CURA, VULNERABILITÀ E SOLIDARIETÀ
EDOARDO GREBLO
Il tema della cura ha dimostrato nel corso del tempo una straordinaria capacità di irradiarsi su campi disciplinari molto diversi l’uno dall’altro, dall’etica alla psicologia dell’età evolutiva, dalla sociologia alla filosofia politica – e l’elenco potrebbe continuare. Ciò si deve probabilmente al fatto che il tema è servito da catalizzatore per imprimere un sostanziale mutamento di prospettiva alla filosofia morale e politica. Basta gettare uno sguardo cursorio alle teorie politico-morali prevalenti per osservare come i criteri fondamentali che le guidano siano ispirati a quei principi di universalità, neutralità e imparzialità che contribuiscono a sostenere una immagine dell’uomo (uomo non per caso) quale soggetto ‘sovrano’, autosufficiente, indipendente e autonomo. Una strategia che ha di fatto reso teoricamente marginale la prospettiva etico-politica disponibile invece a farsi carico dei bisogni di corpi incarnati e vulnerabili, basati su relazioni interpersonali caratterizzate da rapporti di asimmetria, vulnerabilità e dipendenza. L’etica della cura, in sintonia peraltro con le filosofie dell’alterità proposte per esempio da Lévinas, Ricœur e Jonas, vede nella vulnerabilità la condizione primaria in cui è dato riconoscere ciò che caratterizza l’umano e che permette di recuperare una concezione politica della persona caratterizzata, come ha scritto Martha Nussbaum, dal “nostro essere animali bisognosi e temporali, che iniziano ad esistere come bambini per terminare spesso la propria vita in altre condizioni di dipendenza”. Proprio grazie alle riflessioni femministe sull’etica della cura il tema della vulnerabilità ha così restituito al pensiero critico una prospettiva che oppone alla figura del soggetto sovrano quella di un soggetto per il quale i bisogni relazionali non si esauriscono in una forma di cooperazione tra pari basata su calcoli di tipo utilitaristico e improntata alla logica del mutuo vantaggio. Ma che assume, invece, come orizzonte di riferimento l’intrinseca socialità della nostra condizione, che ci vede tutti dipendenti gli uni dagli altri e uniti da un legame che connette le nostre vite in un vincolo reciproco e indissolubile.
Ora, oggi più mai, nell’epoca in cui l’egemonia politico-culturale acquisita dal neoliberalismo ha finito per prosciugare le fonti della solidarietà sociale, il tema della cura è diventato cruciale per contrastare una visione competitiva della vita sociale che genera effetti stigmatizzanti per coloro che non riescono a stare al passo con le esigenze imposte dal principio economico della concorrenza, che vede nella forma impresa il criterio regolativo generale delle relazioni sociali. Il neoliberalismo non è infatti soltanto un progetto politico-economico. È anche un progetto antropologico, che impone al comportamento sociale di assimilarsi a una forma di agire strategico spiegabile in termini di calcolo egocentrico al fine di trasformare le relazioni sociali in transazioni d’interessi e calcoli di utilità. Un progetto che si propone come una norma di vita volta a rieducare gli individui ad agire quali attori razionali mossi soltanto da interessi personali, ad assimilare la libertà d’azione alla scelta del consumatore e a valutare ogni genere di prestazione individuale sulla base degli indicatori di successo e fallimento stabiliti dal mercato. Il neoliberalismo trasforma l’uomo in capitale umano, in un soggetto che deve gestire la propria individualità e le proprie capacità quali altrettante risorse economiche da capitalizzare. L’altruismo, la generosità, la solidarietà e lo spirito civico sono beni che vanno usati con parsimonia, poiché sono risorse scarse che si esauriscono con l’uso. Non può sorprendere, allora, la diffusione che ha avuto l’idea secondo la quale la solidarietà debba essere subordinata alla benevolenza altrui oppure dipendere da logiche di tipo assistenziale, che negano ai soggetti deboli e vulnerabili la qualità di titolari di specifici diritti e che, in questo modo, ne confermano la subalternità.
