MANGIARE È UN ATTO AGRICOLO

2808759067_de40a54f47_bMARTINO BELLINCAMPI

Mangiare è un atto agricolo è il titolo dell’edizione italiana del libro di Wandell Berry pubblicato nel 2009 negli USA con il titolo Bringing It to the Table: On Farming and Food. Si tratta di una raccolta di saggi scritti a partire dagli anni ‘70 che rappresenta sia un manifesto politico, sia un insieme di concrete informazioni e riflessioni utili a realizzare quanto ciò che mangiamo venga dal campo, abbia quindi un impatto sulla natura e come sia necessario mantenere attivo il legame tra noi che mangiamo e il luogo e le modalità di produzione del cibo che ingeriamo; un legame fatto di consapevolezza, scelte e azioni in capo ad ognuno di noi.

Da ormai almeno 60 anni, la rappresentazione della nostra società è ambientata nelle città, dove non ci sono spazio né tempo per occuparsi di ciò che mangiamo. Non abbiamo più tempo di andare ad acquistarlo e di cucinarlo, figuriamoci di coltivarlo. Così dimentichiamo che siamo fatti di ciò che mangiamo e che ciò che mangiamo è un prodotto della terra. L’industria ha intercettato l’opportunità commerciale di soddisfare l’esigenza di ridurre al massimo lo sforzo dell’individuo per assicurarsi il nutrimento quotidiano. Il cibo elaborato in processi industriali arriva nelle nostre case già pronto per essere velocemente cotto o riscaldato nel microonde. Ci allontaniamo così da un fatto essenziale: curarsi di noi procurandoci il nostro cibo quotidiano.

L’industria ci illude di essere capace di occuparsi di noi sul piano alimentare, di farci spendere meno, di cibarci in modo equilibrato, gustoso e sicuro. Eppure ci ha abituato a mangiare zucchine tutto l’anno, a non riconoscere il pollo dal tacchino, a spendere meno di un euro per un chilo di pasta. 

Il costo può essere una lente lucida per comprendere perché il cibo non possa essere industriale. L’abbattimento dei costi che l’industria garantisce contro il produttore artigianale si basa essenzialmente su due fattori: lo sfruttamento della manodopera a basso costo ed enormi volumi di produzione grazie alla standardizzazione dei processi. Tralasciando il primo punto – solo perché il focus dell’articolo non sono le politiche sul lavoro ma la salubrità del cibo – e ricordando i numerosi reportage a proposito dell’allevamento dei pesci, dei polli, dei maiali, della coltivazione dei pomodori, della soia, del grano etc (potremmo continuare per un bel po’, purtroppo), dobbiamo comprendere la distanza siderale tra come immaginiamo il processo ideale di allevamento o coltivazione dell’essere vivente destinato a diventare cibo e quello che l’industria è obbligata ad implementare per mantenere le promesse di gusto, prezzo e reperibilità. Allevare in campagna qualche maiale dalla nascita alla macellazione e dal suo nutrimento allo smaltimento degli escrementi corrisponde alla favoletta della fattoria dei nostri nonni. Assicurare una bistecca di collo di maiale sempre con lo stesso sapore, pezzatura e percentuale di grasso a meno di 9 euro al chilo significa allevare migliaia di maiali in serie e nello stesso luogo. Lo smaltimento degli escrementi? L’approvvigionamento del cibo con la composizione chimica esatta per garantire il risultato atteso? Come possiamo non considerare l’impatto ambientale dei processi produttivi industriali? Mentre mangiamo quella bistecca, abbiamo in mente cosa stiamo mangiando? O pensiamo alla fattoria dei nostri nonni? E non parliamo del cosiddetto benessere dell’animale, condannato a vivere una vita orribile prima di finire macellato – chi scrive è tutt’altro che vegetariano.

Il processo produttivo che permette ad un esercizio commerciale in piena città di vendere un’orata a € 9/kg, un pollo a € 6/kg, dei pomodori a € 1/kg tutto l’anno o la passata di pomodoro a pochi centesimi di euro è tutt’altro che sostenibile, giusto, accettabile, umano. Quei prodotti non sono quello che pensiamo.

