GRAN TORINO: TRATTARE CON CURA

grantorinoEUSEBIO CICCOTTI

  1. L’incuria della famiglia

 

Già nella scena del funerale, siamo nell’incipit del film (Gran Torino, 2008, regia di Clint Eastwood), i figli e i nipoti mostrano un atteggiamento di non rispetto verso la defunta, ossia la nonna, Dorothy, la moglie del protagonista, l’anziano Walter (Walt) Kowalski (Eastwood). Soprattutto la ragazza, presentatasi alla cerimonia religiosa con la pancia scoperta, piercing e masticando un chewing gum. Durante il rinfresco, dopo le esequie di rito cattolico, sia i due figli, che le rispettive mogli e i figli (tutti vivono lontano dall’anziano padre, in un’altra città del Michigan), non si preoccupano del momento difficile che attraversa Walter.

La ragazza, infilatasi in garage per fumare, “scopre” l’auto Gran Torino, coperta da un telo protettivo, ben conservata, e chiede al nonno Walter, appena entrato lì per cercare un momento di tranquillità: «Nonno, che auto! Quando l’hai presa?». «Nel 1972, non eri ancora nata». «Cosa ci farai ehm, quando muori?».  «E anche quel fichissimo divanetto che hai nella tua tana, il prossimo anno vado al college, ci starebbe bene nella mia stanza». Walter/Eastwood ascolta, offeso, lancia uno sguardo di difficile sopportazione, da western, ma non replica. Piega la testa sul lato destro e lentamente sputa, come segno di contrarietà, sul pavimento del garage. È evidente che l’adolescente è cresciuta ascoltando discorsi in famiglia relativi a un vecchio che deve sbrigarsi a togliersi di mezzo, un ingombro, uno di cui non ci si prende cura.

Alcuni giorni dopo, il figlio maggiore, Mitch, e la moglie, torneranno a fargli visita, per il suo compleanno. Oltre alla torta, gli regalano un telefono da tavolo con grandi numeri; un bastone-pinza per prendere gli oggetti dagli scaffali alti. Insomma, lo ritengono non autosufficiente e gli propongono di andare in una casa per anziani. ll loro prendersi falsamente cura di Walter irrita l’uomo, che probabilmente risponde per le rime: ma non sappiamo come, visto che Eastwood, sapientemente, ellitticamente, mostra i due uscire di fretta dalla casa e poi in auto mentre delusi e  arrabbiati commentano il modo in cui sono stati allontanati.

  1. La cura malata della memoria

Walter non riesce a dimenticare il suo passato di fante nella guerra di Corea. Difende la sua esistenza nella periferia di Detroit, in una area degradata a forte immigrazione, dalla invasione dei «musi gialli» che riempiono il “suo” quartiere. Delimita il “suo” spazio vitale, casa e giardino, con la bandiera americana issata sul pennone della porta di casa. Difende le “sue” abitudini godendosi il sole del tramonto e bevendo birra. Walter ha accanto la sua fedele cagna, Daisy.

È un uomo che si prende cura della sua esistenza nel modo meno corretto, barricandosi in casa e odiando i vicini «musi gialli». Difende la sua memoria di soldato usando le armi di fronte alla prima criticità. Cura con precisione maniacale la sua auto Gran Torino 1972, tirandola ogni tanto fuori dal garage e lavandola.

Deluso dal mondo e dai parenti, razzista nei confronti dello straniero, ripone il suo affetto comunicativo, per quanto concerne gli esseri viventi, solo sulla sua cagna, Daisy. Una cura, purtroppo, egoistica, chiamata a riempire un vuoto esistenziale.

Ma in realtà Walter Kowalski vive nella in-curia di sé stesso. Mangia male, non ha rapporti con i vicini, nessuna colleganza affettiva con i due figli e le rispettive famiglie. I parenti lo vedono come un vecchio scontroso, bramosi di ereditare qualcosa dopo la sua morte. La non cura di se stesso è dovuta, probabilmente, anche a un tumore ai polmoni che si fa pian piano più presente: lo spettatore scopre che egli ha una tosse dispettosa, che poi lo porterà a espettorare catarro e sangue.

