FAME E CIBO DI FRANKENSTEIN E INTERDIPEDENZA

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  1. Siamo per lo più tutti convinti che lavoriamo per guardagnarci da vivere, e questo fa di noi dei lavoratori  e delle lavoratrici. Il processo del lavoro,  e il consumo dei suoi risultati,  è imposto  dalle necessità  basilare della vita, che  risponde alla vita riproduttiva.  È sotto gli occhi di tutti che tali necessità, e in primo logo , la disponibilità dei beni alimentari, non trova a una risposta equamente distribuita.  Molti sono i paesi del mondo che soffrono ancora di insicurezza alimentare e ben 823 milioni di persone hanno subito la fame nel corso del 2021). Fin dagli ultimi decenni del Novecento   è stata denunciata la gravità della situazione alimentare nei paesi in via di sviluppo. Il Rapporto globale sulle crisi alimentari evidenzia la crescente ampiezza e gravità delle crisi alimentari del 2020 e le fosche prospettive per il 2021. Il World Food Programme avverte che 41 milioni di persone sono “sull’orlo della carestia”. L’agenda 2030 ha individuato,  di conseguenza,  il   secondo obiettivo proprio  nel  traguardo Zero fame entro il 2030, articolato nei sottobiettivi, da garantire accesso  sicuro e nutriente per  tutto  l’anno a tutte le persone e soprattutto ai più vulnerabili, azzerare le forme di malnutrizione,  dando risposta alle esigenze nutrizionali di bambini, ragazze adolescenti, facilitare l’accesso al consumo di cibo ai piccoli produttori di cibo, proteggere ecosistemi che riescono a rispondere a nuove condizioni metereologiche. Alla luce di questa premessa è preoccupante, in conclusione,  la previsione della Fao, nel recente Rapporto  sullo Stato di sicurezza alimentare nel mondo  2022, secondo cui “Ormai mancano solo otto anni al 2030…. La distanza per raggiungere molti degli obiettivi dell’SDG 2 ( Sustainable  Developemnets Goal) aumenta di anno in anno…Ci sono sforzi per compiere progressi verso l’SDG 2, ma si stanno rivelando insufficienti di fronte a un contesto più difficile e incerto”.

1.2 È un dato puramente empirico che le necessità nutrizionali sono variabili secondo il sesso, l’età, la latitudine, l’attività lavorativa. Tuttavia è chiaro che una gran parte della popolazione mondiale, non riesce a soddisfare il fabbisogno minimo, fissato ordinariamente in 2500 calorie. Per fame intendiamo qui la disponibilità alimentare di meno di 1800 calorie giornaliere. All’aspetto quantitativo bisogna accostare quello qualitativo. Molteplici sono le forme di malnutrizione, quella secondaria dovuta all’incapacità di digerire e assorbire cibo a causa di varie malattie, la malnutrizione macronutritiva, l’insufficiente apporto calorico che produce debilitazione fisica, malnutrizione micronutritiva, l’insufficienza di alcuni componenti specifici responsabili dello  scarso sviluppo mentale e fisico. La rilevazione della fame e delle sue declinazioni si serve di un indicatore complesso, il global hungry index , costituito da  quattro indici, derivanti dalla misurazione in percentuale dei seguenti valori di ciascun Paese:  popolazione con insufficiente assunzione calorica (denutrizione), bambini sotto i cinque anni  con un peso  insufficiente per la loro altezza (indice  di sottonutrizione acuta),  bambini  sotto i cinque anni con altezza insufficiente  per la oro età (sottonutrizione cronica),  tasso di mortalità di bambini sotto i cinque anni, determinato dalla combinazione di ambienti insalubri e alimentazione insufficiente. Da qui la classificazione dei Paesi secondo diversi livelli, da  basso a moderato, a grave, ad allarmante, fino a estremamente allarmante.

1.2 Obiettivi.  Entro tale quadro politico e sociale  questo contributo si pone la questione se l’introduzione degli OGM possa costituire dei possibili  vantaggi in aree del mondo in cui è ancora grave il problema del sistema alimentare, prendendo  in considerazione poi le obiezioni rivolte alla loro adozione e, infine  riflettendo sulle considerazioni etiche  che sono qui in gioco per capire infine se siamo moralmente tenuti a una scelta sull’introduzione degli  OGM.  

Riflettere sugli Ogm  in termini di possibile risposta alla questione della fame è rilevante in quanto   la loro adozione non costituisce un atto puramente tecnico. Entro  la concezione di una scienza che ritiene di non potere pervenire a risposte definitive e unilaterali e che ammette l’incertezza e la provvisorietà dei suoi risultati , seguendo su questo le più avvedute teorie epistemologiche, da Dewey a Popper  a Kuhn,   emerge da un  lato la rilevanza del confronto politico tra decisori, comunità coinvolte e scienziati  e dall’altro la  riflessione sulla libertà e  responsabilità di ciascuno e ciascuna. Prevede perciò una dimensione politica ed etica.