Se ci occupiamo di ciò che mangiamo, dedicando del tempo a lavare e capare le verdure acquistate al mercato o in azienda agricola, andando ad incontrare piccoli allevatori per comprarne la carne e conoscere la loro storia o prediligendo una dieta a base di verdure di stagione, probabilmente stiamo sostenendo una filiera produttiva che assomiglia a quella che il genere umano ha adottato per migliaia di anni e che oggi sappiamo essere quella giusta sotto il profilo ambientale, sociale e di salubrità.

Una parentesi la meriterebbe la questione della sovrappopolazione mondiale, della crescente necessità di cibo e della conseguente tesi per cui il cibo debba essere necessariamente industriale per scongiurare fame e carestie. In questa sede ci occupiamo delle scelte individuali nel qui ed ora, lasciando alle organizzazioni internazionali e alla scienza l’arduo compito di salvare il genere umano nel futuro.

Grassi, dolci, salati: Come l’industria alimentare ci ha ingannato e continua a farlo

Micheal Moss, premio Pulitzer e giornalista investigativo de The New York Times, nel 2013 pubblica questo libro dove spiega come l’industria alimentare statunitense dagli anni ‘90 sia sotto accusa per i danni sull’alimentazione dei suoi concittadini. Per garantire soddisfazione e fidelizzazione dei clienti è necessario dosare al meglio zucchero, grasso e sale. Non serve una materia prima buona, di per sé saporita o ben fatta. Lo zucchero addolcisce, aggiunge volume e migliora la consistenza; i grassi esaltano la sensazione al palato; il sale assicura la magia in bocca. I cibi industriali vengono progettati a tavolino da chimici ed esperti di marketing, contando su materie prime, benché povere di sapore, sempre identiche a loro stesse nel tempo e nello spazio. Il libro racconta anche aneddoti curiosi come quello che non solo nella ricetta segreta dell’hamburger di McDonald’s sia compreso lo zucchero, ma come la sua dose negli anni cresca costantemente perché i nostri palati ne sono sempre più assuefatti e ne richiedano sempre di più per trarne soddisfazione.

Oggi la situazione è migliore che negli anni ‘90 perché anche grazie ai movimenti ambientalisti (con buona pace del sindaco Nardella), l’opinione pubblica richiede un’attenzione all’impatto ambientale che solo 10 anni fa sarebbe stata impensabile – e che comunque è ancora completamente insufficiente per pensare di salvare il nostro globo terracqueo (semicit.).

Gli SDGs dell’ONU, le certificazioni biologiche, il bilancio sociale d’impresa sono alcuni esempi di come l’industria sia stata portata a porsi domande sui processi produttivi e ad abbracciare sistematicamente il rispetto dell’ambiente. Curiosando tra gli scaffali di un supermercato si noteranno molte confezioni di colore verde, molti payoff inneggianti la natura, l’artigianalità e la sostenibilità. E anche molti cibi dotati di certificazioni biologiche.

Certamente oggi l’industria è più sostenibile di qualche decennio fa: le certificazioni biologiche – esistono tante e diverse certificazioni, in Italia e all’estero, dunque occorre trattare il concetto al plurale – garantiscono un certo rispetto della natura nella fase agricola del processo produttivo; nei supermercati c’è più scelta grazie a prodotti con prezzi competitivi che rispettano standard qualitativi migliori di altri – “prodotto in Italia” non significa assolutamente niente, basti ricordare la nota marca di concentrato di pomodoro che usa pomodori cinesi lavorati in Marocco, diluisce il preparato in Italia e lo dichiara così italiano. Oggi il consumatore può mangiare meglio di quando si mangiavano scatolette di carne nella gelatina, formaggi filanti in fogli avvolti nella plastica o polli OGM con petti così gonfi da non riuscire a reggersi in piedi. Questi fenomeni non sono finiti, purtroppo, e anzi rappresentano ancora la maggioranza del cibo prodotto e consumato in occidente. La tendenza generale però è a favore di un’attenzione generale al prodotto e all’ambiente. Non siamo più negli anni ‘80. Quindi bene.

