FAME E CIBO DI FRANKENSTEIN E INTERDIPEDENZA
ELENA DI LIBERTO
- Siamo per lo più tutti convinti che lavoriamo per guardagnarci da vivere, e questo fa di noi dei lavoratori e delle lavoratrici. Il processo del lavoro, e il consumo dei suoi risultati, è imposto dalle necessità basilare della vita, che risponde alla vita riproduttiva. È sotto gli occhi di tutti che tali necessità, e in primo logo , la disponibilità dei beni alimentari, non trova a una risposta equamente distribuita. Molti sono i paesi del mondo che soffrono ancora di insicurezza alimentare e ben 823 milioni di persone hanno subito la fame nel corso del 2021). Fin dagli ultimi decenni del Novecento è stata denunciata la gravità della situazione alimentare nei paesi in via di sviluppo. Il Rapporto globale sulle crisi alimentari evidenzia la crescente ampiezza e gravità delle crisi alimentari del 2020 e le fosche prospettive per il 2021. Il World Food Programme avverte che 41 milioni di persone sono “sull’orlo della carestia”. L’agenda 2030 ha individuato, di conseguenza, il secondo obiettivo proprio nel traguardo Zero fame entro il 2030, articolato nei sottobiettivi, da garantire accesso sicuro e nutriente per tutto l’anno a tutte le persone e soprattutto ai più vulnerabili, azzerare le forme di malnutrizione, dando risposta alle esigenze nutrizionali di bambini, ragazze adolescenti, facilitare l’accesso al consumo di cibo ai piccoli produttori di cibo, proteggere ecosistemi che riescono a rispondere a nuove condizioni metereologiche. Alla luce di questa premessa è preoccupante, in conclusione, la previsione della Fao, nel recente Rapporto sullo Stato di sicurezza alimentare nel mondo 2022, secondo cui “Ormai mancano solo otto anni al 2030…. La distanza per raggiungere molti degli obiettivi dell’SDG 2 ( Sustainable Developemnets Goal) aumenta di anno in anno…Ci sono sforzi per compiere progressi verso l’SDG 2, ma si stanno rivelando insufficienti di fronte a un contesto più difficile e incerto”.
1.2 È un dato puramente empirico che le necessità nutrizionali sono variabili secondo il sesso, l’età, la latitudine, l’attività lavorativa. Tuttavia è chiaro che una gran parte della popolazione mondiale, non riesce a soddisfare il fabbisogno minimo, fissato ordinariamente in 2500 calorie. Per fame intendiamo qui la disponibilità alimentare di meno di 1800 calorie giornaliere. All’aspetto quantitativo bisogna accostare quello qualitativo. Molteplici sono le forme di malnutrizione, quella secondaria dovuta all’incapacità di digerire e assorbire cibo a causa di varie malattie, la malnutrizione macronutritiva, l’insufficiente apporto calorico che produce debilitazione fisica, malnutrizione micronutritiva, l’insufficienza di alcuni componenti specifici responsabili dello scarso sviluppo mentale e fisico. La rilevazione della fame e delle sue declinazioni si serve di un indicatore complesso, il global hungry index , costituito da quattro indici, derivanti dalla misurazione in percentuale dei seguenti valori di ciascun Paese: popolazione con insufficiente assunzione calorica (denutrizione), bambini sotto i cinque anni con un peso insufficiente per la loro altezza (indice di sottonutrizione acuta), bambini sotto i cinque anni con altezza insufficiente per la oro età (sottonutrizione cronica), tasso di mortalità di bambini sotto i cinque anni, determinato dalla combinazione di ambienti insalubri e alimentazione insufficiente. Da qui la classificazione dei Paesi secondo diversi livelli, da basso a moderato, a grave, ad allarmante, fino a estremamente allarmante.
1.2 Obiettivi. Entro tale quadro politico e sociale questo contributo si pone la questione se l’introduzione degli OGM possa costituire dei possibili vantaggi in aree del mondo in cui è ancora grave il problema del sistema alimentare, prendendo in considerazione poi le obiezioni rivolte alla loro adozione e, infine riflettendo sulle considerazioni etiche che sono qui in gioco per capire infine se siamo moralmente tenuti a una scelta sull’introduzione degli OGM.
Riflettere sugli Ogm in termini di possibile risposta alla questione della fame è rilevante in quanto la loro adozione non costituisce un atto puramente tecnico. Entro la concezione di una scienza che ritiene di non potere pervenire a risposte definitive e unilaterali e che ammette l’incertezza e la provvisorietà dei suoi risultati , seguendo su questo le più avvedute teorie epistemologiche, da Dewey a Popper a Kuhn, emerge da un lato la rilevanza del confronto politico tra decisori, comunità coinvolte e scienziati e dall’altro la riflessione sulla libertà e responsabilità di ciascuno e ciascuna. Prevede perciò una dimensione politica ed etica.
