LA CURA IN “LINGUE DIVERSE”
CLAUDIA MANZIONE
Queste riflessioni non sono, come il titolo – a primo acchito – potrebbe falsamente suggerire, la disamina di come il termine cura si declina in lingue diverse o della diversità che concerne le sue accezioni semantiche o i suoi significati culturali, ma di come sia possibile – se lo sia, in qualche misura e, dunque, in quali possibili forme – prendersi cura di coloro con le/i quali non condividiamo la stessa lingua (e se ciò davvero sia importante per il prendersi cura), per provare a dire se esista un modo, o differenti modi, di comunicare altrettanto validi che ci permettano, parimenti, di riflettere su cosa intendiamo con il “prendersi cura” e se la cura sia limitata alla comunicazione e al soddisfacimento di un bisogno o possa declinarsi anche in altro modo.
Non capire cosa ci viene detto, quando ci è comunicato o richiesto qualcosa, non ci lascia imperturbabili. Molto spesso, se non sempre, non poter capire ci confonde, genera finanche sentimenti negativi di impotenza; ci impietrisce e ci invita a re-interrogare chi ci è di fronte. Alcune volte la ripetizione è utile e dissipa i nostri dubbi, altre volte non c’è soluzione: non si avrà mai la possibilità di comprendere cosa sta dicendo, sostenendo o richiedendo la persona di cui non conosco la lingua; ancorché mi sforzi, ancorché l’altro/a di fronte a me mimi la cosa, la sensazione, il sentimento che mi vuol comunicare, come farebbe un attore protagonista di un film muto.
La domanda che si può porre è dunque se la cura (o meglio, la possibilità di prendersi cura) fallisca, già da sempre, nel momento in cui io non sono in grado – qui ho evidenziato il limite linguistico, ma molti altri potrebbero esservene – di comprendere chi mi è di fronte o se vi possa essere un senso diverso di cura, che non sia sic et simpliciter la capacità o meno di rispondere, di essere sollecite/i e di risolvere il bisogno delle/gli altre/i.
A mio avviso discutere sul significato che possiamo dare alla cura, significa interrogare il senso in cui noi intendiamo una cura che si declini come “buona”, che può dunque essere apprezzabile. Alcune autrici – nell’ambito di quel paradigma filosofico che è noto come Etica della Cura – quali Virginia Held, Joan Tronto e altre, hanno – semplificando – inteso che il “prendersi cura” potesse identificarsi, in un certo senso, quasi alla stregua di sinonimo di “responsività”, intendendo la capacità di essere sollecite/i rispetto ai numerosi bisogni materiali e psicologici che potrebbero riguardare gli esseri umani, nelle immense differenze che possono esistere tra di loro. Per tale motivo, non tanto in Tronto, ma sicuramente in Held (ed altre, come Noddings o Ruddick, prima di lei) è stato il modello delle cure materne ad avere indubbio successo, per la sua capacità di esemplificare cosa possa rappresentare la “buona” cura per gli esseri umani: quella che proviene dalle proprie madri o, fuor da forme di essenzialismo, dai propri genitori. In questo senso, il prendersi cura si declina – per lo più – come il modo in cui siamo in grado di rispondere al bisogno dell’altra/o e il configurarsi della madre – come sostenuto da Silvia Vegetti Finzi – come l’espressione del miglior modo in cui tale risposta al bisogno può darsi; poiché la madre è onnipotente, o meglio rappresenta un’onnipotenza che si autolimita dinanzi all’estrema vulnerabilità, generando una risposta: veloce, attenta e affettuosa.
Nonostante – nell’idea che vorrei proporre – ripudiare toutcourt le cure materne come un esempio di relazione da cui attingere non sia sempre proficuo, non è nella direzione di edificare intorno a questo tipo di relazione il paradigma della buona cura. Se ci comportassimo idealmente, tutte e tutti, come se fossimo le madri di qualcuna/o allora potremmo secondo tali prospettive essere certe/i di star fornendo un tipo di cura che soddisfa quei “criteri” che ne fanno emergere la bontà, ovvero la certezza che l’operare nella risposta al bisogno è qualcosa che vede un impegno che si dà in una giusta e proficua direzione. In questa prospettiva, quella delle cure materne, finanche il non poter parlare la stessa lingua (nel senso più proprio di un non poter proprio parlare, almeno da parte del neonato) non appare come un problema. Anche quando il bambino o la bambina non sono in grado di esprimersi, l’idea è quella che i genitori sono – comunque – in grado, comunque istruiti per comprendere cosa il proprio figlio o figlia ha da dire. Talvolta, non viene ad essere considerato che a questo modo di intendere la cura, segue una tendenza paternalistica (o maternalistica) del sentirsi capaci di comprendere pienamente cosa chi ci è di fronte ci sta chiedendo, modulandolo sulle nostre immagini, sui nostri desideri e sui nostri schemi.