Walter, rifiutandosi di vedere il mondo che ha davanti, si chiude a una sana Weltanschauung, si impedisce quello sguardo limpido che consentirebbe al soggetto «di abbracciare il mondo, anzi penetrarlo, ma in par tempo esserne libero» (R. Guardini, La visione cattolica del mondo, p. 29)

  1. La confessione laica al pub

Il giovane parroco, don Janovich, che ha celebrato le esequie di Dorothy, sin dal giorno del funerale si è presentato in casa di Walter, durante il rinfresco, comunicandogli che intende “confessarlo”, avendolo promesso a Dorothy. «Non ho alcuna intenzione di confessarmi, a un ventisettenne vergine che gode tenendo la mano di vecchie superstiziose alle quali promette il paradiso. […].  Io venivo in chiesa solo per far piacere a Dorothy». Porta in faccia.

Qualche giorno dopo al pub con gli amici (l’unica scena, oltre quella dal barbiere, suo amico di origine italiana, in cui vediamo Walter attivare un minimo di socializzazione), don Janovich torna all’attacco, cortesemente, cercando di parlargli. Walter, si stacca dagli amici ai quali sta raccontando una barzelletta, accetta di offrirgli qualcosa, anche, forse, per farsi perdonare di averlo cacciato precedentemente.

Don Janovich esordisce, «Voglio parlare con lei della vita e della morte». / «Cosa ne sa lei della vita e della morte?». Walter inizia a raccontare del suo passato, che lo tormenta, di soldato in Corea. «Uccidevamo diciassettenni all’arma bianca, con la baionetta, e poi a colpi di badile.  […].  Non posso dimenticare. […]».

  1. Il primo ‘incidente’. Verso il disgelo.

Poi accade un primo ‘incidente’ per Walter, in cui sono coinvolti i vicini Hmong. Una gang di ragazzi Hmong, capeggiata dal cugino prepotente di Thao, che intende aggregarlo a forza nel gruppo delinquenziale, aggredisce il ragazzo, entrando nel giardino. È sera, d’estate, fa caldo. Sue e Thao sono sul patio della loro casa. Sue, la madre, la nonna e un vicino, accorrono cercando di staccare il ragazzo dalle mani dal gruppo. Ma la gang, formata da cinque ragazzi, ha la meglio e lo sta portando verso la loro auto. Nel montaggio stretto dei primi piani della colluttazione tra aggressori e aggrediti, nel buio della sera, ecco emergere una canna di fucile (M1 Garand) e il primo piano di Walter. Egli, come farebbe un soldato, punta l’arma sui volti dei bulli. «Ehi nonnetto, torna in casa», lo schernisce uno della banda, quello grasso, «Prima ti faccio un buco sulla fronte. Noi con le caccole come voi ci facevamo i muretti in Corea. Fuori dal mio terreno!» In effetti nella colluttazione la gang ha sconfinato nel giardino di Walter Kowalski, che egli cura falciando regolarmente l’erba. La gang lascia libero Thao, torna verso la bianca auto, con tanto di volgare alettone sul cofano, minacciando Walter che si sarebbero rivisti.

L’avvertimento minaccioso di Walter “Fuori dal mio terreno” prima si rivolge alla gang, poi anche ai vicini. Il personaggio vive l’odio per lo straniero e per chiunque osi violare la sua proprietà, il suo mondo: bianchi, gialli o neri che siano. Adotta un codice militare, da ex soldato. Walter, ribadiamo, si oppone all’altro, chiuso nel suo mondo egoistico, dentro una Weltanschauung autoreferenziale.

  1. Quando dire grazie apre al “tu”.

L’ex soldato, l’ex operaio della Ford, dunque, in questo momento del racconto (e della sua vita di anziano) non accetta l’altro, vive in quello che Martin Buber chiama «ripiegamento». «Chiamo ripiegamento il sottrarsi all’accettazione adeguata dell’essere di un’altra persona […]». (Dialogo, in Il principio dialogico e altri saggi, Milano, Mursia 1991, p. 210). Walter è rinserrato in sé, non sa rivolgere lo sguardo oltre se stesso o, nel nostro caso, sa solo minacciare con lo sguardo cattivo l’altro (Walter, non accettando i «musi gialli», come vicini, sfida la nonna a sguardi schifati, che a sua volta, dalla sua sedia, nel patio, gli risponde attraverso una sorta di duello western a occhiatacce).

