ZOMBIE E PAMPSICHISMO
PIER MARRONE
Zombie è una parola dall’etimo incerto. È molto probabile che le ricorrenze originarie che hanno dato origine al termine siano di origine africana, con tutta probabilità collegate a religioni caratterizzate da culti della potenza. Gli zombie sono corpi viventi privi delle normali capacità decisionali degli esseri umani e che possono essere utlizzati come schiavi da qualche potente personaggio in collegamento con divinità telluriche. Questo è quanto si intende per zombie ad Haiti dove la figura della potenza ctonia è epitomizzata dal Baron Samedi, che comanda un’armata di zombie, una volta persone umane, spossessate della loro volontà e ridotte a macchine umane al suo servizio.
Queste credenze si è ritenuto esprimessero non solo una forma di religiosità informata alla potenza, come si ritrova in molte religioni naturalistiche che dall’Africa si sono trapiantate nelle aree caraibiche e in America Latina (questi culti variano dal voodu haitiano al candomblé brasiliano diffuso soprattutto nell’area di Bahia con ramificazioni anche nell’area caraibica della Colombia, alla santeria praticata a Cuba), ma delle esperienze che potevano essere replicate anche da chi non aderiva a queste pratiche devozionali e religiose.
Fu il caso di Clairvius Narcisse, un haitiano che narrava di essere stato ridotto allo stato di schiavo zombie da uno stregone, a far sorgere l’idea che il fenomeno degli zombie fosse reale e potesse essere indagato con gli strumenti della scienza. Su questa prospettiva Wade Davis, al tempo un giovane antropologo, costruì la sua fama. Wade Davis nel suo volume The Serpent and the Rainbow sosteneva che gli zombie erano reali, ovvero che una persona poteva essere ridotta allo stato di zombie facendole ingerire la cosiddetta zombie powder un composto allucinogeno nel quale era presente una potente neurotossina, la tetrodotossina, in grado di inibire movimenti muscolari. Wade Davis, però, si spingeva oltre, giungendo a sostenere che le persone potevano essere mantenute in questo stato per anni. Le credenze sull’esistenza degli zombie, sui Tonton Macoutes (Tonton Macoute è il nome haitiano del boogie man, l’uomo nero insomma) così crudelmente attualizzate dalle atrocità della Milice de Volontaires de la Sécurité Nationale del dittatore François Duvalier, ricevevano quindi una legittimazione scientifica. Il libro di Wade Davis fu un enorme successo, uno dei punti più alti di una carriera straordinaria, che lo ha visto, esploratore, fotografo, etnobotanico e per la quale ha ricevuto numerosi premi e riconoscimenti tra i quali la cittadinanza onoraria colombiana per il suo lavoro di valorizzazione della biodiversità di quelle regioni.
Tuttavia, quella ricerca etnografica e antropologica si scoprì abbastanza presto che era viziata da alcuni errori fatali. La neurotossina era presente in quantità trascurabili nei campioni che vennero sottoposti a analisi. Wade Davis però indicava anche il consumo di datura stramonium, un’erba conosciuta anche come “tromba del diavolo” tra i possibili candidati della zombificazione. In efetti, questa erba contiene quantità rilevante di alcaloidi come la scopolamina. L’ingestione di questi alcaloidi provoca effetti comportamentali come deliri e allucinazioni. I suoi effetti, tuttavia, svaniscono generalmente dopo circa due giorni. L’uso della tromba del diavolo è del resto documentata in numeroso funzioni religiose proprie di popolazioni indigene nel continente americano, in Africa e in Asia. Però, tracce di zombie che si fossero trovati in queste condizioni addirittura per anni non se ne trovarono in maniera indipendente.
Ma gli zombie possono in linea teorica esistere? Alcuni pensano che alcune malattie della famiglia delle encefalopatie spongiformi, tra le quali la più nota è il cosiddetto morbo della mucca pazza, siano descrittivamente vicine a quanto credenze religiose ancestrali sembrano trasmettere. In particolare, la cosiddetta chronic wasting disease, la sindrome del deperimento cronico, che colpisce alcuni cervidi, era sembrata una buona candidata per sostenere queste credenze sulla possibilità di cadere vittime della zombificazione. Forse l’osservazione di queste forme di malattia o forse il fatto che in altri tempi anche alcuni esseri umani ne sono state vittime, forse il ricordo ancestrale di qualche epidemia hanno fornito la base di questo mito così persistente e così cool nella cultura di massa.