Il problema che si pone è in tal caso – a mio avviso –, il seguente. Il misurare la capacità di cura in base alla responsività di ciascuna/o nei confronti dei bisogni di un’altra/o è estremamente limitante e, in altri termini, vede innumerevoli possibilità di fallimento. Prendersi cura non può essere inteso in qualità di un meccanismo input/output per cui ad una richiesta segue una risposta, a meno di non volere annullare qualsivoglia complessità ascrivibile agli esseri umani, ai loro desideri e ai modi in cui hanno di comunicare questi ultimi.
L’idea di cura che, tuttavia, vorrei sostenere è ben diversa dalla possibilità di essere intesa alla stregua di un meccanismo di risposta ad una richiesta, ma – si potrebbe dire – concerne più che altro la possibilità di creare degli spazi e, in altri termini, degli spazi di ascolto. La creazione di spazi di ascolto – differentemente dall’intendere la cura come un impegno limitato alla risposta qui ed ora – vorrebbe significare ed implicare un impegno costante, volto – vorrei sostenere – a far emergere le istanze di ciascuno/a. D’altra parte, non è un impegno che richiede o auspica un sicuro successo, per quanto lo ricerchi e provi a generarne quelle che sono le condizioni. Non è, neppure, un impegno che si limita solo ad alcune categorie di persone: i genitori (per un certo periodo di tempo), i caregiver professionisti e non professionisti, i/le medici/che, chi è spinta/o da una certa vocazione all’aiuto o al sacrificio (ecc.), ma aspira ad essere un’attitudine.
In questo caso, non parlare la stessa lingua, non poter discutere a partire da un medesimo back-ground (che sia culturale o d’altro tipo) non può trovare una soluzione percorribile in un atteggiamento di tipo paternalistico/maternalistico. Espressioni, forse presuntuose, come: “so io di cosa hai bisogno”, “so io cosa ci vuole per te” sono – potremmo dire – nemiche della strada che si sta cercando di perseguire. Questo sarebbe forse vero se gli umani avessero un solo modo di crescere e vivere, un’unica idea di cosa significa desiderare e fiorire, un’unica idea di relazione, di affetto, di amore, di sollecitudine, di cosa sia il bene o il benessere. Ma allora se non parliamo la stessa lingua (che di per sé è un limite, ma non il solo) e se non possiamo avere la pretesa di poter dire con ragionevole certezza che “sì, è di questo che hai bisogno” perché “conosco o posso immaginare quale sia il tuo bene”, come ci prendiamo cura delle/gli altre/i?
Vorrei dire che parlare o meno la medesima lingua può essere un vantaggio solo se intendiamo la cura nel senso ristretto di un meccanismo di risposta ad una richiesta, ma non è tutto se – per converso – intendiamo la cura nel suo senso più articolato e complesso, ovvero come creazione degli spazi di ascolto: che non sono tanto, o almeno non solo, gli spazi dove ciascuna/o può parlare, ma soprattutto gli spazi dove ognuna e ognuno di noi può essere “visto”, che è in un certo qual senso precondizione del poter parlare. La dimensione della visione è l’essere riconosciute/i – appunto visti e viste – come esseri umani, per poter in qualche modo esistere come esseri desideranti, ognuna/o secondo la propria idea.
Non è tanto il potersi parlare o capirsi con facilità la condizione della relazione con le/gli altre/i (perché allora potremmo limitarci a dire che “cura” è l’interessarsi verso chi ha un bisogno che esprime e che posso comprendere senza sforzo), ma il riconoscimento della fallibilità che può riguardare la possibilità degli/delle altri/e di dirsi, così come la pretesa di comprenderli.
Quando – forse con un certo grado di umiltà – chiediamo a chi ci è di fronte di ripetere cosa sta dicendo, di andare più piano; quando ammettiamo che forse abbiamo un limite nella capacità di capire e lo palesiamo all’altra/o, gettiamo le basi per una comprensione reciproca che forse non è stata ottimale e non lo sarà, ma almeno è stata riconoscente – dove con “riconoscente” voglio intendere in grado di vedere l’umanità di chi è di fronte a me. Questa condizione di ammissione del limite si potrebbe dare, tuttavia, in un senso più complesso del mero “ripeti ciò che hai detto, perché non conosco abbastanza bene la tua lingua” – anche se mi pare possa rappresentare un buon esempio – quando arrivi a considerare la non limpidezza di assi di dimensioni diverse che abitano noi e le/gli altre/i intorno a noi, che sono materiali, simbolici, esperienziali e psicologici.