come robot umani, emerge nel film contrappuntato dalle atmosfere noir impresse dal regista di Cat People.

Significativo nell’evoluzione dell’iconografia zombie è l’apporto dei comic books  prodotti tra la fine degli anni ’40 e la prima metà dei ’50 dalla casa editrice americana EC, con tre collane dedicate ai mondi del terrore: The Vault Of Horror, The Haunt Of Fear e Tales From The Crypt. Le storie presentano un eccellente campionario di creature, vampiri, lupi mannari, accanto a cui gli zombie trovano degna ospitalità, come nel caso della storia Zombie Terror (1948) con i disegni di Johnny Craig, e iniziano a caratterizzarsi come corpi in disfacimento dall’aspetto orripilante. Spesso citate come influenza artistica da Stephen King e George Romero, queste pubblicazioni furono bandite dopo l’introduzione del codice di autocensura della Comic Code Authorithy nel 1954, conseguenza delle noie giudiziarie a seguito della pubblicazione del libro dello psichiatra Fredric Wertham Seduction of the Innocent e di un’audizione pubblica al Congresso degli USA sulla delinquenza giovanile, dove i fumetti erano indicati come elementi negativi nella formazione della personalità.

Parole come Weird, Fear, Horror, saranno bandite per anni dai comics americani, ma l’esperienza non rimane senza eredità, e sull’altra sponda dell’oceano è la casa cinematografica Hammer a raccogliere il testimone, delineandosi come fucina di storie con protagonisti alieni, vampiri, licantropi, mummie, Frankenstein & company (per parafrasare il titolo del pionieristico volume di Ornella Volta del 1965, che  dedicava la sezione Gli zombi, ovvero i morti che lavorano agli scritti di Seabrook). Dopo lunga gestazione anche gli undead fanno irruzione nell’universo Hammer, con The Plague of the Zombies (1966) di John Gilling, primo zombie-movie in Technicolor: le leggende voodoo si innestano su un plot che riecheggia il Dracula stokeriano, con un’epidemia zombesca che si diffonde in un villaggio della Cornovaglia; il gotico europeo incontra il passato coloniale britannico, e – come segnalato dal critico e scrittore David Pirie – la minaccia di una peste misteriosa importata da una aristocrazia corrotta diventa metafora anti-capitalista e anti-colonialista.

Ma è George Romero, regista di ascendenze cubane nato a New York e passato alla storia come The Godfather of Zombies, memore della fascinazione di quei racconti a fumetti degli anni ’50 dove il macabro era in realtà sempre affiancato da un messaggio moralistico, a cambiare drasticamente le regole del gioco. Nel 1968 gira in un ruvido bianco e nero il suo primo film Night of the Living Dead (La notte dei morti viventi), inizialmente intitolato Night of the Flesh Eaters: di fatto il termine zombie non è mai utilizzato nel film, e nei ricordi del regista fu il critico Serge Daney sui Cahiers du Cinéma il primo ad applicare questa etichetta ai suoi demoni di celluloide, liberamente modellati sulla base del racconto di Richard Matheson I’m Legend (1954). Night of the Living Dead è il film che codifica una nuova specie di mostri cinematografici, ripugnanti e dalla carne in decomposizione, antropofagi, mutanti, arrabbiati e contagiosi, pronti per essere plasmati come perfetta metafora sociale sotto infinite sfumature, e destinati a diventare una saga sotto l’attenta e corrosiva regia del film-maker newyorchese. Sono gli anni della Guerra del Vietnam, di tensioni negli USA attorno all’irrisolta questione razziale, della critica al capitalismo cannibale e distruttivo dei rapporti umani; rivoluzione e rivolta sociale si respirano nell’aria in America e nel mondo, e il film di Romero, popolato da modernissimi ghouls originati per effetto delle radiazioni emesse da una sonda spaziale, con un attore afroamericano nel ruolo del protagonista sopravvissuto all’orda di morti viventi e incautamente ucciso dalle forze dell’ordine impegnate a ristabilire lo status quo, si rivela un concentrato di messaggi politici anticonformisti e sovversivi.

Nelle sue interviste, Romero raccontava che gli zombie non sono mai stati per lui un semplice franchise da sfruttare per motivi commerciali, ma piuttosto un soggetto da resuscitare ogni volta che egli avvertiva un nuovo mutamento antropologico in atto nella società americana. Il successivo Dawn of the Dead, prodotto nel 1978 dall’allora lanciatissimo talento dell’horror italiano Dario Argento e uscito nel nostro paese come Zombi, è ambientato in un centro commerciale, e i resuscitati all’attacco del mall diventano simbolo degli esclusi dalle dinamiche del consumismo. Day of the Dead (Il giorno degli zombi, 1985), realizzato al culmine della Guerra Fredda, punta il dito contro l’America militarista reaganiana; Land of the Dead (La terra dei morti viventi, 2005) osserva con sospetto il turbocapitalismo finanziario del nuovo millennio, con una sceneggiatura scritta nei giorni immediatamente successivi all’11 settembre; Diary of the Dead, film che ricorda più degli altri il capostipite per l’uso di tecnologia digitale a basso budget, è un film profetico riguardo all’esplosione dei media digitali, poco affidabili e incontrollabili; Survival of the Dead (2011), ultimo titolo della saga romeriana, è un western che guarda alla globalizzazione segnalando come i disperati siano ovunque, anche nelle più lontane terre promesse.