La versione neoliberale della soggettività è costruita a misura di una concezione della politica quale strumento per la realizzazione di scopi privati e di una concezione della società come un campo di battaglia fra interessi antagonisti, dove gli individui coordinano le loro azioni e la loro vita secondo calcoli di utilità e sulla base del mutuo interesse. La società è concepita come un luogo nel quale tutto può essere ragionevolmente oggetto di scambio e dove anche le relazioni sociali vanno modificate e trasformate seguendo la logica del mercato. La tendenza a ricondurre l’insieme delle relazioni sociali, e quindi la loro trascrizione giuridica, alla sola logica dell’interesse personale promuove un’etica del soggetto quale atomo sociale performante e competitivo, come un individuo indotto a concepire se stesso nei termini di un’impresa che vende un servizio su un mercato per conquistare status sociale, sicurezza materiale e prestigio personale. Il soggetto neoliberale è una figura che partecipa liberamente al libero gioco delle forze di mercato e investe nella competizione tutte le sue risorse e tutte le sue aspettative, ne accetta i rischi e le incertezze e non si aspetta alcuna forma di sostegno collettivo o di aiuto pubblico. I mercati, che fanno affidamento sull’interesse individuale, rendono superflua la risorsa limitata della solidarietà o ne svuotano gli ingredienti fondamentali – comprensione, generosità, premurosità, attenzione – di ogni significato. Le dinamiche della concorrenza rappresentano il modello di una cooperazione che si consegna a una razionalità identificata con il calcolo e richiedono soggetti che si affidano a considerazioni puramente autoreferenziali, in cui si realizza quella completa fusione tra forma di mercato e forma di vita che impone agli individui un lavoro di autovalorizzazione capace di spingersi sino a livello intrapsichico. Si tratta di modello che legittima la competizione individuale fra individui autonomi, che operano uti singuli secondo fini strategici in quanto membri della società privata e rinunciano a ogni possibilità di abbandonare individualismo e egoismo per passare all’azione solidale, e ripropone una solidarietà che unisce l’irresponsabilità pubblica all’ingannevole responsabilità privata restituendo nuova attualità alle vecchie pratiche volontaristiche della beneficenza e della compassione.
Rispetto a queste pratiche di vera e propria desolidarizzazione sociale l’etica della cura, che pone l’accento sulla trama di rapporti di dipendenza, e quindi di relazioni asimmetriche, in cui gli individui sono coinvolti nei confronti delle persone o delle istituzioni che sono necessarie al soddisfacimento dei loro bisogni o desideri rappresenta un necessario e indispensabile antidoto. Questo non significa che a un’etica della cura e della vulnerabilità non ci possa accostare senza manifestare riserve e cautele, soprattutto in rapporto al suo possibile valore normativo. Detto in sintesi: la categoria di vulnerabilità, che l’etica della cura restituisce meritoriamente al centro dell’attenzione, può essere impiegata come una risorsa strategica dotata di un valore critico capace di mettere in moto una dinamica pratica di trasformazione della situazione sociale ingiusta, oppure risulta inevitabilmente associata a una relazione di dominio e subalternità, o addirittura di violenza? Per questo, anche se la recente teoria femminista ha sottolineato l’importanza della dimensione della vulnerabilità dell’umano allo scopo di smascherare l’illusione della nostra indipendenza e valorizzare invece la nostra interdipendenza, non ha tuttavia mancato di mettere in guardia circa alcuni possibili equivoci, a cominciare dal rischio di trasformare la categoria in una pura disposizione emotiva o sentimentale, e quindi inidonea a essere applicata in ambito giuridico e politico.
Tuttavia, non sono pochi i teorici secondo i quali la categoria di vulnerabilità contiene, seppure a certe condizioni, con le dovute cautele e le necessarie precisazioni, un potenziale emancipativo e normativo capace di coinvolgere e trasformare l’intera struttura sociale. In particolare, per definire l’origine relazionale della normatività. E ciò per fornire non solo un criterio normativo, ma anche l’indicazione di un processo e di una possibile strategia da adottare, nella convinzione che il soggetto morale si costituisce riflessivamente attraverso dinamiche pratiche specifiche. L’idea è che questa categoria possa indicare l’origine normativa delle nostre relazioni intersoggettive e possa anche, di conseguenza, definire i presupposti a partire dai quali tracciare i principi generali di una teoria della giustizia come quella che prende forma dell’etica della cura o nella teoria del riconoscimento. Anche, in entrambi i casi, per spezzare l’illusione di ogni individuale assolutezza esibita da un soggetto sovrano e autoreferenziale e in modo da prefigurare la possibilità di pensare una diversa struttura della soggettività, una soggettività consapevole della propria dipendenza costitutiva, del vincolo che ci lega gli uni agli altri in un rapporto di reciproca interdipendenza e di mutua responsabilità.