Perché il mito degli zombie sia così diffuso tanto da essere diventato da molto tempo un fenomeno pop può avere diverse spiegazioni, delle quali non mi occuperò. Mi interessa invece che questo mito nasconde al suo interno un problema importante per la filosofia della mente. Magari gli zombie non esistono né sono mai esistiti, ma dal punto di vista concettuale e anche solo in linea teorica potrebbero esistere? Questo problema, se formulato ulteriormente potrebbe fornirci qualche indicazione sul problema della coscienza. Quindi, lo potremmo riformulare in questo modo, lasciando perdere tutti gli orpelli mitici e splatter che inevitabilmente associamo agli zombi: è possibile esistano esseri che sembrano come noi, si comportano come noi, vanno a lavorare, fanno fitness, si iscrivono a corsi di tango, pagano mutui, fanno sesso, si laureano, ma mentre esibiscono tutti gli indici esterni del possesso di una coscienza, invece ne sono privi?
Tutti noi siamo convinti di avere una coscienza (mentre gli zombi non hanno qualcosa che sia riconoscibile come tale). Anzi: sappiamo di averla. Infatti, alla nostra coscienza abbiamo immediato accesso, almeno quando siamo svegli e non siamo alterati da, ad esempio, sostanze psicotrope, sebbene gli effetti di alcune di queste, come LSD o alcuni funghi allucinogeni, siano stati descritti come un ampliamento della coscienza. Però che cosa sia la coscienza nessuno in realtà lo sa. Anche per questo motivo alcuni hanno pensato che sia meglio partire da quelle cose che accadono nella coscienza e sembrano essere proprie solo della coscienza, prima di proporne una qualsiasi definizione.
Una prima cosa che può essere detta è che noi facciamo delle esperienze che sono solo nostre, nel senso preciso che nessuno può avere accesso al modo nel quale noi viviamo le esperienze che facciamo. Naturalmente, moltissime esperienze devono avere qualcosa in comune, altrimenti tutta la nostra comunicazione interpersonale si baserebbe su un radicale e fondamentale fraintendimento e questo non è possibile. La mia esperienza di pagare l’ultima rata di un impegnativo mutuo immobiliare è certamente solo mia (del resto, basta che osservi il preoccupante declino del denaro nel mio conto corrente), ma tutti comprendono, se adeguatamente informati due cose: (1) che cosa significhi pagare un mutuo immobiliare; (2) le mie reazioni al pagamento delle rate mutuo immoboliare, che ovviamente potranno coprire uno spettro che va dalla preoccupazione delle prime rate al sollievo dopo il pagamento dell’ultima. Però questa esperienza io non posso condividerla in un senso proprio. Ne posso comunicare alcuni effetti su di me, immaginando che tramite l’empatia un mio eventuale interlocutore la comprenda, ma la mia esperienza non potrà mai essere che la mia.
Ho voluto fare un esempio con un’esperienza scarsamente coinvolgente (pagare un mutuo non è un’esperienza che si rievoca volentieri), ma la cosa risulta naturalmente maggiormente chiara con esperienze che sono molto più calde di quella che ho proposto. Pensiamo a un’esperienza fortemente fusionale, forse quella maggiormente fusionale, ossia fare sesso con una persona della quale siamo profondamente attratti nelle fasi iniziali dell’innamoramento. Vi accorgerete subito come sia molto difficile, se non del tutto impossibile, riassumere l’interezza della vostra esperienza a qualcun altro. Potrete usare le iperboli che volete, ma pensate davvero di riuscire mai a comunicare l’interezza della vostra esperienza? Questo è impossibile, anche perché anche solo dopo qualche giorno, probabilmente voi non sareste più in grado di descriverla a voi stessi.
Non voglio affrontare ulteriori temi, che complicherebbero ancora di più le cose (ad esempio questo: a quali condizioni una descrizione delle nostre esperienze passate può considerarsi completa?). Voglio solo indicare come le nostre esperienze vissute nell’interiorità della nostra coscienza abbiano una specifica qualità, quella di essere esclusivamente nostre. Questa proprietà personale pare non essere quantificabile. Infatti, se io vedo il rosso posso immaginare che accada qualcosa nel mio cervello, si attivino delle sinapsi, ci sia il passaggio di corrente elettrica attraverso i dendriti, si attivino dei neurotrasmettitori che a loro volta hanno una precisa composizione chimica, posso immaginare che le relazioni tra questi elementi siano regolate dalle leggi della fisica, le uniche, a quanto sappiamo, universalmente diffuse nell’universo, ma la mia esperienza soggettiva del rosso è queste relazioni, è questo insieme di elementi chimici? Sembrerebbe che la risposta che dobbiamo dare sia negativa. L’insieme delle mie esperienze soggettive ha un sapore innegabilmente soggettivo e qualitativo. La qualità principale delle mie esperienze è infatti di essere mia. Per questo talvolta ci si riferisce a queste come ai qualia ovvero qualità immediatamente vissute.