Un capitolo a parte lo meritano gli zombi all’italiana, la cui grafia non prevederebbe la e finale della locuzione anglosassone. L’industria cinematografica nazionale, forte nella produzione di film di genere fino alla metà degli anni ’80, fa leva sul successo di Zombi per una serie di pellicole pensate anche per l’esportazione e diventate nel tempo cult-movies. Zombi 2 (1979) è il primo horror realizzato da Lucio Fulci, e non si tratta di un sequel: l’ambientazione ritorna alla mitologia caraibica, mentre gli effetti speciali virano verso lo splatter per esaltare il lato teratologico. Zombi Holocaust (1980) di Marino Girolami ne sfrutta la scia (e le location) innestando il tema sul filone cannibalistico (celebre in quegli anni grazie a titoli famigerati come Cannibal Holocaust e Antropophagus), mentre Incubo sulla città contaminata (1980) di Umberto Lenzi presenta una invasione di zombie provocata da una fuga di radiazioni nucleari (La Invasión de los Zombies atómicos recita il titolo spagnolo) e Virus (1980) di Bruno Mattei spinge sul versante dell’esotico-ecologico per collocare in Nuova Guinea una storia di indigeni trasformati in zombie per la fuga di sostanze chimiche da un laboratorio. Se la parodia è da sempre un indicatore di grande successo popolare, la conferma arriva dallo sgangheratissimo Io zombo, tu zombi, lei zomba (1979) di Nello Rossati, mentre si colloca sul versante hard-core Le notti erotiche dei morti viventi (1980) di Joe D’Amato, e il trash emerge nella bizzarria di Le notti del terrore (1981) di Andrea Bianchi, con l’attacco a una villa borghese da parte di una schiera di zombie etruschi. L’apporto più originale e autoriale è intestato invece a Pupi Avati con Zeder (1983): il regista de La casa dalle finestre che ridono ripercorre la strada dell’horror padano con la storia di un’indagine, in bilico fra scienza e religione, attorno a dei misteriosi terreni le cui particolari caratteristiche chimiche consentirebbero ai defunti ivi sepolti di ritornare in vita. L’onda lunga degli zombi si propagherà di lì a poco anche nel campo del fumetto: Dylan Dog esordisce nelle edicole nel 1986, il primo volume della collana creata da Tiziano Sclavi è intitolato L’alba dei morti viventi e in una delle tavole cita espressamente il mitico Zombi di Romero. Il tentativo di replicare i successi del fumetto al cinema, con l’horror grottesco e cimiteriale Dellamorte Dellamore (1994) di Michele Soavi, non avrà tuttavia l’esito sperato.

Dawn of the Dead di Romero è un film di svolta anche per l’estetica del new horror (americano ma non solo) degli anni ’80 e ’90, che si incanala gradualmente in direzione dello splatter e del gore, distinguendosi grazie a nuovi mostri della modernità svincolati dagli archetipi del gotico.

Il processo di zombificazione finisce per coinvolgere così anche gli scritti di H.P. Lovecraft, autore negli anni ’20 del racconto Herbert West, Reanimator che aggiornava il mito di Frankenstein con la figura di un mad doctor dedito alla sperimentazione di un siero chimico per riportare in vita i cadaveri. Se la fama del solitario di Providence era stata da poco riesumata da Fulci con la trilogia della morte (inequivocabili i tre titoli: Paura nella città dei morti viventi, 1980; …e tu vivrai nel terrore! – L’aldilà, 1981; Quella villa accanto al cimitero, 1981) e da Sam Raimi con Evil Dead (La casa, 1981), il regista Stuart Gordon, reduce dalle esperienze dell’Organic Theatre (compagnia teatrale con base a Chicago, celebre in quegli anni per lo show E/R Emergency Room che avrebbe aperto la strada alle omonime sitcom e serie tv), si rifà a Lovecraft direttamente e attualizza per il grande schermo Re-animator (1985) come un truculento e ironico body-horror, che denuncia i progressi di una scienza medica proiettata cinicamente a trattare i corpi come macchine; il produttore del film Brian Yuzna dirigerà due sequel, ma resterà incompiuto il progetto di Gordon per un ulteriore seguito che avrebbe visto gli zombie protagonisti di un assalto alla Casa Bianca.