Biotecnologie come cibo di Frankenstein? Aspettative e rischi
Le biotecnologie OGM consistono nel trasferimento di parti del genoma, cioè di segmenti dell’informazione genetica, da un organismo all’altro, introducendo così un gene estraneo all’individuo modificato. Questo trasferimento può utilizzare geni di organismi della stessa specie o di altre specie. Perciò sono detti transgenici: da qui i cibi transgenici cioè derivati da organismi geneticamente modificati. Il motore della ricerca in questo campo è stato proprio quello di trovare nuove soluzioni ai problemi dell’alimentazione, realizzando coltivazioni che avessero una resistenza genetica a particolari condizioni ambientali.
Recentemente il dibattitto sugli OGM, è stato riacceso anche dall’iniziativa del governo del Kenya che ha deciso di includerli nel suo sistema alimentare. La decisione suscita nuovamente il dibattito tra coloro i cui maggiori timori ruotano intorno alle questioni di sicurezza della salute umana, ai controversi legami di dipendenza economica dei coltivatori dei PVS dalle multinazionali alimentari e infine delle conseguenze in termini di integrità ambientale. Senza addentrarsi troppo nel lungo e articolato dibattito in merito possiamo sintetizzare le principali argomentazioni a favore dell’uso degli OGM nell’ accresciuta disponibilità alimentare attesa, nella possibilità di produrre alimenti arricchiti di elementi nutritivi carenti, per le popolazioni vittime di malnutrizione, nella migliore adattabilità delle colture alle condizioni ambientali di coltivazione, tra cui siccità, aridità dei terreni, e, infine, nella possibilità di sviluppare coltivazioni in situ, tali da ridurre o azzerare gli ostacoli distributivi, dovuti alla carenza del sistema di infrastrutture. Le obiezioni all’uso degli OGM si concentrano sulla dimensione sanitaria, ambientale e economica. In primo luogo si teme la loro possibile allergenicità, inoltre, mediante il passaggio di geni resistenti agli antibiotici, si paventa la riduzione dell’efficacia farmacologica degli antibiotici per uso umano; dal punto di vista ambientale è stata sottolineata inoltre la riduzione della biodiversità, pregiudicando la sopravvivenza di specie a causa della migliore resistenza delle colture gm, più competitive rispetto alle altre colture perché più forti; infine i timori riguardano la probabile dipendenza economica dai produttori occidentali dalle sementi GM , una forma quindi di nuova colonizzazione. Sulle obiezioni di tipo sanitario non ci sono state evidenze scientifiche definitive che abbiano dimostrato il carattere nocivo degli OGM e questo dovrebbe essere sufficiente, non essendo accettabile la pretesa di dimostrare che un effetto indesiderato non avvenga. Anzi relativamente ad alcuni dei rischi di carattere sanitario si può riprendere la raccomandazione secondo cui, come ricorda Balistreri (2006, p. 142) “non solo, infatti, tra gli obiettivi degli interventi di ingegneria genetica c’è proprio quello di migliorare il valore nutrizionale dei prodotti, ma i parametri nutrizionali dei prodotti geneticamente modificati devono essere sottoposti a controlli e alle certificazioni previsti già per gli alimenti non derivati da ogm”. In secondo luogo l’obiezione relativa alla riduzione della biodiversità porta a riconoscere la vaghezza di questo temine, privo di una definizione univoca in ambito scientifico “la valutazione della biodiversità …avviene attraverso l’uso di surrogati.. è una operazione che si rivela carica di valore”. L’ultima obiezione, concernente la dipendenza economica che i coltivatori subirebbero nei confronti delle multinazionali è stata più volte discussa e ha visto un crescente protagonismo di scienziati africani, decisi a sviluppare, insieme alle aziende occidentali progetti di ricerca volti ad evitare che le industrie occidentali saccheggino il germoplasma locale e lo rivendano agli stessi agricoltori del Terzo mondo: “Se – scrive Anna Meldolesi (2001, p.180) – si riesce invece a giocare alla pari, affermava già una decina di anni fa la biologa keniota Florence Wambugu, e a sfruttare le loro tecnologie per adeguarle ai terreni, agli insetti e ai campi locali, si potrebbe giungere a notevoli risultati”.
Riflessioni morali
Il problema della decisione politica riguardante le scelte aperte dalle biotecnologie assume grande valore, in quanto la discussione pubblica si trova a decidere in via prescrittiva gli aspetti insoluti dei saperi descrittivi, a dover in certo modo distinguere tra buona e cattiva scienza. In questa materia frequente è il ricorso al principio di precauzione “che obbliga – ricorda Balistreri (2002, p. 228) – di astenersi dal un’azione che può avere conseguenze dannose per le persone coinvolte … esso non definisce minimamente la natura del danno che sarebbe in gioco, né indica il grado di probabilità con cui si rischia di realizzare questo danno”. Questo uso retorico del principio di precauzione nella sua accezione forte ricorda quella che Hans Jonas chiamava l’euristica della paura, che rischia di bloccare ogni forma di innovazione e, proprio in tempi di crisi alimentare, ogni possibile risposta creativa che l’umanità può elaborare alle sfide della sua sopravvivenza. Una critica serrata al principio di precauzione è stata svolta da Bartolommei (2003) che intende “chiarire il malinteso che non distingue tra il legittimo ricorso alla precauzione e la (improbabile) ricerca di un livello zero”. Può essere cioè inteso o come norma assoluta, come limite etico “da contrapporre all’avanzamento scientifico” ovvero come norma procedurale, neutra, intesa come principio meta normativo che permette a individui portatori di concezioni diverse, anche rispetto all’etica ambientale, di incontrarsi e confrontarsi. In questo senso la precauzione non è altro che la scelta caso per caso di strategie alternative di valutazione del rischio e il tipo di precauzione da prendere. A proposito degli OGM l’uso restrittivo di questo principio ha condotto imporre a moratorie sempre più lunghe agli alimenti e alle piantagioni GM.