Queste sembrano essere elementi indubitabili. Però pare essere anche difficile mettere in dubbio quanto si è appena rilevato, ossia che delle nostre esperienze è anche possibile dare in linea di principio una descrizione in termini oggettivi, che non faccia riferimento all’esperienza soggettiva della coscienza che le sperimenta, ma sia appunto quella che si chiama descrizione in terza persona. Allora sembra che esistano due classi di fenomeni che possono essere ricondotti alla coscienza (e questa considerazione, se è perspicua, rende ancora più difficile dire che cosa la coscienza è): (1) la cosiddetta coscienza fenomenica in prima persona; (2) la coscienza psicologica in terza persona. Su questa distinzione si è innescata una sorta di olimpiade filosofica nella quale sono intervenuti intellettuali di peso con proposte che coprono tutto lo spettro dall’irriducibilità della coscienza fenomenica a quella psicologica, alla riduzione della coscienza fenomenica a quella psicologica e alla sua risoluzione in un fenomeno fisico-chimico in ultima analisi, con innumerevoli sfumature, come l’emergentismo, secondo la quale la coscienza fenomenica emergerebbe da quella psicologica, ma non sarebbe riducibile a quest’ultima. Insomma, della coscienza sembra si possa dire quanto Winston Churcill diceva della Russia: un rebus avvolto in un mistero che abita un enigma.
Però non bisogna nemmeno arrendersi di fronte a queste difficoltà. Forse, riuscire a precisarle può contribuire a rendere più chiaro i problemi che riguardano la possibilità degli zombi, ossia di una coscienza psicologica priva di coscienza fenomenica. I contributi che sono stati occasione di discussione a proposito di questi problemi sono numerosi e spesso di alto livello. Quello forse più adeguato a questa discussione si deve a David Chalmers. Chalmers distingue due problemi della coscienza: uno facile e uno difficile. Quello facile è la spiegazione della coscienza psicologica in termini funzionalistici. Per questa spiegazione è sufficiente rintracciare con chiarezza i determinanti evolutivi di quanto la nostra coscienza, come quella di altri animali, svolge nei termini del processamento delle informazioni e dell’adattamento del nostro organismo all’ambiente. Tuttavia, ci si accorge facilmente che tutte le spiegazioni che possiamo dare in termini funzionalistici si riferiscono sempre a esperienze che lasciano del tutto indeterminata e inesplicata l’esperienza soggettiva. Si capisce quindi come alcuni hanno pensato che da una posizione di questo genere si dovesse procedere in direzione di una nuova teoria radicalmente differente e questo è il problema difficile della coscienza.
Che sia un problema difficile pare sia indicato dal fatto che una teoria del genere ancora non esiste. Ma che cosa dovrebbe accadere perché il problema difficile della coscienza si avvii a soluzione? Certo, ci sono alcuni che pensano che questo problema non potrà essere mai risolto, ma questo è un fideismo dogmatico per quanto negativo. Allora, di che cosa abbiamo bisogno. Abbiamo bisogno di una teoria radicalmente diversa da quelle che finora si sono succedute per spiegare la coscienza fenomenica. Questa teoria non può essere riduzionistica, ossia non può spiegare la coscienza nei termini di fenomeni fisici conosciuti, perché ci ritroveremmo da capo, con una coscienza fenomenica che sopravvive intatta alla coscienza psicologica. È un’osservazione che era già stata avanzata da Leibniz che riteneva si dovesse riconoscere “che la percezione, e quel che ne dipende, è inesplicabile mediante ragioni meccaniche, cioè mediante le figure e i movimenti. Immaginiamo una macchina strutturata in modo tale che sia capace di pensare, di sentire, di avere percezioni, in modo che vi si possa entrare come in un mulino. Fatto ciò, visitando la macchina al suo interno, troveremo sempre e soltanto pezzi che si spingono a vicenda, ma nulla che sia in grado di spiegare una percezione. Quindi [la ragione della] percezione va cercata nella sostanza semplice, non già nel composto, cioè nella macchina”.