Il giorno successivo alla rissa, i residenti Hmong portano fiori e cibo, deponendoli sugli scalini della casa di Walter. Sue spiega che ora lui è «considerato un eroe dagli Hmong del quartiere» per aver scacciato quei teppisti. La ragazza aggiunge che ha protetto una famiglia priva di un padre. Dunque, la difesa armata del «mio terreno» è letta dagli Hmong come la difesa del più debole, addirittura un prendersi cura di una famiglia senza un padre, tra l’altro, non ancora del tutto integrata (mamma e nonna, di Sue e Thao, non parlano l’inglese). Dal punto di vista della diegesi è una traccia prolettica sapientemente occultata nella sceneggiatura, chiamata a emergere nel prosieguo del racconto, in quella che potremmo chiamare la conversione di Walter. Questi rimane nel suo ripiegamento, ma il “grazie” di Sue, Thao, della mamma (la nonna è ancora diffidente nel suo silenzio) sono un’implicita offerta di dialogo, non percepita coscientemente da Walter, un seme gettato dal caso nel suo mondo.

  1. Il secondo incidente. Inizia il dialogo

Un pomeriggio Walter assiste dal suo pick-up, mentre sta rientrando verso casa, in una via periferica del quartiere, all’accerchiamento a opera di tre ragazzi afroamericani ai danni di Sue e del suo ragazzo bianco, mentre passeggiano.  I tre ragazzi, dopo aver minacciato il ragazzo e allontanatolo, attaccano volgarmente Sue, circondandola, facendole capire che intendono violentarla. Walter, assiste da lontano, dall’abitacolo della vettura. Poi accosta e fissa il gruppo dal finestrino aperto. «Cosa hai da guardare vecchio?». Walter dice a Sue di salire. Ma i tre bulli glielo impediscono, la tengono prigioniera. «Vattene vecchio, porta via il tuo grinzoso culo bianco». Walter scende e mima, lentamente, con la mano la pistola, con l’indice come grilletto, puntandola contro i tre, i quali continuano a deriderlo, dandogli del matto. Al che davanti alla successiva minaccia ricevuta Walter estrae una pistola dalla cintola dei pantaloni. Solo allora i ragazzi mollano la presa sulla ragazza; Sue sale in auto.

Inizia un dialogo tra la cinese, figlia di immigrati, e l’americano autoctono, un tempo figlio di immigrati polacchi. Sue spiega che lei non è «vagamente cinese» ma Hmong, una etnia che vive in diversi parti dell’Asia: Laos, Thailandia, Cina, Vietnam, ecc. «Noi veniamo dal Vietnam e durante la guerra eravamo dalla vostra parte.  Alla fine del conflitto molti sono sati imprigionati e alcuni sono emigrati». «Perché siete finiti nel mio quartiere?», questiona Walter con ironia, sempre meno sarcastica. «Chieda ai luterani se siamo qui!», replica Sue con un sorriso solare. Walter, che ha scambiato Hmong per una regione e ora sta imparando qualcosa sull’Asia grazie a Sue, che spiega con calma pedagogica chi sono gli Hmong, è decisamente sorpreso da quel ‘muso giallo’. Il volto sereno della ragazza, il suo parlare sorridendo, l’armonia del suo tono (perfetto il doppiaggio italiano di Valentina Mari), l’acuta ironica battuta sui luterani, lo hanno decisamente conquistato. Commenta, sempre guidando: «Sei una ragazza ok».

La conversazione lo sta portando verso la conversione. Improvvisamente la visione del mondo di Walter subisce uno scossone: si apre all’altro. Infatti la «Weltanschauung è l’incontro tra l’uomo e il mondo, uno starsi di fronte, sguardo nello sguardo […]». (R. Guardini, La visione cattolica del mondo, Brescia, Morcelliana, 1994, p. 23). E nel pick-up dell’uomo gli sguardi si incontrano: nonostante egli, stando alla guida, debba guardare dove lo porta la strada.

  1. Una nuova famiglia

I due fratelli Hmong ora instaurano una comunicazione con Walter, canale che porterà a un reciproco prendersi cura. Qualche giorno dopo Sue, andata a trovare Walter, vede che non ha pranzato e ha terminato la birra. Lo invita alla festa in casa sua. Il caso vuole che sia il pomeriggio del compleanno di Walter, di cui sopra.  Entrato in casa dei vicini, Sue presenta Walter agli amici e parenti, spiegandogli alcune usanze Hmong. Per esempio, «non carezzare» – come ha fatto involontariamente l’uomo – «la testa dei bambini: per gli Hmong nella testa risiede lo spirito della persona».