Il problema oggi è rappresentato dalla confusione generata dalla moda della comunicazione green e dalla conseguente difficoltà di discernimento per il consumatore tra un cibo artigianale e un prodotto alimentare industriale. Mangiamo meglio dell’altro ieri, ma è meno chiaro di ieri cosa stiamo mangiando.

Un pollo OGM probabilmente non lo compriamo più a favore di un pollo biologico allevato a terra. Forse però confondiamo questo secondo pollo con quello che ci portavano dalla fattoria di campagna di qualche parente. Dobbiamo starci attenti, perché si tratta comunque di due campionati (tre, a questo punto) completamente diversi.

Whole Foods è quella catena statunitense di super qualità bio che si vede in tanti film e serie televisive. Tutto è sfuso, buonissimo e sembra di stare dalla nostra vecchia NaturaSì (quando era un po’ fricchettona) seppur a misura USA. Nel 2017 Amazon compra l’intero business per 13,6 miliardi di dollari e la prima azione che fa è abbassare tutti i prezzi del 50% per “rendere accessibile a tutti un’alimentazione di qualità”. Non serve essere del settore per capire che l’effetto immediato di questa azione è l’aumento della base clienti includendo segmenti di popolazione nuovi. Bene! Il problema è che quello di medio periodo è, all’opposto, l’adeguamento dell’offerta Whole Foods alla domanda che serve. Nel breve molti mangeranno pollo migliore di prima, perché allo stesso prezzo di un pollo OGM che avrà campato 45 forse giorni, compreranno un pollo certificato biologico allevato a terra. Nel medio, però, il produttore di pollo bio si organizzerà per stare nei prezzi imposti e garantirsi i margini necessari a salvare l’attività; modificherà la produzione per incontrare il gusto dei suoi nuovi clienti, abituati a mangiare più spesso il petto che a lavorare a casa l’animale intero.
Abbiamo assistito qui in Italia allo sviluppo, la diffusione e la crescita su tutto il territorio nazionale di NaturaSì (e meno male!). Ma vi ricordate NaturaSì 15 anni fa com’era più estremo duro e puro?

Oggi è meglio di prima, domani probabilmente sarà meglio di oggi (speriamo!). Ricordiamoci però che non basta che la bottiglia di olio d’oliva del supermercato sia di colore verde e citi parole come natura, salute, sostenibilità, riciclato, artigianale perché quell’olio assomigli a quello che un contadino serio nella propria campagna produce per sé: curando gli alberi uno ad uno senza agenti chimici, rischiando la produzione per eventuali infezioni, cogliendo le olive di persona e molendole nel giro di poche ore senza additivi, filtrazioni e senza muovere olive e olio per migliaia di chilometri.
Un olio per dirsi tale dev’essere frutto di un lavoro artigianale, che osservi criteri di sostenibilità e rispetto per l’ambiente, che esalti ciò che la pianta e quel territorio hanno da dirci. E così tutto il cibo.

Più l’industria diventa efficace nell’azzeccare il gusto del consumatore, più diventa coerente con criteri di sostenibilità e più l’alimentazione delle persone migliorerà. E questo è un bene.
Ma tutte le volte che possiamo, evitiamo di scegliere l’industria per darci da mangiare. È la domanda giusta posta al soggetto sbagliato, dunque la risposta non può che essere sbagliata.

Vini naturali d’Italia. Manuale del bere sano

Stavolta si tratta di un libro pubblicato in più volumi, edito da Edizione Estemporanee nel 2015 e scritto da Giovanni Bietti, noto musicologo impegnato soprattutto nella divulgazione della musica classica. Il primo concetto da affrontare è che il vino ha cambiato funzione e ruolo; dall’essere un alimento che accompagna il pasto della società contadina di 50 anni fa, oggi il vino è un atto estetico: facciamo un aperitivo con un calice in un bistrot, regaliamo una bella bottiglia a un’amica, ne stappiamo una per celebrare un’occasione.