Ma anche se fossimo in grado di elaborare un paradigma di spiegazione non riduzionistico, si sarebbe poi da spiegare come le esperienze coscienti abbiano un’efficacia causale, ossia siano in grado di provocare altre esperienze. E anche qui le spiegazioni sono divenute subito abbondanti. Chalmers preferisce una soluzione epifenomenista. Per l’epifenomenista gli eventi mentali sono causati da eventi fisici che hanno luogo nel cervello, ma che non hanno alcun effetto sui fenomeni fisici. È una posizione che pare produrre una qualche forma di dualismo. I fenomeni della mente sono quindi delle occorrenze che si accompagnano a fenomeni fisici, ma che non li riguardano, nel senso che non sono in grado di produrli. La metafora che utilizzava Thomas Huxley nell’Ottocento per spiegare l’epifenomenismo è bella e interessante. Immaginate un treno che stia arrivando in stazione e che faccia partire il suo fischio. Il fischio è prodotto da eventi fisici che accadono nel treno, ma ha una qualche relazione causale con il funzionamento del treno? Sembrerebbe che si debba rispondere di no. Tuttavia, la stessa analogia può essere metaforizzata anche per la coscienza? Perché in effetti esiste un controargomento piuttosto potente e insidioso, che è questo: la conoscenza è un evento che è prodotto dal cervello senza ombra di dubbio e noi non abbiamo notizia di esseri che abbiano conoscenza e siano privi di cervello (per chi avanza questa obiezione, è chiaro che gli zombie non possono esistere). Ma la conoscenza dei propri stati mentali è il presupposto per produrre conoscenza. Produrre conoscenza è pur sempre qualcosa che avviene nel cervello attraverso dei processi fisici, ma l’epifenomenismo nega che gli stati mentali causino stati fisici.
Cosa è davvero in gioco in tutta questa storia della coscienza, degli zombi, della possibilità di macchine biologiche che agiscono come noi e sono però prive di stati mentali? Molte cose indubbiamente, ma una credo sia quella fondamentale, ossia il fatto che gli stati soggettivi sono gli stati di una persona, di un sé, di un soggetto e, infatti, alcuni autori hanno insistito sul fatto che il sé potrebbe essere un’illusione, come ad esempio Susan Blackmore. Tempo fa avevo sentito un genetista in disarmo, ma molto attivo sulle pagine culturali di importanti quotidiani, sostenere che la coscienza è come il rumore di fondo di un’automobile con il motore a scoppio. Il problema è però che se la coscienza è un fenomeno naturale, come indubbiamente è, allora deve essere un prodotto dell’evoluzione che è sopravvissuto perché utile in termini di adattamento amnbientale e di propagazione del programma genetico che è incorporato in quegli esseri che hanno una coscienza simile alla nostra. Noi non possiamo certo pensare di essere i soli esseri che possiedono la coscienza. Esistono prove innumerevoli oramai che anche moltissimi animali hanno una vita mentale ricca, che in molto casi non smette di sorprenderci. Forse potremmo aspettarci di trovare una coscienza o qualcosa che alla coscienza si approssima anche negli zombie, almeno relativamente al fatto che sarebbero in grado di orientarsi nell’ambiente. E che cosa mai non è in grado di orientarsi nell’ambiente in un qualche senso? Leibniz distingueva tra appercezione (la coscienza riflessiva, che è anche la nostra, oltre a quella degli angeli e ovviamente di Dio) e percezione, che è una coscienza oscura, obnubilata in gradi variabili fino a giungere alla sua cristallizzazione nella materia. Secondo questa ipotesi, che si chiama pampsichismo, la coscienza non è nel nostro cervello, ma è dappertutto, e nella nostra mente si riproduce il mondo intero. Saremmo allora così diversi dal polipo che abita gli abissi, dalla sequoia che appare immobile, mentre invece reagisce alle sollecitazioni chimiche della vegetazione circostante, dagli zombi che, distanti dagli animali e più simili a ambulanti piante carnivore, hanno la coscienza quasi cristallizzata? Verrebbe da dire della coscienza quanto Baudelaire scrive nella poesia introduttiva a Les Fleurs du mal: “Dans nos cerveaux ribote un peuple de Démons […] Tu le connais, lecteur, ce monstre délicat, — Hypocrite lecteur, — mon semblable, — mon frère!”.
ENDOXA - BIMESTRALE FILOSOFIA Endoxa gennaio 2023 Pier Marrone Zombie