Biotecnologie come cibo di Frankenstein? Aspettative e rischi

Le biotecnologie OGM consistono nel trasferimento di parti del genoma, cioè di segmenti dell’informazione genetica, da un organismo all’altro, introducendo così un gene estraneo all’individuo modificato. Questo trasferimento può utilizzare geni di organismi della stessa specie o di altre specie. Perciò sono detti transgenici: da qui i cibi transgenici cioè derivati da organismi geneticamente modificati. Il motore della ricerca in questo campo è stato proprio quello di trovare nuove soluzioni ai problemi dell’alimentazione, realizzando coltivazioni che avessero una resistenza genetica a particolari condizioni ambientali.

Recentemente  il  dibattitto sugli OGM,  è stato riacceso anche  dall’iniziativa del governo del Kenya  che  ha  deciso  di includerli nel suo sistema alimentare. La decisione suscita nuovamente il dibattito tra coloro i cui maggiori timori ruotano intorno alle questioni di sicurezza della salute umana, ai  controversi legami di dipendenza economica dei coltivatori dei PVS  dalle multinazionali alimentari  e infine delle conseguenze in termini di integrità ambientale. Senza addentrarsi troppo nel lungo e articolato dibattito in merito possiamo sintetizzare le  principali argomentazioni a favore dell’uso degli  OGM  nell’ accresciuta disponibilità alimentare attesa, nella possibilità  di produrre  alimenti arricchiti di elementi nutritivi carenti, per le popolazioni vittime di malnutrizione, nella migliore adattabilità delle colture alle condizioni ambientali di coltivazione, tra cui siccità, aridità dei terreni,  e, infine, nella possibilità di sviluppare coltivazioni in situ, tali da ridurre o azzerare gli ostacoli distributivi, dovuti alla carenza del sistema di infrastrutture. Le obiezioni all’uso degli OGM si concentrano sulla dimensione sanitaria, ambientale e economica. In primo luogo si teme la loro possibile allergenicità, inoltre, mediante il passaggio di geni resistenti agli antibiotici,  si  paventa la riduzione dell’efficacia farmacologica degli antibiotici  per uso umano; dal punto di vista ambientale   è stata sottolineata inoltre la riduzione della biodiversità, pregiudicando la sopravvivenza di specie a causa della migliore  resistenza delle colture gm, più competitive rispetto alle altre colture perché più forti; infine i timori riguardano la probabile  dipendenza  economica  dai produttori  occidentali dalle sementi  GM , una  forma quindi  di nuova  colonizzazione. Sulle obiezioni di  tipo sanitario non ci sono state evidenze scientifiche definitive che abbiano dimostrato il carattere nocivo degli OGM  e  questo dovrebbe   essere sufficiente, non essendo  accettabile la pretesa di dimostrare che un  effetto indesiderato non avvenga. Anzi relativamente ad alcuni dei rischi di carattere sanitario si può   riprendere la raccomandazione secondo cui, come ricorda Balistreri (2006, p. 142) “non solo, infatti, tra gli obiettivi degli interventi di ingegneria genetica c’è proprio quello  di migliorare il valore  nutrizionale dei prodotti, ma i parametri nutrizionali dei prodotti geneticamente modificati devono essere sottoposti a controlli e alle certificazioni previsti già per gli alimenti  non derivati da ogm”. In secondo luogo l’obiezione relativa alla riduzione della biodiversità porta a riconoscere la vaghezza di questo temine, privo di una definizione univoca in ambito scientifico “la valutazione della biodiversità …avviene attraverso l’uso di surrogati.. è una operazione che si rivela carica di valore”. L’ultima obiezione, concernente la dipendenza economica che i coltivatori  subirebbero  nei confronti delle multinazionali è stata più volte discussa e ha visto un crescente protagonismo di scienziati africani, decisi a sviluppare, insieme alle aziende occidentali progetti di ricerca  volti ad evitare che le industrie occidentali  saccheggino il germoplasma locale e lo rivendano agli stessi agricoltori del Terzo mondo: “Se – scrive Anna Meldolesi (2001, p.180) – si riesce invece a giocare alla pari, affermava  già  una decina di anni fa  la biologa keniota Florence Wambugu, e a sfruttare le loro tecnologie per adeguarle ai terreni, agli insetti e ai campi locali, si potrebbe giungere a notevoli risultati”.