Questo ci riconduce ad un quesito etico fondamentale, se l’aiuto portato a popoli che versano nel grave problema della sottoalimentazione e/o malnutrizione abbia un carattere etico supererogatorio, cioè sia una questione di beneficenza, intendendo con questo, come precisa Lecaldano (2002, p. 293) quella “dimensione etica …considerata superiore rispetto a quelli che l’etica tradizionale indicava come obblighi o doveri non giuridici e quindi imperfetti, ..quelle azioni, ad esempio ispirate da benevolenza o carità, che non potevano essere pretese dalla legge” ovvero abbia un carattere strettamente doveroso. Singer in tal senso ha sottolineato il carattere obbligatorio e strettamente morale di tale aiuto, pur ribadendo che esso è accettabile solo nella misura in cui non sia di eccessivo costo per sé. Nella attuale situazione di progresso biotecnologico davvero si può considerare l’aiuto portato ai paesi del Terzo mondo mediante la diffusione delle colture GM un atto positivo di beneficenza e non già un atto di non maleficenza e quindi un dovere stretto. Possiamo credere realmente che l’omissione di un aiuto fattivo, costituito dall’uso degli Ogm, col coinvolgimento degli attori locali, in un approccio multidimensionale che coinvolga le pratiche colturali autoctone e l’abbandono di pratiche distruttive, sia una semplice una innocente mancanza di un atto di benevolenza? In termini puramente consequezialisti non possiamo non ritenere che questa omissione porterebbe delle conseguenze. Più probabilmente è una scelta da cui deriverebbero risultati desiderabili e migliorativi, se certamente combinata con l’analisi della complessità delle singole situazioni economico sociali. Anche una prospettiva squisitamente politica rinvia a considerazioni analoghe. Molti sono stati negli ultimi quindici anni i movimenti di resistenza nella forma delle Primavere arabe e nella costellazione delle lotte antidiscriminatorie e infine nelle recenti proteste in Iran. È stato affermato con chiarezza dalla FAO che tra i fattori del deterioramento dei sistemi alimentari emerge il legame tra fame e instabilità politica, quel complesso circolo vizioso che salda precarietà, guerre e insicurezza alimentare, in cui ognuno dei fattori alimenta e viene alimentato dall’altro. A tal proposito Judith Butler (2013), nella sua lunga e articolata analisi delle vite precarie e dei fenomeni di resistenza politica, fenomeni di giovani che riempiono le piazze con le loro proteste e che perdono la vita in mare, descrive vite indegne di essere vissute, perché prive di riconoscimento e delle condizioni materiali minime di sopravvivenza, vite che, se perdute, non vengono piante, vite a cui non spetta nulla. A queste vite “cattive” si contrappongono vite “buone”, degne e riconosciute. A partire da questa distinzione in termini di diseguaglianza e visibilità politico esistenziale, la filosofa statunitense conclude che le lotte dei movimenti di protesta attuali non intendono superare l’interdipendenza delle nostre vite e la vulnerabilità, ma “rendere visibili queste condizioni di interdipendenza ..attirano l’attenzione sulle condizioni della sopravvivenza corporea. Posso vivere una vita buona, agiata, confortevole, in cui i miei bisogni vitali siano soddisfatti, nel mio dipendere dagli altri. Questo dipendere è necessario al vivere bene. La nostra comune esposizione alla precarietà non è altro che il terreno condiviso dell’obbligo reciproco di produrre insieme le condizioni di una vita vivibile”.
Riflettere in maniera spregiudicata e libera sulle condizioni che possono contribuire a superare la crisi alimentare richiede costituire un punto di vista che non ricada nell’elevazione delle nostre condizioni di vita a condizioni universali, pena il ricadere in prospettive etnocentriche, e farsi carico della complessità delle vite precarie a cui dare risposta. Considerare le conseguenze delle nostre scelte pubbliche, non può esimerci dal configurare le conseguenze desiderabili sia in termini di massima felicità conseguibile, sia in termini di interdipendenza.
BIOTECNOLOGIE ENDOXA - BIMESTRALE FILOSOFIA CIBO/FOOD Elena Di Liberto Endoxa marzo 2023