L’ondata prodotta dal new horror si espande anche oltre i confini del cinema, e il passaggio alle abitazioni domestiche attraverso il tubo catodico avviene a ritmo funky con artefici Michael Jackson e il regista John Landis: nel 1983 il videoclip di Thriller, con la famosissima sequenza della zombie-dance, fa registrare record di ascolti sull’emergente canale MTV. Gli zombie ormai non fanno più paura come un tempo, e iniziano a muoversi con maggiore libertà.

La Zombie Renaissance del nuovo millennio secolo inizia con 28 Days Later… (28 giorni dopo, 2002) del futuro premio Oscar inglese Danny Boyle, debitore nello stile degli storici fanta-sceneggiati televisivi della BBC (come Doom Watch o The Survivors) e scritto da Alex Garland traendo spunto dal romanzo di John Wyndham, The Day of the Triffids (1951). In una Londra post-apocalittica e deserta, che vista oggi sembra prefigurare quella spettrale e metafisica dei giorni del lockdown, l’epidemia è stata originata da un virus mutante, testato in laboratorio sugli animali e trasmesso incidentalmente agli uomini in forma di zombifera rabbia. I morti viventi incominciano ad accelerare, rivitalizzati anche dall’estetica videoludica inaugurata dal gioco per console nipponico Resident Hill e mutuata nell’omonima serie di film girati e prodotti da P.W. Anderson (sei episodi fra il 2002 e il 2016); nei mondi della fiction il contagio è pronto a svilupparsi su scala planetaria, in un numero crescente di variazioni sul tema, incoraggiate dagli incassi stratosferici ottenuti dal film a basso budget di Boyle e alle opportunità offerte dalle nuove tecnologie anche negli effetti speciali.

La filmografia degli ultimi vent’anni è sterminata. Shaun of the Dead (2004) di Edgar Wright sposta l’asse verso la commedia horror in chiave zomedy; Les Revenants (2004) del francese Robin Campillo accantona le tensioni verso la crudeltà per raccontare di un mondo invaso dai migliaia di resuscitati che chiedono di riprendere il loro posto nella società; [·REC] (2007) di Jaume Balagueró e Paco Plaza utilizza lo stile mockumentary per mettere in scena la paura, e una feroce critica dei media, in un condominio di Barcellona, sulle tracce di un paziente zero incarnato da una anziana infetta (seguiranno tre sequel e il remake americano Quarantine, 2008); Zombieland (2009) di Ruben Fleischer ci racconta le 33 regole per sopravvivere agli zombie in un road movie attraverso gli USA contaminati da un’infezione generata dal virus della mucca pazza. E ancora: Dead Snow (2009) resuscita un plotone di zombie nazisti tra le nevi norvegesi, La Horde (2010) affianca un gruppo di poliziotti e una banda criminale nella lotta per la sopravvivenza contro un’orda zombesca in un claustrofobico palazzo parigino, Juan of the Dead (2011) sposta l’azione a Cuba con esilaranti connotazioni politiche, World War Z (2013) è la trasposizione dell’omonimo best seller di Max Brooks (autore del manuale di sopravvivenza The Zombie Survival Guide) ed eleva gli zombie alla dimensione blockbuster, Wyrmwood: Road of the Dead (2014) si immerge nel contesto del bush australiano con un gruppo di zombie ad alto numero di ottani, Train to Busan (2016) fa esplodere il contagio tra i passeggeri di un convoglio della Korea Train Express e Attack of the Lederhosen Zombie (2016) ci proietta nell’incubo surreale vissuto da un gruppo di snowboarder tra le Alpi del Südtirol.

Nel frattempo una nuova mutazione è già avvenuta: nel 2010 gli zombie sbarcano sul piccolo schermo con la serie The Walking Dead, creata da Frank Darabont dalla serie a fumetti di Robert Kirkman, e il successo è trionfale. Ormai la zombie culture è fenomeno di massa, le sanguinolente passeggiate in maschera note come zombie walk si diffondono nelle città e si manifestano in flash mob con la complicità dei social network, in un crescendo contagioso dove il mostruoso si svuota della valenza perturbante e produce viceversa effetti di empatia e di identificazione. Sempre più iconici e soggetti alla mercificazione, gli zombie diventano personaggi crossmediali nell’osmosi tra film, serie per la tv e per il web, grahic novel e videogames, insinuandosi parallelamente in ogni genere di oggetto di consumo. I media studies decidono che è tempo di approcciare frontalmente il tema della zombificazione: nel 2011 all’Università di Winchester si organizza il convegno The Zombosium da cui nel 2015 nasce il volume The Zombie Renaissance in Popular Culture; nel 2019 lo University College di Dublino avvia la prima Theorizing Zombiism Conference e il lancio dello Zombie Studies Network; e la pandemia di SARS-CoV-2 rilancia il tema dell’immaginario del contagio in rapporto alle forme di rappresentazione del lockdown. Nel frattempo l’invasione continua.

CINEMA ENDOXA - BIMESTRALE ESTETICA Fantascienza

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