Fino a qualche decennio fa, il vino aveva la funzione di dare sostanza e nutrimento. Completava la dieta quotidiana, era parte integrante delle tavole a tutti i livelli sociali e culturali. Come tale, era portatore di energia e forza analogamente ad un pezzo di carne o un caffè. Nelle famiglie a stretto contatto con l’agricoltura, era autoprodotto o acquistato sfuso e imbottigliato in casa. Si beveva abitualmente il vino dell’annata corrente, quasi mai si attendeva l’invecchiamento in botte o bottiglia.

Da qualche decennio il vino è diventato al contrario un’eccezione, un elemento di straordinarietà e sovente l’occasione per dimostrare a se stessi e agli altri stima, riconoscenza o affetto. Il vino si colleziona, si valuta in apposite guide, si discute nei blog di settore.

Il passaggio da alimento ad atto estetico è coinciso con altre due innovazioni: il marketing e la tecnologia enologica. Il vino non è più sfuso e prodotto in famiglia; viene venduto in enoteca (più spesso al supermercato) in una bottiglia. La trasformazione in prodotto commerciale determina l’intervento del marketing per massimizzare i profitti, aumentare le vendite, fidelizzare la clientela, allargare il mercato conquistando nuove tipologie di consumatori. Il marketing prende possesso del sistema enologico e inizia ad addestrare i consumatori ad apprezzare alcune caratteristiche peculiari. Crea la domanda di intenditori, collezionisti, consumatori abituali o acquirenti per regalo o rappresentanza. Da alimento quotidiano presente nelle famiglie e spesso come sfuso, si passa alla bottiglia in formato monouso (la 750cc è adatta per una singola occasione) che viene dotata di un’identità di prodotto commerciale esclusivo. Identità costituita da caratteristiche che rendono il vino un prodotto diverso da tutti gli altri generi alimentari: il prezzo, molto più alto dello sfuso dei nostri nonni; l’uvaggio, una proxy di valore e di gusto in bocca e al naso; il processo produttivo qualificato da specifici metodi, da innovazione e ricerca, tradizione e tecnica; e il territorio, che rinforza il potere evocativo di qualità (si pensi alla Toscana, su tutte) creando sinergie positive con lo sviluppo turistico.

Il vino diventa un business molto significativo: in Italia (come in Francia) si produce vino costoso che viene esportato in tutto il mondo generando filiere sino a quel momento inesistenti o microscopiche in termini economici. Il vino è un prodotto commerciale di massa, costoso, esclusivo. Per il marketing non poteva configurarsi uno scenario migliore nel quale affinare le tecniche, dettare le regole, consolidare profili cliente, prodotti e strategie promozionali.

Il secondo cambiamento: la tecnica enologica. Il vino non è un prodotto spontaneo della natura, non sgorga da fonti naturali né è privo di influenza umana. Le mele crescono spontaneamente sugli alberi, i pesci sono buonissimi da mangiare così come sono, l’uva non diventa vino senza l’intervento umano. Tra la fine degli anni ‘80 e i ‘90 si sviluppa la consapevolezza che certe caratteristiche del vino piacciono più di altre. Certi tipi di vini hanno più successo di altri sul mercato, stratificato in cluster geografici, anagrafici, culturali, di censo etc. Si focalizza che il rosso floreale con note di legno in bocca piace al consumatore abituale con media capacità di spesa poco esperto ma appassionato o che il bianco aromatico funziona meglio con il genere femminile tanto più se per aperitivo – è tutto molto più complesso e dinamico di questa rappresentazione esemplificativa.