Walter trova un lavoro come carpentiere a Thao presso un amico costruttore. La regia di Eastwood, costruisce una diegesi a sottrarre eventuali inutili glosse psicologistiche nella narrazione, trasmettendo allo spettatore la velata sensazione che Thao, inconsciamente, stia trovando in Walter quella figura paterna che gli manca; e questi, forse, stia scoprendo in quel muso giallo un figlio adottivo più autentico dei nipoti. Ormai l’altro è entrato nella mia vita, e io sono nell’altro: «In qualsiasi modo si possa compiere il passaggio al vivere pieno […] in ogni caso la mia vita esperisce un afflusso dall’esterno, essendo a contatto con la vita dell’altro e proprio questo aumento e arricchimento della mia vita fa apparire quella dell’altro con la stessa vivacità, gli attribuisco la mia stessa originarietà […]» (Edith Stein, La conoscenza della persona in Introduzione alla filosofia, Città Nuova, 2001, p. 215).

  1. Dall’automobile alla persona: metamorfosi del prendersi cura

Ignorato dai parenti, deluso dalla Storia del suo Paese, della sua storia personale, il protagonista, come abbiamo visto, pratica una cura non-curante della vita. Prendendosi passivamente cura dell’oggetto feticcio, la Gran Torino, Walter colma il vuoto sentimentale della sua vita ridottasi a deserto d’amore, al non dialogo, (un pomeriggio dopo averla lavata, seduto nel patio con la solita birra in mano, l’ammira e rivolgendosi a Daisy, «Non è una chicca?»).

Ma il prendersi cura della Gran Torino è una falsa cura fino a quando essa rimane una artefatta estensione del sé. Infatti l’auto simboleggia la difesa del passato, come notato, il ripiegamento buberiano. Walter la lava, l’ammira, ma non la usa mai. Non ci vive assieme. La osserva come fosse una mummia. L’auto non viaggia.  La Gran Torino non vive una vita vera, ma una vita riflessa del passato.

Solo nella scena finale l’auto “resuscita”. Quando maestosamente solca le lunghe strade del Michigan, lungo il lago Erie. Alla guida della Gran Torino è Thao, con accanto Daisy. La superba lunga sequenza, risolta con un campo lunghissimo in semi-plongée, è indimenticabile. La Gran Torino è tornata in vita grazie alla efficace cura di chi se ne prende cura. «Lascio la Gran Torino a Thao, a patto che non ci monti quei volgari alettoni sul cofano».

Solo se sappiamo dare un senso alle cose esse ci aiutano nel prenderci/si cura. «La via che porta agli altri e che facciamo insieme agli altri passa attraverso le cose» (B. Waldenfels, Sozialistat und Alterität, p. 231, in F. G. Menga, Cura, Milano, Corriere della Sera – Rizzoli, 2023, p. 98).

Ora, la Gran Torino sancisce un dialogo io-tu, anche spirituale, che durerà per tutta la vita, tra Thao e Walter. Questi, lasciando nel testamento la Gran Torino a Thao (dreyeriana la delusione sui primi piani dei parenti davanti al notaio), ha compiuto il suo attraversamento del deserto dell’io, è arrivato ad abbracciare l’altro, uno dei quei «musi gialli» che odiava sino a poche settimane prima.  È giunto anche al per-dono a/tramite se stesso. Ha cambiato la sua visione del mondo.  Ha donato l’auto a Thao, la casa alla parrocchia («come desiderava Dorothy»), la confessione a se stesso («come desiderava Dorothy»).

La confessione, per Walter Kowalski, è una conversazioneconversione prima della morte, un collegarsi con l’amata defunta: «[…] un defunto, che a differenza del semplice deceduto è stato rapito a ‘coloro che restano’, è oggetto del prendersi cura nella forma dei funerali, inumazione e culto della tomba. […] Nell’intimità con lui, soffrendo e pensandolo, coloro che rimangono sono con lui nel modo di averne cura deferente […]» M. Heidegger, Essere e tempo, Milano, Longanesi, 1978, p. 292).

CINEMA ENDOXA - BIMESTRALE FILOSOFIA

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