Riflessioni morali

Il problema della decisione politica riguardante le scelte aperte dalle biotecnologie assume grande valore, in quanto  la discussione pubblica  si trova a decidere in via prescrittiva gli aspetti insoluti dei saperi descrittivi, a dover in certo modo distinguere tra buona e cattiva scienza. In  questa materia  frequente è il ricorso al principio di precauzione “che obbliga – ricorda Balistreri (2002, p. 228) – di astenersi dal un’azione  che può avere conseguenze dannose per le persone coinvolte … esso  non definisce minimamente la natura del danno che sarebbe in gioco, né indica il grado di probabilità con  cui si rischia di realizzare questo  danno”.  Questo uso retorico  del principio di precauzione nella sua accezione  forte  ricorda quella che Hans Jonas chiamava l’euristica della paura, che rischia di bloccare ogni  forma di innovazione e, proprio in tempi di crisi alimentare, ogni possibile risposta creativa che l’umanità può elaborare alle sfide della sua sopravvivenza. Una critica serrata al principio di precauzione è stata svolta da Bartolommei (2003) che intende “chiarire il malinteso che non distingue tra il legittimo ricorso alla precauzione e la (improbabile) ricerca di un livello zero”. Può essere cioè inteso o come norma assoluta, come limite etico “da contrapporre all’avanzamento scientifico” ovvero come norma procedurale, neutra, intesa come principio meta normativo che permette a individui portatori di concezioni diverse, anche rispetto all’etica ambientale, di incontrarsi e confrontarsi. In questo senso la precauzione non è altro che la scelta caso per caso di strategie alternative di valutazione del rischio e il tipo di precauzione da prendere. A proposito degli OGM l’uso restrittivo di questo principio ha condotto imporre a moratorie sempre più lunghe agli alimenti e alle piantagioni GM.

Questo ci riconduce ad un quesito etico fondamentale, se l’aiuto portato a popoli che versano nel grave problema della sottoalimentazione e/o malnutrizione abbia un carattere etico supererogatorio, cioè sia una questione di beneficenza,  intendendo con questo, come precisa Lecaldano (2002, p. 293) quella “dimensione etica …considerata superiore rispetto a quelli che l’etica tradizionale indicava come obblighi o doveri non giuridici e quindi imperfetti, ..quelle azioni, ad esempio ispirate da benevolenza o carità, che non potevano essere pretese dalla legge” ovvero abbia un carattere strettamente doveroso. Singer in tal senso ha sottolineato il carattere obbligatorio e strettamente morale di tale aiuto, pur ribadendo che esso è accettabile solo nella misura in cui non sia di eccessivo costo per sé. Nella attuale situazione di progresso biotecnologico davvero si può  considerare l’aiuto portato ai paesi del Terzo mondo mediante la diffusione delle colture GM un atto positivo di beneficenza e non già un atto di non maleficenza e quindi un dovere stretto. Possiamo credere realmente che l’omissione di un aiuto fattivo, costituito dall’uso degli Ogm, col coinvolgimento degli attori locali, in  un approccio multidimensionale  che coinvolga le  pratiche colturali autoctone  e l’abbandono di pratiche distruttive, sia una semplice una innocente mancanza di un atto di benevolenza? In termini puramente consequezialisti non possiamo non ritenere  che questa omissione porterebbe delle conseguenze. Più probabilmente è una scelta da cui deriverebbero risultati desiderabili e migliorativi, se certamente combinata con l’analisi della complessità delle singole situazioni economico sociali.  Anche una prospettiva squisitamente politica rinvia a considerazioni analoghe. Molti sono stati negli ultimi  quindici anni i movimenti di resistenza  nella forma delle Primavere arabe e nella costellazione delle lotte antidiscriminatorie e infine nelle recenti proteste in Iran. È stato  affermato con chiarezza dalla FAO che tra i fattori del deterioramento  dei sistemi alimentari emerge il legame tra fame e instabilità politica, quel complesso  circolo vizioso che  salda precarietà, guerre e insicurezza alimentare, in cui ognuno dei fattori alimenta e viene alimentato dall’altro. A  tal proposito Judith Butler (2013), nella sua lunga e articolata analisi delle vite precarie e dei fenomeni di resistenza politica,  fenomeni di giovani  che  riempiono le piazze con le loro proteste e che perdono la vita in mare, descrive vite indegne di essere vissute, perché prive di riconoscimento e  delle  condizioni  materiali minime di sopravvivenza,  vite che, se perdute, non vengono piante,  vite  a cui non spetta nulla. A queste vite  “cattive” si contrappongono vite “buone”, degne e riconosciute. A partire da questa distinzione  in termini di diseguaglianza e visibilità politico esistenziale, la filosofa statunitense conclude che le lotte dei movimenti di protesta attuali non  intendono  superare l’interdipendenza delle nostre vite e la vulnerabilità, ma “rendere visibili queste condizioni di interdipendenza ..attirano  l’attenzione sulle condizioni della sopravvivenza corporea. Posso vivere una vita buona, agiata, confortevole, in cui  i miei bisogni vitali siano soddisfatti,  nel mio dipendere dagli altri. Questo dipendere è necessario al vivere bene. La nostra comune esposizione alla precarietà  non è altro che il terreno condiviso dell’obbligo reciproco  di  produrre  insieme le condizioni di una vita vivibile”.

Riflettere in maniera spregiudicata e libera  sulle condizioni che possono contribuire a superare  la crisi alimentare richiede costituire un punto di vista che non ricada nell’elevazione delle nostre condizioni di vita a condizioni universali, pena il ricadere in prospettive  etnocentriche, e farsi   carico della complessità delle vite precarie a cui  dare risposta.  Considerare le conseguenze delle nostre scelte pubbliche, non può esimerci dal configurare le conseguenze desiderabili sia in termini di  massima felicità conseguibile, sia in termini di interdipendenza.

BIOTECNOLOGIE ENDOXA - BIMESTRALE FILOSOFIA

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