Il problema – che la tecnica enologica risolverà egregiamente – è che il vino, per quanto frutto di un’elaborazione artificiale dell’uomo, parte dalla terra e ne è indelebilmente e profondamente influenzato. Annate calde o fredde, posizione geografica delle singola parcella e caratteristiche della pianta sono solo alcuni dei fattori che rendono impossibile standardizzare il vino come prodotto. L’enologo entra in gioco per centrare la perfetta combinazione tra aspettativa del mercato e natura. In cantina è possibile indirizzare la fermentazione attraverso i lieviti selezionati, l’uso dei solfiti e il controllo della temperatura. È semplice correggere acidità e sapore con tante tecniche invasive. L’enologo, grazie all’uso di additivi chimici, può creare come un demiurgo il sapore atteso dal cliente, accontentando l’intera filiera.

Il piccolo particolare che viene dimenticato ha una doppia faccia: artefare il vino con sostanze chimiche significa da una parte rendere meno salubre un alimento che viene ingerito e quindi metabolizzato dal corpo umano, dall’altra standardizzare la produzione per rendere l’industria più efficace. La standardizzazione passa attraverso tutto: dall’uso di pesticidi in campo all’eliminazione della biodiversità in vigna; dall’espiantazione di vitigni autoctoni meno performanti o apprezzati a vantaggio degli internazionali più produttivi e conosciuti all’omologazione delle diverse annate per non deludere i consumatori finali.

L’enologia si mette al servizio del marketing per creare in laboratorio il vino perfetto per essere commercializzato. Il vino diventa industriale, cioè sempre uguale a se stesso, difficile da digerire, lontano dalla sua vocazione di vettore di racconto della terra.

Nasce per questo in Francia un movimento a sostegno del vino naturale, la cui definizione è impossibile perché privo di un disciplinare condiviso o di una normativa – come invece nel caso del vino biologico o biodinamico. Il movimento professa un approccio puro in vigna, senza uso di agenti chimici a proteggere le piante e lasciando la vegetazione crescere tra i filari, e poco interventista in cantina, escludendo la selezione dei lieviti, la filtrazione, il controllo della temperatura o l’aggiunta di additivi. I vini naturali sono diventati negli ultimi anni un trend, per quanto di nicchia, emergente e molto attenzionato dalla gastronomia gourmet e da fasce di popolazione più giovani e innovative.
Tanto il fenomeno si è diffuso che i pionieri del vino naturale non si definiscono più vignaioli naturali – come fa la sinistra scissionista – con però l’effetto positivo che sempre più persone stanno ricominciando a bere bene, in modo salubre, preferendo anche nel vino l’artigiano all’industria. Speriamo bene.

Post Scriptum: memorie di un ex imprenditore della ristorazione

La ristorazione è un mestiere faticosissimo, dov’è facilissimo cedere all’industria per rendere più facile il proprio lavoro quotidiano. L’industria è bravissima a farti faticare meno, guadagnare di più, rendere più felici i tuoi clienti. L’artigiano è un disastro: non consegna, non ti assicura la fornitura in modo regolare, costa il triplo, fa il prezioso. Chi gestisce un ristorante e decide di evitare completamente o in modo significativo il cibo industriale è decisamente un eroe. Ovviamente è più eroico chi lo fa proponendo cucina facile, inclusiva e a buon mercato di chi lo fa in uno stellato – che comunque, anche per gli stellati, si tratta di eroiche eccezioni!

Ciò che mi preme sottolineare è di non affidarsi al palato. Perché un cuoco è capace di farvi godere usando materie prime scadenti e/o industriali grazie all’uso di sale, zucchero e al gioco delle consistenze.
Le materie prime artigianali costano tanto più di quelle industriali e un ristorante è un’attività profit che deve marginare. Se dovete mangiare fuori, non cercate di spendere poco ma cercate persone appassionate e di sani valori. Ne va della vostra salute, di quella del pianeta e del rispetto di moltissimi lavoratori.

Vegetables in Whole Foods Market” by Masahiro Ihara is licensed under CC BY 2.0.

BIOTECNOLOGIE ENDOXA - BIMESTRALE SCIENZE NATURALI

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