Dal momento che non è possibile rinunciare all’idea di un’intersoggettività primaria della vita dell’uomo, non è neppure auspicabile sradicare l’esperienza della vulnerabilità quale dimensione costitutiva dell’umano – che, come si è ripetuto più volte, serve a ribadire l’intrinseca socialità della nostra condizione, che ci vede tutti dipendenti gli uni dagli altri e uniti da un legame che connette le nostre vite in un vincolo reciproco e indissolubile. È però opportuno distinguere, in generale, tra relazioni di riconoscimento che possono favorire l’autonomia razionale del soggetto e relazioni improntate a forme di autoritarismo, rigidità e imposizione di aspettative eccessive. L’apertura all’altro evocata dalla vulnerabilità messa in luce dall’etica della cura non è infatti priva di ambivalenze, che possono essere articolate secondo tre diverse prospettive. La vulnerabilità può, in primo luogo, designare l’orizzonte di apertura che è proprio di ogni vita incarnata, quella condizione per cui da sempre, e già solo per il fatto di essere corpi, esistiamo oltre noi stessi e ci troviamo in relazione con le vite degli altri e con l’esperienza della sofferenza e del disagio nei suoi segni materiali e sensibili. Può anche, in secondo luogo, indicare l’orizzonte di un’apertura psicologico-morale nei termini di una disposizione positiva dell’individuo sia con se stesso sia con gli altri, così da evitare un atteggiamento distaccato e oggettivante di ripiegamento su di sé e di chiusura egocentrica. E può, infine, implicare un’apertura all’altro che si presenta secondo varie modalità possibili: sia, in positivo, quando recupera quelle forme di interdipendenza che impongono di farsi carico dei soggetti in condizioni di necessità e che richiedono interventi di cooperazione solidale, sia in negativo, quando degenera nella esposizione a forme di potere arbitrario e ad abusi della vulnerabilità.
Una volta interpretato in questa prospettiva il tema della vulnerabilità non può più però rimanere circoscritto al solo ambito etico o normativo, ma finisce per trasferirsi sul terreno politico. Ciò significa che non basta ricavare i criteri di valutazione normativa da un’“antropologia debole” che si richiama alla natura intersoggettiva e relazionale dell’identità umana. È anche, e soprattutto, necessario affrontare le fonti di vulnerabilità che appaiono lesive per l’integrità, e talvolta persino per la vita, delle persone, quando dipendono dalla situazione e sono riconducibili a fattori politici, sociali, economici sui quali i diretti interessati non hanno modo di intervenire. Ciò suggerisce l’idea che proprio le forme normative di relazionalità che derivano dalla nostra vulnerabilità abbiano un particolare valore, poiché si basano sulla cura che si tratta di incentivare per i vincoli profondi che legano gli individui gli uni agli altri in un contesto che non può più essere fatto rientrare nel modello dei rapporti contrattuali di scambio fra eguali. Il fatto che, per effetto della sua naturale ambivalenza, in determinate circostanze la vulnerabilità possa risultare problematica perché, come si è accennato, può essere in contrasto con la percezione che ne hanno i diretti interessati relativamente alle conseguenze che produce sulle loro vite, rende necessario fare in modo che possa essere trattata come una questione aperta che va affrontata in modo diverso a seconda dei contesti e delle situazioni in cui si presenta. Se è perciò vero che la cura per la vulnerabilità rientra in una nozione universale e intrinseca alla condizione umana, una politica di cura impegnata a porre rimedio alla vulnerabilità involontaria o in contrasto con le legittime aspettative dei soggetti non può però non assumere tratti contestuali e contingenti, che tengano conto dei fattori sociali, ambientali o culturali che la determinano.